IV.
Roma, 14 maggio '97
Mi pare - tanto
per tornare al primitivo argomento - che a voi stia in cima dei pensieri
questa domanda: per quali vie, e in quali modi, sarebbe dato di avviare in
Francia una scuola del materialismo storico? Non so se sia lecito a me di
rispondere al quesito, senza aver l'aria di gareggiare con quei
giornalisti di vecchio stampo, i quali davano, tanto sicuri di sé, consigli
all'Europa, col grave rischio di rimanere, e difatti rimanevano, quasi sempre
inascoltati. Mi ci proverò modestamente.
Innanzi tutto
mi sembra non debba esser cosa difficile si trovino in Francia editori e
librai, i quali stampino e diffondano delle accurate traduzioni degli scritti
di Marx, di Engels, e di quanti altri occorra. Sarebbe, per cominciare, il
cominciamento migliore. Capisco che nell'arte del tradurre si va incontro a
delle curiose difficoltà. Sono oramai trentasette anni dacché leggo in tedesco,
e m'è parso sempre di osservare, che a noi popoli di lingue latine capiti
addosso uno strano smarrimento delle attitudini linguistiche e letterarie,
quante volte traduciamo da quell'idioma. Ciò che in tedesco è vivo,
trasparente, efficace, diventa assai spesso, per es., in italiano, frigido,
senza rilievo, e qualche volta a dirittura come di gergo. In coteste traduzioni,
parlo s'intende delle comuni e correnti, va perduto, con gli effetti della
insinuazione, l'affiato della persuasiva. In un vasto lavoro di
popolarizzazione, com'è quello cui accenno, occorrerebbe, salva sempre la
integrità testuale degli scritti da tradurre, che le prefazioni, le note, i
commenti offrissero i surrogati a quel facile processo di assimilazione, che è
implicito e pronto già nelle scritture, le quali sian native del paese stesso.
Le lingue non
sono, in verità, le accidentali varianti dell’universale volapük;
e, anzi, sono assai più che dei semplici mezzi estrinseci di comunicazione
e di significazione del pensiero e dell'animo. Son condizioni e limiti
dell'attività nostra interiore, la quale ha per ciò, come per tante altre
ragioni, modi e forme nazionali non di mero accidente. Se ci sono internazionalisti
che ciò ignorino, costoro han da chiamarsi a dirittura confusionisti ed amorfisti;
come quelli che ritraggono i loro insegnamenti, non dai vecchi
apocalittici, ma da quello speciosissimo Bakunin, che invocava per fino la
egalizzazione dei sessi. Dunque, nella assimilazione delle idee, dei
pensieri, delle tendenze, dei propositi, che sian venuti a maturità di
espressione letteraria in terreno di lingue straniere, c'è come un caso
alquanto scabroso di pedagogica sociale.
E, giacché
cotesta espressione m’è uscita dalla penna, permettetemi io vi contessi,
che quando io esamino dappresso la storia precedente e le presenti condizioni
della Socialdemokratie tedesca, non è l'incremento continuo dei successi
elettorali che mi riempia proprio principalmente l'animo di ammirazione e di
viva speranza. Più che almanaccare su quei voti come arra dell'avvenire,
secondo i calcoli qualche volta fallaci della illazione e della combinatoria
statistica, mi sento ripieno di viva ammirazione per questo caso veramente
nuovo ed imponente di pedagogica sociale: e, cioè, che in così stragrande
numero di uomini, e segnatamente di operai e di piccoli borghesi, si formi una
coscienza nuova, nella quale concorrono, in egual misura, il sentimento diretto
della situazione economica, che induce alla lotta, e la propaganda del
socialismo, inteso come meta o punto d'approdo. Questa divagazione mi fa
nascere un ricordo. Io fui qui in Italia, o il primo, o certo fra i primi, a richiamare,
con lo scritto e con la parola, più volte e insistentemente, l'attenzione di
quella parte degli operai nostri, che erano e son capaci di muoversi su la
linea della moderna lotta proletaria, verso l'esempio della Germania. Ma... non
mi passò mai per il capo di credere, che l'imitazione dispensi alcuno dalla
spontaneità: non mi son mai sognato si dovesse seguire l'esempio di quei frati
e preti, che furon per secoli i quasi esclusivi educatori dell'Italia già
decaduta, e allegramente fabbricavano i poeti, dando ad imparare a mente l'Arte
poetica di Orazio. Sarebbe curioso, che tu, benemerito, operosissimo e
sagacissimo Bebel, apparissi qui fra noi in veste di novello Orazio! - ne
strabilierebbe perfino il mio amico Lombroso, che odia il latino più della
pellagra.
C'è delle altre
difficoltà più intime, in breve, e di maggior portata e di maggior peso. Dato
pure il caso che editori e librai, abili e solerti, si dessero la briga di
diffondere, non che nella sola Francia, negli altri paesi civili ancora, le
traduzioni di tutti gli scritti del materialismo storico, ciò varrebbe solo a
stimolare, ma non già a formare e fermare nelle rispettive nazioni le energie
fattive, che producono e tengono in rigoglio un indirizzo del pensiero. Pensare
è produrre. Imparare è produrre riproducendo. Noi non sappiamo bene e davvero,
se non ciò che noi stessi siam capaci di produrre, pensando, lavorando,
provando e riprovando; e sempre per virtù delle forze che ci son proprie, nel
campo sociale e dall'angolo visuale in cui ci troviamo.
E poi la
Francia, con la sua grande storia, con la sua letteratura, che fu così
dominante per secoli, con la sua ambizione patriottica, e con quella sua così
propria differenziazione etnico-psicologica, che si riflette per fino nei
prodotti più astratti del pensiero! Non starò proprio, io italiano, ad
assumermi le parti di difensore di quei vostri sciovinisti, ai quali voi
infliggete così meritato biasimo. Ma ricordiamo pure ciò che accadde nel secolo
passato. Il pensiero rivoluzionario derivò da più parti del mondo civile,
dall'Italia, dall'Inghilterra, dalla Germania, ma non fu europeo, se non a
patto di plasmarsi in ispirito francese; e la rivoluzione europea fu la
rivoluzione francese. Questa gloria imperitura della vostra nazione pesa, come
tutte le glorie su la nazione stessa, quale incubo di radicato pregiudizio. Ma
i pregiudizii non sono anch'essi delle forze, se non altro in quanto sono
degl'impedimenti? Parigi non sarà più il cervello del mondo; anche perché il
mondo non ha cervello, se non nella fantasia di certi speciosi sociologisti10. Né Parigi è tuttora, né
sarà più in avvenire, la santa Gerusalemme dei rivoluzionarii d'ogni parte del
mondo - come parve un tempo che fosse. Già la futura rivoluzione proletaria non
avrà niente che la riavvicini ad apocalittico millennio: e poi, oggi, i
privilegi son finiti non meno per le nazioni che per gl'individui. Così
giustamente osservava l'Engels; e del resto varrebbe la pena che i francesi
leggessero ciò che egli scriveva nel 1874 a proposito dei blanquisti, aizzanti
all'immediata riscossa proprio a poco andare dalla catastrofe della Comune11. Ma tutto sommato... e
fatto calcolo delle condizioni proprie dell'agricoltura e dell'industria
francese, le quali han ritardato per tanto tempo la concentrazione del
movimento operaio, e data pure la sua buona parte di torto ai varii capisetta e
capiscuola, che tennero per così gran tempo scisso e spartito il socialismo
francese, sta sempre il fatto, che il materialismo storico non potrà farsi
strada fra voi, finché avrà l'aria d'essere il semplice elaborato mentale dei due
tedeschi di grande ingegno. Con questa espressione Mazzini appunto acuiva i
risentimenti nazionali contro i due autori; i quali, da comunisti e
materialisti com'erano, parean fatti a posta per iscombussolare l'idealistica
formula di patria e dio.
Fu per questo
rispetto quasi tragica la sorte dei due fondatori del socialismo scientifico.
Passarono più volte pei due tedeschi agli occhi di tanti, che furon sciovinisti
per fino fra i rivoluzionarii, anzi passarono per organi del pangermanismo
nelle invettive di quel Bakunin, che ebbe l'animo così disposto ad
inventare... per non dir altro: essi, i due tedeschi, che nella patria,
dalla quale usciron da esuli fin dagli anni della prima gioventù, incontrarono
lo studiato silenzio di quei professori, ai quali è atto di patriottismo
l'esercizio del servilismo! Quei professori, in fondo, si vendicavano. Difatti
nel Capitale, nel quale tutta la trattazione s 'inradica nelle tradizioni
della economia classica, non esclusi gli scrittori ingegnosi e spesso geniali
che ebbe l'Italia nel secolo XVIII, non si parla se non con sovrano disprezzo
dei signori Roscher e compagni. Engels, che con tanta cura e con tanta abilità
di ampliamenti espositivi si sforzò di rendere popolari i resultati delle
ricerche dell'americano Morgan, chiuso com'era nella persuasione, che ciò che
egli giustamente chiamava filosofia classica fosse giunta alla sua
dissoluzione in Feuerbach, scrivendo l'Antidühring mostrò noncuranza,
dirò francamente eccessiva, per la filosofia contemporanea (- noncuranza
spiegabile in lui, ma non scusabile, anzi ridicola, negli altri socialisti, che
per imitazione l'affettano -), ossia per la neocritica dei suoi
connazionali. Cotesta sorte tragica fu come insita alla missione loro. Essi
furon con l'animo e con la mente rivolti del tutto alla causa del proletariato
d'ogni nazione: e perciò i prodotti della scienza loro hanno in ogni nazione
quel pubblico soltanto, che vi si vada reclutando tra quelli che sian capaci di
una consona rivoluzione intellettuale. In Germania, ove per condizioni storiche
speciali, e soprattutto perché la borghesia non v'è mai riuscita a spezzare per
intero la compagine dell'Ancien Régime (vedete che quell'imperatore può
tenervi impunemente il linguaggio d'un vice-nume, e non è poi in verità che un
Federico Barbarossa fattosi commesso viaggiatore dell'in German made),
la democrazia sociale s'è ridotta e fermata in serrata falange, era ben
naturale che le idee del socialismo scientifico trovassero favorevole il
terreno alla normale e progressiva diffusione loro. Ma nessuno dei socialisti
tedeschi - spero almeno - si sognerà mai di considerare le idee di Marx e di
Engels al semplice ragguaglio dei diritti e dei doveri, dei meriti e dei
demeriti, dei Camarades de Parti. Ecco per es. che cosa Engels scriveva,
e non è gran tempo12:
Si noterà come in tutti
questi articoli io mi chiami, non democratico-sociale, ma comunista. E
ciò perché a quel tempo si davano il nome di democratici sociali, in molti
paesi, di quelli che non aveano scritto su la loro bandiera l'appropriazione di
tutti i mezzi di produzione da parte della società. Per democratico-sociale s'intendeva
in Francia un repubblicano democratico, che avesse delle simpatie più o meno
genuine, ma che rimanevano pur sempre indeterminate, per la classe operaia;
gente, insomma, come Ledru-Rollin del 1848, e come i radicali socialisti del
1874, che erano intinti di proudhonismo. In Germania chiamavansi democratici-sociali
i lassalliani: ma, sebbene la gran massa di essi andasse a grado a grado
riconoscendo la necessità della socializzazione dei mezzi di produzione, pur
nondimeno le cooperative di produzione, sussidiate dallo stato rimanevano il
punto essenziale del programma del partito nella sua azione pubblica. Era
dunque per me e per Marx assolutamente impossibile di scegliere un termine di
tale elasticità a designazione dei nostro specifico punto di vista. Oggi è
tutt'altro, e la parola può passare; sebbene sia pur sempre disadatta a
significare un partito il cui programma è, non genericamente socialistico, ma
direttamente comunistico, e la cui finale meta politica è di superare ogni
forma di stato, e quindi
anche la democrazia
I patrioti -
e non uso punto a dileggio cotesta parola -hanno, mi pare, di che consolarsi e
confortarsi. Non è detto in conclusione che il materialismo storico sia il
patrimonio intellettuale di una sola nazione, o che debba rimanere in
privilegio d'una clique, d'una consorteria o d'una setta. Esso, innanzi
tutto, appartiene nella sua origine obiettiva alla Francia, all'Inghilterra e
alla Germania, in eguale misura. Non starò qui a ripetere ciò che dissi in
altra lettera, della forma di pensiero che derivossi nella mente dei nostri due
autori per lo stadio a cui era giunta, nella loro giovinezza, la coltura
intellettuale dei tedeschi, e la filosofia in ispecie, mentre l'hegelismo
appunto, o si perdeva nei rigagnoli di una nuova scolastica, o dava luogo ad un
nuovo e più poderoso criticismo. Ma era pur lì la grande industria inglese con
tutte le miserie che l'accompagnavano, e col contraccolpo ideologico di Owen, e
con quello pratico dell'agitazione cartista. Ma eran pur lì le scuole del
socialismo francese, e la tradizione rivoluzionaria dell'Occidente, che
si derivava già nelle forme del comunismo d'indole modernamente proletaria. Che
cos'è il Capitale, se non la critica di quella economia, che, come
rivoluzione pratica e come rappresentazione teorica di questa stessa rivoluzione,
era venuta a piena maturità nella sola Inghilterra, fin verso il '60, e in
Germania cominciava appena? Che cosa è il Manifesto dei Comunisti, se
non la chiusa e la esplicazione del socialismo, o latente, o palese nei
movimenti operai di Francia e d'Inghilterra? Ma tutte queste cose furono
continuate e portate a compimento di critica, la filosofia di Hegel non
esclusa, con quella critica immanente, che è la dialettica con le sue
inversioni; ossia, per via di quel negare, che non è contenziosa e avvocatesca
contrapposizione di concetto a concetto, di opinione ad opinione, ma che invece
invera ciò che nega, perché in ciò che nega e supera, trova o la
condizione (di fatto), o la premessa (concettuale) del procedere stesso13.
Francia e
Inghilterra possono ripigliare, senza parere che compiano un atto di mera
imitazione, la loro parte nella elaborazione del materialismo storico. Perché i
francesi non avrebbero oramai da scrivere dei libri veramente critici su
Fourier e Saint-Simon, in quanto furono, e nella misura in cui furono, veri
precursori del socialismo contemporaneo? Non c’è occasione a lavorare
letterariamente sui moti rivoluzionarii dal 1830 al 1848, in modo si veda, che
la dottrina del Manifesto non fu la negazione di quelli, ma il loro aboutissant
è risolvente? A riscontro di quel 18 Brumaio di Marx, che,
pur essendo uno scritto genialissimo, e nell'intento suo insuperabile, riman
sempre un opuscolo di occasione e di tinta pubblicistica, non sarebbe il caso
di comporre una meditata storia del Colpo di stato? Ma la Comune non
aspetta ancora la sua definitiva trattazione critica? Ma la Grande
Rivoluzione, intorno alla quale esiste una letteratura colossale, quanto
all'insieme, e singolarmente minutissima quanto ai particolari, fu mai fino ad
ora trattata a fondo in tutto l'intrinseco del sommovimento delle classi che vi
presero parte, e come caso esemplare di sociologia economica? A farla breve,
tutta la storia moderna di Francia e d'Inghilterra non offre essa forse agli
studiosi un più largo e sicuro capitolo d'illustrazioni al materialismo
storico, di quello che non potessero fino a poco tempo fa offrirlo le
condizioni della Germania? Queste furono, nel fatto, dalla guerra dei
trent’anni in poi, grandemente intricate pei sopraggiunti impedimenti allo
sviluppo, e nelle teste di quelli, che sopra luogo le osservarono, rimasero
quasi sempre come involute in varie specie di nebulosità ideologica -
nebulosità che muoverebbe a riso i cronisti fiorentini del secolo XIV.
Mi son fermato
su questi particolari, non per darmi l'aria di consigliere della Francia, ma
per aver modo di osservare da ultimo, che, data la forma dei cervelli di lingue
latine, non è cosa agevole il fare entrare in essi le nuove idee, se altri
s'indugi a rappresentarle esclusivamente come forme astratte del pensiero;
mentre riescono a penetrarvi, con pronto e suggestivo effetto, quando vengano
plasmate in racconti e in esposizioni, che in qualche modo rassomiglino ai
prodotti dell'arte.
Torno per un
momento su la questione del tradurre. L'Antidühring è il libro che prima
di ogni altro conviene che entri nella circolazione internazionale. Pochi libri
io conosco, che possano stargli a paro, per densità di pensiero, per
molteplicità di punti di vista, per duttilità di penetrazione suggestiva. Può
essere una medicina mentis per la gioventù intellettuale, che di solito
si volge, incerta di sé e con criterii assai vaghi, a ciò che genericamente ha
nome di socialismo: e così fu nel tempo in cui apparve, come ne andò scrivendo
un tre anni fa il Bernstein, in una specie di commemorazione pubblicata nella
“Neue Zeit”. Nella letteratura socialistica rimane quello il libro insuperato.
Ma quel libro
non è tetico, anzi è antitetico. Salvo i brani isolabili, come son quelli i
quali presero corpo di opuscolo per sé stante, che fa da un pezzo il giro del
mondo (Del passaggio del socialismo dall'utopia alla scienza), quel
libro ha a suo filo conduttore la critica del signor Dühring, in quanto ei fu
inventore di una filosofia e d'un socialismo a modo suo. Or qual persona, che
non viva nella cerchia dei professanti scienza, e quanti non tedeschi hanno
proprio il dovere d’interessarsi del signor Dühring? Ogni nazione ha, pur
troppo, i suoi Dühring. Un Engels di altra nazione, chi sa quali altri anti-chi
sa che cosa avrebbe scritto o scriverebbe. L'effetto vero di quel libro mi
pare debba esser questo su i socialisti di altri paesi e lingue, che li abiliti
a fornirsi di quelle attitudini critiche, che giovano per iscrivere tutti gli
altri anti-x occorrenti a combattere ogni altra qualche cosa, che
imbarazzi od inficii il socialismo, in nome di tante sociologie pullulanti
d'ogni parte. Le armi e i modi della critica devono, da paese a paese, subire
la legge della variabilità e dell'adattamento. Curare il malato e non la
malattia; - in ciò consiste la modernità della medicina.
A fare
altrimenti di così, si rischia d'incorrere nella sorte toccata agli hegeliani,
che vennero su in Italia dal 1840 al 1880, e specie nel Mezzogiorno, anzi a
Napoli. Furono in parte dei semplici epigoni, ma alcuni furono pensatori di
polso. Nel tutt'insieme rappresentavano una corrente rivoluzionaria di gran
conto, a petto del tradizionale scolasticismo, dello spiritualismo alla
francese e della filosofia del così detto buon senso. Di tal movimento pur
qualcosa s'è risaputo in Francia; perché fu uno di questi hegeliani, e non il
più profondo e forte di tutti, il Vera14,
che dette alla Francia appunto le più leggibili traduzioni, con copiosissimi
commenti, di alcune delle opere fondamentali di Hegel. Di tutto quel movimento
s'è perduta ora da noi la traccia e la memoria, nel giro di così pochi anni.
Gli scritti di quei pensatori non si trovano che dai rivenditori di anticaglie
e di bagattelle librarie. Cotesta dispersione nel nulla di tutta una attività
scientifica, non certo irrilevante, non è solo dovuta alle vicende non sempre
belle e laudabili della vita universitaria, né al solo dilagare epidemico del positivismo
che manda qua e là frutti che paiono scienza da demi-monde, ma a ragioni
più intrinseche. Quegli hegeliani scrissero, e insegnarono, e disputarono come
se stessero, non a Napoli, ma a Berlino, o non so dove. Conversavano
mentalmente coi loro Camarades d’Allemagne15(. Rispondevano
dalla cattedra o negli scritti alle
obiezioni di
critici noti a loro soltanto; facendo così un dialogo, che a lettori e uditori
parea monologo. Non riuscirono a plasmare le loro trattazioni e la loro
dialettica in libri, che apparissero qual nuovo acquisto intellettuale della
nazione. Cotesto non piacevole e non lusinghiero ricordo mi stava innanzi alla
mente, quando, quasi repugnante, mi misi a scrivere il primo dei due miei saggi
di materialismo storico, ai quali ora non c'è ragione io non ne faccia
succedere degli altri. Mi domandava più volte: ma da che parte devo rifarmi,
per dir cose, che ai lettori italiani non tornino ostiche, straniere e strane?
Mi dire che io son riuscito: e così sia. Non sarebbe un caso singolare di
scortesia, che io volessi ribattere, ragionando, da arbitro, di me e delle lodi
che voi mi fate?
Nel leggere - così scrivevo a un di
presso cinque anni fa ad Engels la Heilige Familie, mi son ricordato
degli hegeliani di Napoli, in mezzo ai quali io vissi da giovanissimo, e mi
pare di avere inteso e assaporato quel libro, più che non possa riuscire a
molti, cui mancano al presente i dati proprii e intuitivi di quel curioso
umorismo. Mi parea di averla vista io stesso da vicino quella curiosa coterie
di Charlottenburg, da Marx e da voi così singolarmente persiflée. Mi
si ripresentava allo spirito, più che tutti gli altri, un professore di
estetica, originalissimo e genialissimo uomo, che deduceva i romanzi
di Balzac, costruiva la cupola di S. Pietro e disponeva in serie
genetica gl'istrumenti musicali; e pian piano, di negazione in negazione, e con
la negazione della negazione, giunse da ultimo alla metafisica dell'inconoscibile,
che, ignaro come ei fu sempre dello Spencer, e anzi a guisa di uno Spencer
non glorificato, chiamò l'innominabile. Anch'io da giovane vissi in quella
specie di palestra, e non me ne rincresce; vissi per anni con l'animo diviso
fra Hegel e Spinoza: di quello difesi, con giovanile ingenuità, la dialettica
contro lo Zeller che iniziava il neokantismo; di questo sapevo a memoria
gli scritti, e ne esposi, con intendimento di innamorato, la teoria degli
affetti e delle passioni. Ora tutte coteste cose mi tornano nella memoria come
lontanissima preistoria. Avrò subita anch'io la mia negazione della negazione?
Voi mi spronate a scrivere di comunismo: ma io temo sempre di far di
cosa di nessun valore quanto alle forze mie, e di poco effetto quanto
all'Italia.
E lui a
rispondermi...; ma qui faccio punto. Mi pare sia cosa presso che incivile il
riprodurre senza urgente ragione di pubblico interesse, le lettere private,
specie a breve tempo dalla morte di chi le scrisse. In tutti i casi, anche
stralciando da tali lettere private ciò che può esservi di puramente
occasionale, e serbandone solo ciò che è di dottrina e di scienza, esse fan
sempre poca fede e son di poco peso, a fronte degli scritti meditatamente
destinati alla pubblicità. Col crescere dell'interesse per il materialismo
storico, e nel difetto di una letteratura, che estesamente e partitamente lo
illustri, s'è dato il caso che Engels, negli ultimi anni di sua vita, qual
professore che non sieda in cattedra, fosse interrogato, e anzi tormentato di
continuo con infinite domande da parte di molti, che si iscrivevano spontanei
da studenti liberi nella vagante ed eslege Università del socialismo. Di qui le
lettere che furon pubblicate, e quelle altre molte, che son rimaste inedite. In
quelle tre lettere, che il “Devenir Social” riprodusse recentemente da una
rivista di Berlino e da un giornale di Lipsia, apparisce chiaro come fosse in
lui una certa temenza, che il marxismo diventasse troppo presto una dottrina a
buon mercato.
A molti dei
professanti la scienza, non nella vagante Università del popolo di là da
venire, ma in questa che realmente esiste nella presente società ufficiale,
capita d'esser messi fra l'uscio e il muro dagli studenti e dagli studiosi,
perché, uno pede stantes, rispondano ad ogni quesito, come chi avesse
stampata nel cervello la ragione universale delle cose. I più vanitosi fra i
professori, per non ismentire la ieratica sacramentalità della scienza, e come
se questa consistesse del tutto nella materialità del conosciuto, e non
principalmente nella virtuosità e correttezza formale dell'atto del sapere,
rispondono difilato, riuscendo a fare assai di sovente la satira di se stessi,
da imitatori del saporitissimo Mefistofele in maschera di maestro in tutte e
quattro le facoltà. Pochi hanno la socratica rassegnazione di rispondere: non
so, ma so di non sapere, e so che si potrà sapere, ed io stesso potrò sapere,
se avrò compiuti gli atti di sforzo, ossia di lavoro, che occorre per sapere,
- e se mi date degli anni indefiniti, con l'indefinita attitudine
dell'applicazione metodica del lavoro, io potrò indefinitamente saper quasi
tutto.
Ed ecco in che
cosa consiste quel capovolgimento pratico della teorica della conoscenza, che è
insito al materialismo storico.
Ogni atto di
pensiero è uno sforzo; cioè un lavoro nuovo. A compierlo occorrono innanzi
tutto i materiali dell'esperienza depurata, e gl'istrumenti metodici, resi
familiari e maneggevoli dal lungo uso. Non c'è dubbio, che il lavoro compiuto,
ossia il pensiero prodotto, agevoli i nuovi sforzi diretti alla produzione di
novello pensiero; in prima, perché i prodotti precedenti rimangono obiettivati
nei mezzi intuitivi dello scritto e delle altre arti rappresentative, e, in
secondo luogo, perché l'energia in noi internamente accumulata penetra e
investe il nuovo lavoro, qual ritmo del procedimento, nella qual cosa (ossia
nel ritmo) consiste appunto il metodo della memoria, del ragionamento, dell'espressione,
della comunicativa, e così via. Ma macchine pensanti non si diventa mai! Tutte
le volte che ci mettiamo nuovamente a pensare, oltre che ci necessitano sempre
i mezzi e gl'incentivi esterni ed obiettivi della materia empirica, ci occorre
ancora uno sforzo adeguato per passare dagli stati più elementari della vita
psichica a quello stadio superiore derivato e complesso, che è il pensiero, nel
quale non possiamo mantenerci, se non per atto di attenzione volontaria, che ha
intensità e durata di speciale e non sorpassabile misura.
Cotesto lavoro,
che a noi si rivela nella nostra diretta ed immediata coscienza, qual fatto,
che ci concerna solo in quanto siamo persone singole e circoscritte dalla
nostra naturale individuazione, non si avvera in ciascun di noi, se non in
quanto noi siamo appunto, nell'ambiente della convivenza, esseri socialmente e
quindi anche storicamente condizionati. I mezzi della convivenza sociale, che
sono, da un lato le condizioni e gl'istrumenti, e dall'altro i prodotti della collaborazione
variamente specificata, costituiscono, al di là di ciò che offre a noi la
natura propriamente detta, la materia e gl'incentivi della nostra formazione
interiore. Di qui nascono gli abiti secondarii, derivati e complessi, pei
quali, di là dai termini della nostra corporea configurazione, sentiamo il
nostro proprio io come la parte di un noi, il che vuol dire, in
concreto, di un modo di vivere, di un costume, di una istituzione, di uno stato,
di una chiesa, di una patria, di una tradizione storica, e così via. In coteste
correlazioni di consociazione pratica, che corrono da individuo a individuo,
han la loro radice e hanno il loro fondamento obiettivo e prosaico tutte quelle
varie rappresentazioni ideologiche di spirito pubblico, di psiche sociale, di
coscienza etnica, e così via, intorno alle quali, come gente che pigli per enti
e sostanze i rapporti e le relazioni, speculano, da
metafisici di pessima scuola, i sociologisti e psicologisti, che io chiamerei
simbolisti e simboleggianti. In questi medesimi rapporti pratici nascono le
comuni correnti, per le quali il pensiero individuo, e la scienza che ne
deriva, son vere e proprie funzioni sociali.
E così siamo
daccapo nella filosofia della praxis, che è il midollo del materialismo
storico. Questa è la filosofia immanente alle cose su cui filosofeggia. Dalla
vita al pensiero, e non già dal pensiero alla vita; ecco il processo
realistico. Dal lavoro, che è un conoscere operando, al conoscere come astratta
teoria: e non da questo a quello. Dai bisogni, e quindi dai varii stati interni
di benessere e di malessere, nascenti dalla soddisfazione o insoddisfazione dei
bisogni, alla creazione mitico-poetica delle ascoste forze della natura: e non
viceversa. In questi pensieri è il segreto di una asserzione di Marx, che è
stata per molti un rompicapo, che egli avesse, cioè, arrovesciata16 la dialettica di
Hegel: il che vuol dire, in prosa corrente, che alla semovenza ritmica d'un
pensiero per sé stante (- la generatio aequivoca delle idee! -) rimane
sostituita la semovenza delle cose, delle quali il pensiero è da ultimo un
prodotto.
In fine, il
materialismo storico? ossia la filosofia della praxis, in quanto investe
tutto l’uomo storico e sociale, come mette termine ad ogni forma d'idealismo,
che consideri le cose empiricamente esistenti qual riflesso, riproduzione,
imitazione, esempio, conseguenza o come altro dicasi, d'un pensiero, come che
siasi, presupposto, così è la fine anche del materialismo naturalistico, nel
senso fino a pochi anni fa tradizionale della parola. La rivoluzione
intellettuale, che ha condotto a considerare come assolutamente obiettivi i
processi della storia umana, è coeva e rispondente a quell'altra rivoluzione
intellettuale, che è riuscita a storicizzare la natura fisica. Questa
non è più, per alcun uomo pensante, un fatto, che non fu mai in fieri,
un avvenuto che non è mai divenuto, un eterno stante che
non proceda, e molto meno il creato d'una volta sola, che non sia
la creazione di continuo in atto.
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