XX
Se avessi l’ingegno del Cervantes, io farei un libro per purgare, come egli la Spagna dall’imitazione de’
cavalieri erranti, così io l’Italia, anzi il mondo incivilito, da un vizio che,
avendo rispetto alla mansuetudine dei costumi presenti, e forse anche in ogni
altro modo, non è meno crudele né meno barbaro di qualunque avanzo della
ferocia de’ tempi medii castigato
dal Cervantes. Parlo del vizio di leggere o di
recitare ad altri i componimenti propri: il quale, essendo antichissimo, pure
nei secoli addietro fu una miseria tollerabile, perché rara; ma oggi, che il
comporre è di tutti, e che la cosa più difficile è trovare uno che non sia
autore, è divenuto un flagello, una calamità pubblica, e una nuova tribolazione
della vita umana. E non è scherzo ma verità il dire, che per
lui le conoscenze sono sospette e le amicizie pericolose; e che non v’è ora né
luogo dove qualunque innocente non abbia a temere di essere assaltato, e
sottoposto quivi medesimo, o strascinato altrove, al supplizio di udire prose
senza fine o versi a migliaia, non più sotto scusa di volersene intendere il
suo giudizio, scusa che già lungamente fu costume di assegnare per motivo di
tali recitazioni; ma solo ed espressamente per dar piacere all’autore udendo,
oltre alle lodi necessarie alla fine. In buona
coscienza io credo che in pochissime cose apparisca più, da un lato, la
puerilità della natura umana, ed a quale estremo di cecità, anzi di stolidità,
sia condotto l’uomo dall’amor proprio; da altro lato, quanto innanzi possa
l’animo nostro fare illusione a se medesimo; di quello che ciò si dimostri in
questo negozio del recitare gli scritti propri. Perché, essendo ciascuno consapevole a se stesso della molestia ineffabile
che è a lui sempre l’udire le cose d’altri; vedendo sbigottire e divenire
smorte le persone invitate ad ascoltare le cose sue, allegare ogni sorte
d’impedimenti per iscusarsi, ed anche fuggire da esso
e nascondersi a più potere; nondimeno con fronte metallica, con perseveranza
meravigliosa, come un orso affamato, cerca ed insegue la sua preda per tutta la
città, e sopraggiunta, la tira dove ha destinato. E
durando la recitazione, accorgendosi, prima allo sbadigliare, poi al
distendersi, allo scontorcersi, e a cento altri
segni, delle angosce mortali che prova l’infelice uditore, non per questo si
rimane né gli dà posa; anzi sempre più fiero e accanito, continua aringando e gridando per ore, anzi quasi per giorni e per
notti intere, fino a diventarne roco, e finché, lungo tempo dopo tramortito
l’uditore, non si sente rifinito di forze egli stesso, benché non sazio. Nel
qual tempo, e nella quale carnificina che l’uomo fa
del suo prossimo, certo è ch’egli prova un piacere
quasi sovrumano e di paradiso: poiché veggiamo che le
persone lasciano per questo tutti gli altri piaceri, dimenticano il sonno e il
cibo, e spariscono loro dagli occhi la vita e il mondo. E
questo piacere consiste in una ferma credenza che l’uomo ha, di destare
ammirazione e di dar piacere a chi ode: altrimenti il medesimo gli tornerebbe
recitare al deserto, che alle persone. Ora, come ho detto, quale sia il piacere
di chi ode (pensatamente dico sempre ode, e non ascolta),
lo sa per esperienza ciascuno, e colui che recita lo
vede; e io so ancora, che molti eleggerebbero, prima che un piacere simile,
qualche grave pena corporale. Fino gli scritti più belli e di
maggior prezzo, recitandoli il proprio autore, diventano di qualità di uccidere
annoiando: al qual proposito notava un filologo mio amico, che se è vero che
Ottavia, udendo Virgilio leggere il sesto dell’Eneide, fosse presa da uno
svenimento, è credibile che le accadesse ciò, non tanto per la memoria, come dicono,
del figliuolo Marcello, quanto per la noia del sentir leggere.
Tale è l’uomo. E questo vizio ch’io dico, sì barbaro e sì ridicolo, e contrario al senso
di creatura razionale, è veramente un morbo della specie umana: perché non v’è
nazione così gentile, né condizione alcuna d’uomini, né secolo, a cui questa
peste non sia comune. Italiani, Francesi, Inglesi, Tedeschi;
uomini canuti, savissimi nelle altre cose, pieni d’ingegno e di valore; uomini
espertissimi della vita sociale, compitissimi di
modi, amanti di notare le sciocchezze e di motteggiarle; tutti diventano
bambini crudeli nelle occasioni di recitare le cose loro. E come è questo vizio de’ tempi
nostri, così fu di quelli d’Orazio, al quale parve già insopportabile; e di
quelli di Marziale, che dimandato da uno perché non
gli leggesse i suoi versi, rispondeva: per non udire i tuoi: e così anche fu
della migliore età della Grecia, quando, come si racconta, Diogene cinico,
trovandosi in compagnia d’altri, tutti moribondi dalla noia, ad una di tali lezioni,
e vedendo nelle mani dell’autore, alla fine del libro, comparire il chiaro
della carta, disse: fate cuore, amici; veggo terra.
Ma oggi la
cosa è venuta a tale, che gli uditori, anche forzati, a fatica possono bastare
alle occorrenze degli autori. Onde alcuni miei conoscenti, uomini industriosi,
considerato questo punto, e persuasi che il recitare i componimenti propri sia uno de’ bisogni della natura
umana, hanno pensato di provvedere a questo, e ad un tempo di volgerlo, come si
volgono tutti i bisogni pubblici, ad utilità particolare. Al quale effetto in
breve apriranno una scuola o accademia ovvero ateneo di ascoltazione;
dove, a qualunque ora del giorno e della notte, essi, o persone stipendiate da
loro, ascolteranno chi vorrà leggere a prezzi determinati: che saranno per la
prosa, la prima ora, uno scudo, la seconda due, la terza quattro, la quarta
otto, e così crescendo con progressione aritmetica. Per la poesia
il doppio. Per ogni passo letto, volendo tornare a leggerlo, come
accade, una lira il verso. Addormentandosi
l’ascoltante, sarà rimessa al lettore la terza parte
del prezzo debito. Per convulsioni, sincopi, ed altri accidenti leggeri o
gravi, che avvenissero all’una parte o all’altra nel
tempo delle letture, la scuola sarà fornita di essenze e di medicine, che si
dispenseranno gratis. Così rendendosi materia di lucro una cosa finora
infruttifera, che sono gli orecchi, sarà aperta una
nuova strada all’industria, con aumento della ricchezza generale.
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