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Antonio Labriola
Discorrendo di socialismo e di filosofia

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  • IV.
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IV.

Roma, 14 maggio '97

 

Mi pare - tanto per tornare al primitivo argomento - che a voi stia in cima dei pensieri questa domanda: per quali vie, e in quali modi, sarebbe dato di avviare in Francia una scuola del materialismo storico? Non so se sia lecito a me di rispondere al quesito, senza aver l'aria di gareggiare con quei giornalisti di vecchio stampo, i quali davano, tanto sicuri di sé, consigli all'Europa, col grave rischio di rimanere, e difatti rimanevano, quasi sempre inascoltati. Mi ci proverò modestamente.

Innanzi tutto mi sembra non debba esser cosa difficile si trovino in Francia editori e librai, i quali stampino e diffondano delle accurate traduzioni degli scritti di Marx, di Engels, e di quanti altri occorra. Sarebbe, per cominciare, il cominciamento migliore. Capisco che nell'arte del tradurre si va incontro a delle curiose difficoltà. Sono oramai trentasette anni dacché leggo in tedesco, e m'è parso sempre di osservare, che a noi popoli di lingue latine capiti addosso uno strano smarrimento delle attitudini linguistiche e letterarie, quante volte traduciamo da quell'idioma. Ciò che in tedesco è vivo, trasparente, efficace, diventa assai spesso, per es., in italiano, frigido, senza rilievo, e qualche volta a dirittura come di gergo. In coteste traduzioni, parlo s'intende delle comuni e correnti, va perduto, con gli effetti della insinuazione, l'affiato della persuasiva. In un vasto lavoro di popolarizzazione, com'è quello cui accenno, occorrerebbe, salva sempre la integrità testuale degli scritti da tradurre, che le prefazioni, le note, i commenti offrissero i surrogati a quel facile processo di assimilazione, che è implicito e pronto già nelle scritture, le quali sian native del paese stesso.

Le lingue non sono, in verità, le accidentali varianti dell’universale volapük; e, anzi, sono assai più che dei semplici mezzi estrinseci di comunicazione e di significazione del pensiero e dell'animo. Son condizioni e limiti dell'attività nostra interiore, la quale ha per ciò, come per tante altre ragioni, modi e forme nazionali non di mero accidente. Se ci sono internazionalisti che ciò ignorino, costoro han da chiamarsi a dirittura confusionisti ed amorfisti; come quelli che ritraggono i loro insegnamenti, non dai vecchi apocalittici, ma da quello speciosissimo Bakunin, che invocava per fino la egalizzazione dei sessi. Dunque, nella assimilazione delle idee, dei pensieri, delle tendenze, dei propositi, che sian venuti a maturità di espressione letteraria in terreno di lingue straniere, c'è come un caso alquanto scabroso di pedagogica sociale.

E, giacché cotesta espressione m’è uscita dalla penna, permettetemi io vi contessi, che quando io esamino dappresso la storia precedente e le presenti condizioni della Socialdemokratie tedesca, non è l'incremento continuo dei successi elettorali che mi riempia proprio principalmente l'animo di ammirazione e di viva speranza. Più che almanaccare su quei voti come arra dell'avvenire, secondo i calcoli qualche volta fallaci della illazione e della combinatoria statistica, mi sento ripieno di viva ammirazione per questo caso veramente nuovo ed imponente di pedagogica sociale: e, cioè, che in così stragrande numero di uomini, e segnatamente di operai e di piccoli borghesi, si formi una coscienza nuova, nella quale concorrono, in egual misura, il sentimento diretto della situazione economica, che induce alla lotta, e la propaganda del socialismo, inteso come meta o punto d'approdo. Questa divagazione mi fa nascere un ricordo. Io fui qui in Italia, o il primo, o certo fra i primi, a richiamare, con lo scritto e con la parola, più volte e insistentemente, l'attenzione di quella parte degli operai nostri, che erano e son capaci di muoversi su la linea della moderna lotta proletaria, verso l'esempio della Germania. Ma... non mi passò mai per il capo di credere, che l'imitazione dispensi alcuno dalla spontaneità: non mi son mai sognato si dovesse seguire l'esempio di quei frati e preti, che furon per secoli i quasi esclusivi educatori dell'Italia già decaduta, e allegramente fabbricavano i poeti, dando ad imparare a mente l'Arte poetica di Orazio. Sarebbe curioso, che tu, benemerito, operosissimo e sagacissimo Bebel, apparissi qui fra noi in veste di novello Orazio! - ne strabilierebbe perfino il mio amico Lombroso, che odia il latino più della pellagra.

C'è delle altre difficoltà più intime, in breve, e di maggior portata e di maggior peso. Dato pure il caso che editori e librai, abili e solerti, si dessero la briga di diffondere, non che nella sola Francia, negli altri paesi civili ancora, le traduzioni di tutti gli scritti del materialismo storico, ciò varrebbe solo a stimolare, ma non già a formare e fermare nelle rispettive nazioni le energie fattive, che producono e tengono in rigoglio un indirizzo del pensiero. Pensare è produrre. Imparare è produrre riproducendo. Noi non sappiamo bene e davvero, se non ciò che noi stessi siam capaci di produrre, pensando, lavorando, provando e riprovando; e sempre per virtù delle forze che ci son proprie, nel campo sociale e dall'angolo visuale in cui ci troviamo.

E poi la Francia, con la sua grande storia, con la sua letteratura, che fu così dominante per secoli, con la sua ambizione patriottica, e con quella sua così propria differenziazione etnico-psicologica, che si riflette per fino nei prodotti più astratti del pensiero! Non starò proprio, io italiano, ad assumermi le parti di difensore di quei vostri sciovinisti, ai quali voi infliggete così meritato biasimo. Ma ricordiamo pure ciò che accadde nel secolo passato. Il pensiero rivoluzionario derivò da più parti del mondo civile, dall'Italia, dall'Inghilterra, dalla Germania, ma non fu europeo, se non a patto di plasmarsi in ispirito francese; e la rivoluzione europea fu la rivoluzione francese. Questa gloria imperitura della vostra nazione pesa, come tutte le glorie su la nazione stessa, quale incubo di radicato pregiudizio. Ma i pregiudizii non sono anch'essi delle forze, se non altro in quanto sono degl'impedimenti? Parigi non sarà più il cervello del mondo; anche perché il mondo non ha cervello, se non nella fantasia di certi speciosi sociologisti10. Né Parigi è tuttora, né sarà più in avvenire, la santa Gerusalemme dei rivoluzionarii d'ogni parte del mondo - come parve un tempo che fosse. Già la futura rivoluzione proletaria non avrà niente che la riavvicini ad apocalittico millennio: e poi, oggi, i privilegi son finiti non meno per le nazioni che per gl'individui. Così giustamente osservava l'Engels; e del resto varrebbe la pena che i francesi leggessero ciò che egli scriveva nel 1874 a proposito dei blanquisti, aizzanti all'immediata riscossa proprio a poco andare dalla catastrofe della Comune11. Ma tutto sommato... e fatto calcolo delle condizioni proprie dell'agricoltura e dell'industria francese, le quali han ritardato per tanto tempo la concentrazione del movimento operaio, e data pure la sua buona parte di torto ai varii capisetta e capiscuola, che tennero per così gran tempo scisso e spartito il socialismo francese, sta sempre il fatto, che il materialismo storico non potrà farsi strada fra voi, finché avrà l'aria d'essere il semplice elaborato mentale dei due tedeschi di grande ingegno. Con questa espressione Mazzini appunto acuiva i risentimenti nazionali contro i due autori; i quali, da comunisti e materialisti com'erano, parean fatti a posta per iscombussolare l'idealistica formula di patria e dio.

Fu per questo rispetto quasi tragica la sorte dei due fondatori del socialismo scientifico. Passarono più volte pei due tedeschi agli occhi di tanti, che furon sciovinisti per fino fra i rivoluzionarii, anzi passarono per organi del pangermanismo nelle invettive di quel Bakunin, che ebbe l'animo così disposto ad inventare... per non dir altro: essi, i due tedeschi, che nella patria, dalla quale usciron da esuli fin dagli anni della prima gioventù, incontrarono lo studiato silenzio di quei professori, ai quali è atto di patriottismo l'esercizio del servilismo! Quei professori, in fondo, si vendicavano. Difatti nel Capitale, nel quale tutta la trattazione s 'inradica nelle tradizioni della economia classica, non esclusi gli scrittori ingegnosi e spesso geniali che ebbe l'Italia nel secolo XVIII, non si parla se non con sovrano disprezzo dei signori Roscher e compagni. Engels, che con tanta cura e con tanta abilità di ampliamenti espositivi si sforzò di rendere popolari i resultati delle ricerche dell'americano Morgan, chiuso com'era nella persuasione, che ciò che egli giustamente chiamava filosofia classica fosse giunta alla sua dissoluzione in Feuerbach, scrivendo l'Antidühring mostrò noncuranza, dirò francamente eccessiva, per la filosofia contemporanea (- noncuranza spiegabile in lui, ma non scusabile, anzi ridicola, negli altri socialisti, che per imitazione l'affettano -), ossia per la neocritica dei suoi connazionali. Cotesta sorte tragica fu come insita alla missione loro. Essi furon con l'animo e con la mente rivolti del tutto alla causa del proletariato d'ogni nazione: e perciò i prodotti della scienza loro hanno in ogni nazione quel pubblico soltanto, che vi si vada reclutando tra quelli che sian capaci di una consona rivoluzione intellettuale. In Germania, ove per condizioni storiche speciali, e soprattutto perché la borghesia non v'è mai riuscita a spezzare per intero la compagine dell'Ancien Régime (vedete che quell'imperatore può tenervi impunemente il linguaggio d'un vice-nume, e non è poi in verità che un Federico Barbarossa fattosi commesso viaggiatore dell'in German made), la democrazia sociale s'è ridotta e fermata in serrata falange, era ben naturale che le idee del socialismo scientifico trovassero favorevole il terreno alla normale e progressiva diffusione loro. Ma nessuno dei socialisti tedeschi - spero almeno - si sognerà mai di considerare le idee di Marx e di Engels al semplice ragguaglio dei diritti e dei doveri, dei meriti e dei demeriti, dei Camarades de Parti. Ecco per es. che cosa Engels scriveva, e non è gran tempo12:

 

Si noterà come in tutti questi articoli io mi chiami, non democratico-sociale, ma comunista. E ciò perché a quel tempo si davano il nome di democratici sociali, in molti paesi, di quelli che non aveano scritto su la loro bandiera l'appropriazione di tutti i mezzi di produzione da parte della società. Per democratico-sociale s'intendeva in Francia un repubblicano democratico, che avesse delle simpatie più o meno genuine, ma che rimanevano pur sempre indeterminate, per la classe operaia; gente, insomma, come Ledru-Rollin del 1848, e come i radicali socialisti del 1874, che erano intinti di proudhonismo. In Germania chiamavansi democratici-sociali i lassalliani: ma, sebbene la gran massa di essi andasse a grado a grado riconoscendo la necessità della socializzazione dei mezzi di produzione, pur nondimeno le cooperative di produzione, sussidiate dallo stato rimanevano il punto essenziale del programma del partito nella sua azione pubblica. Era dunque per me e per Marx assolutamente impossibile di scegliere un termine di tale elasticità a designazione dei nostro specifico punto di vista. Oggi è tutt'altro, e la parola può passare; sebbene sia pur sempre disadatta a significare un partito il cui programma è, non genericamente socialistico, ma direttamente comunistico, e la cui finale meta politica è di superare ogni forma di stato, e quindi anche la democrazia

 

I patrioti - e non uso punto a dileggio cotesta parola -hanno, mi pare, di che consolarsi e confortarsi. Non è detto in conclusione che il materialismo storico sia il patrimonio intellettuale di una sola nazione, o che debba rimanere in privilegio d'una clique, d'una consorteria o d'una setta. Esso, innanzi tutto, appartiene nella sua origine obiettiva alla Francia, all'Inghilterra e alla Germania, in eguale misura. Non starò qui a ripetere ciò che dissi in altra lettera, della forma di pensiero che derivossi nella mente dei nostri due autori per lo stadio a cui era giunta, nella loro giovinezza, la coltura intellettuale dei tedeschi, e la filosofia in ispecie, mentre l'hegelismo appunto, o si perdeva nei rigagnoli di una nuova scolastica, o dava luogo ad un nuovo e più poderoso criticismo. Ma era pur la grande industria inglese con tutte le miserie che l'accompagnavano, e col contraccolpo ideologico di Owen, e con quello pratico dell'agitazione cartista. Ma eran pur le scuole del socialismo francese, e la tradizione rivoluzionaria dell'Occidente, che si derivava già nelle forme del comunismo d'indole modernamente proletaria. Che cos'è il Capitale, se non la critica di quella economia, che, come rivoluzione pratica e come rappresentazione teorica di questa stessa rivoluzione, era venuta a piena maturità nella sola Inghilterra, fin verso il '60, e in Germania cominciava appena? Che cosa è il Manifesto dei Comunisti, se non la chiusa e la esplicazione del socialismo, o latente, o palese nei movimenti operai di Francia e d'Inghilterra? Ma tutte queste cose furono continuate e portate a compimento di critica, la filosofia di Hegel non esclusa, con quella critica immanente, che è la dialettica con le sue inversioni; ossia, per via di quel negare, che non è contenziosa e avvocatesca contrapposizione di concetto a concetto, di opinione ad opinione, ma che invece invera ciò che nega, perché in ciò che nega e supera, trova o la condizione (di fatto), o la premessa (concettuale) del procedere stesso13.

Francia e Inghilterra possono ripigliare, senza parere che compiano un atto di mera imitazione, la loro parte nella elaborazione del materialismo storico. Perché i francesi non avrebbero oramai da scrivere dei libri veramente critici su Fourier e Saint-Simon, in quanto furono, e nella misura in cui furono, veri precursori del socialismo contemporaneo? Non c’è occasione a lavorare letterariamente sui moti rivoluzionarii dal 1830 al 1848, in modo si veda, che la dottrina del Manifesto non fu la negazione di quelli, ma il loro aboutissant è risolvente? A riscontro di quel 18 Brumaio di Marx, che, pur essendo uno scritto genialissimo, e nell'intento suo insuperabile, riman sempre un opuscolo di occasione e di tinta pubblicistica, non sarebbe il caso di comporre una meditata storia del Colpo di stato? Ma la Comune non aspetta ancora la sua definitiva trattazione critica? Ma la Grande Rivoluzione, intorno alla quale esiste una letteratura colossale, quanto all'insieme, e singolarmente minutissima quanto ai particolari, fu mai fino ad ora trattata a fondo in tutto l'intrinseco del sommovimento delle classi che vi presero parte, e come caso esemplare di sociologia economica? A farla breve, tutta la storia moderna di Francia e d'Inghilterra non offre essa forse agli studiosi un più largo e sicuro capitolo d'illustrazioni al materialismo storico, di quello che non potessero fino a poco tempo fa offrirlo le condizioni della Germania? Queste furono, nel fatto, dalla guerra dei trent’anni in poi, grandemente intricate pei sopraggiunti impedimenti allo sviluppo, e nelle teste di quelli, che sopra luogo le osservarono, rimasero quasi sempre come involute in varie specie di nebulosità ideologica - nebulosità che muoverebbe a riso i cronisti fiorentini del secolo XIV.

Mi son fermato su questi particolari, non per darmi l'aria di consigliere della Francia, ma per aver modo di osservare da ultimo, che, data la forma dei cervelli di lingue latine, non è cosa agevole il fare entrare in essi le nuove idee, se altri s'indugi a rappresentarle esclusivamente come forme astratte del pensiero; mentre riescono a penetrarvi, con pronto e suggestivo effetto, quando vengano plasmate in racconti e in esposizioni, che in qualche modo rassomiglino ai prodotti dell'arte.

Torno per un momento su la questione del tradurre. L'Antidühring è il libro che prima di ogni altro conviene che entri nella circolazione internazionale. Pochi libri io conosco, che possano stargli a paro, per densità di pensiero, per molteplicità di punti di vista, per duttilità di penetrazione suggestiva. Può essere una medicina mentis per la gioventù intellettuale, che di solito si volge, incerta di sé e con criterii assai vaghi, a ciò che genericamente ha nome di socialismo: e così fu nel tempo in cui apparve, come ne andò scrivendo un tre anni fa il Bernstein, in una specie di commemorazione pubblicata nella “Neue Zeit”. Nella letteratura socialistica rimane quello il libro insuperato.

Ma quel libro non è tetico, anzi è antitetico. Salvo i brani isolabili, come son quelli i quali presero corpo di opuscolo per sé stante, che fa da un pezzo il giro del mondo (Del passaggio del socialismo dall'utopia alla scienza), quel libro ha a suo filo conduttore la critica del signor Dühring, in quanto ei fu inventore di una filosofia e d'un socialismo a modo suo. Or qual persona, che non viva nella cerchia dei professanti scienza, e quanti non tedeschi hanno proprio il dovere d’interessarsi del signor Dühring? Ogni nazione ha, pur troppo, i suoi Dühring. Un Engels di altra nazione, chi sa quali altri anti-chi sa che cosa avrebbe scritto o scriverebbe. L'effetto vero di quel libro mi pare debba esser questo su i socialisti di altri paesi e lingue, che li abiliti a fornirsi di quelle attitudini critiche, che giovano per iscrivere tutti gli altri anti-x occorrenti a combattere ogni altra qualche cosa, che imbarazzi od inficii il socialismo, in nome di tante sociologie pullulanti d'ogni parte. Le armi e i modi della critica devono, da paese a paese, subire la legge della variabilità e dell'adattamento. Curare il malato e non la malattia; - in ciò consiste la modernità della medicina.

A fare altrimenti di così, si rischia d'incorrere nella sorte toccata agli hegeliani, che vennero su in Italia dal 1840 al 1880, e specie nel Mezzogiorno, anzi a Napoli. Furono in parte dei semplici epigoni, ma alcuni furono pensatori di polso. Nel tutt'insieme rappresentavano una corrente rivoluzionaria di gran conto, a petto del tradizionale scolasticismo, dello spiritualismo alla francese e della filosofia del così detto buon senso. Di tal movimento pur qualcosa s'è risaputo in Francia; perché fu uno di questi hegeliani, e non il più profondo e forte di tutti, il Vera14, che dette alla Francia appunto le più leggibili traduzioni, con copiosissimi commenti, di alcune delle opere fondamentali di Hegel. Di tutto quel movimento s'è perduta ora da noi la traccia e la memoria, nel giro di così pochi anni. Gli scritti di quei pensatori non si trovano che dai rivenditori di anticaglie e di bagattelle librarie. Cotesta dispersione nel nulla di tutta una attività scientifica, non certo irrilevante, non è solo dovuta alle vicende non sempre belle e laudabili della vita universitaria, né al solo dilagare epidemico del positivismo che manda qua e frutti che paiono scienza da demi-monde, ma a ragioni più intrinseche. Quegli hegeliani scrissero, e insegnarono, e disputarono come se stessero, non a Napoli, ma a Berlino, o non so dove. Conversavano mentalmente coi loro Camarades d’Allemagne15(. Rispondevano dalla cattedra o negli scritti alle

obiezioni di critici noti a loro soltanto; facendo così un dialogo, che a lettori e uditori parea monologo. Non riuscirono a plasmare le loro trattazioni e la loro dialettica in libri, che apparissero qual nuovo acquisto intellettuale della nazione. Cotesto non piacevole e non lusinghiero ricordo mi stava innanzi alla mente, quando, quasi repugnante, mi misi a scrivere il primo dei due miei saggi di materialismo storico, ai quali ora non c'è ragione io non ne faccia succedere degli altri. Mi domandava più volte: ma da che parte devo rifarmi, per dir cose, che ai lettori italiani non tornino ostiche, straniere e strane? Mi dire che io son riuscito: e così sia. Non sarebbe un caso singolare di scortesia, che io volessi ribattere, ragionando, da arbitro, di me e delle lodi che voi mi fate?

 

Nel leggere - così scrivevo a un di presso cinque anni fa ad Engels la Heilige Familie, mi son ricordato degli hegeliani di Napoli, in mezzo ai quali io vissi da giovanissimo, e mi pare di avere inteso e assaporato quel libro, più che non possa riuscire a molti, cui mancano al presente i dati proprii e intuitivi di quel curioso umorismo. Mi parea di averla vista io stesso da vicino quella curiosa coterie di Charlottenburg, da Marx e da voi così singolarmente persiflée. Mi si ripresentava allo spirito, più che tutti gli altri, un professore di estetica, originalissimo e genialissimo uomo, che deduceva i romanzi di Balzac, costruiva la cupola di S. Pietro e disponeva in serie genetica gl'istrumenti musicali; e pian piano, di negazione in negazione, e con la negazione della negazione, giunse da ultimo alla metafisica dell'inconoscibile, che, ignaro come ei fu sempre dello Spencer, e anzi a guisa di uno Spencer non glorificato, chiamò l'innominabile. Anch'io da giovane vissi in quella specie di palestra, e non me ne rincresce; vissi per anni con l'animo diviso fra Hegel e Spinoza: di quello difesi, con giovanile ingenuità, la dialettica contro lo Zeller che iniziava il neokantismo; di questo sapevo a memoria gli scritti, e ne esposi, con intendimento di innamorato, la teoria degli affetti e delle passioni. Ora tutte coteste cose mi tornano nella memoria come lontanissima preistoria. Avrò subita anch'io la mia negazione della negazione? Voi mi spronate a scrivere di comunismo: ma io temo sempre di far di cosa di nessun valore quanto alle forze mie, e di poco effetto quanto all'Italia.

 

E lui a rispondermi...; ma qui faccio punto. Mi pare sia cosa presso che incivile il riprodurre senza urgente ragione di pubblico interesse, le lettere private, specie a breve tempo dalla morte di chi le scrisse. In tutti i casi, anche stralciando da tali lettere private ciò che può esservi di puramente occasionale, e serbandone solo ciò che è di dottrina e di scienza, esse fan sempre poca fede e son di poco peso, a fronte degli scritti meditatamente destinati alla pubblicità. Col crescere dell'interesse per il materialismo storico, e nel difetto di una letteratura, che estesamente e partitamente lo illustri, s'è dato il caso che Engels, negli ultimi anni di sua vita, qual professore che non sieda in cattedra, fosse interrogato, e anzi tormentato di continuo con infinite domande da parte di molti, che si iscrivevano spontanei da studenti liberi nella vagante ed eslege Università del socialismo. Di qui le lettere che furon pubblicate, e quelle altre molte, che son rimaste inedite. In quelle tre lettere, che il “Devenir Socialriprodusse recentemente da una rivista di Berlino e da un giornale di Lipsia, apparisce chiaro come fosse in lui una certa temenza, che il marxismo diventasse troppo presto una dottrina a buon mercato.

 

A molti dei professanti la scienza, non nella vagante Università del popolo di da venire, ma in questa che realmente esiste nella presente società ufficiale, capita d'esser messi fra l'uscio e il muro dagli studenti e dagli studiosi, perché, uno pede stantes, rispondano ad ogni quesito, come chi avesse stampata nel cervello la ragione universale delle cose. I più vanitosi fra i professori, per non ismentire la ieratica sacramentalità della scienza, e come se questa consistesse del tutto nella materialità del conosciuto, e non principalmente nella virtuosità e correttezza formale dell'atto del sapere, rispondono difilato, riuscendo a fare assai di sovente la satira di se stessi, da imitatori del saporitissimo Mefistofele in maschera di maestro in tutte e quattro le facoltà. Pochi hanno la socratica rassegnazione di rispondere: non so, ma so di non sapere, e so che si potrà sapere, ed io stesso potrò sapere, se avrò compiuti gli atti di sforzo, ossia di lavoro, che occorre per sapere, - e se mi date degli anni indefiniti, con l'indefinita attitudine dell'applicazione metodica del lavoro, io potrò indefinitamente saper quasi tutto.

Ed ecco in che cosa consiste quel capovolgimento pratico della teorica della conoscenza, che è insito al materialismo storico.

Ogni atto di pensiero è uno sforzo; cioè un lavoro nuovo. A compierlo occorrono innanzi tutto i materiali dell'esperienza depurata, e gl'istrumenti metodici, resi familiari e maneggevoli dal lungo uso. Non c'è dubbio, che il lavoro compiuto, ossia il pensiero prodotto, agevoli i nuovi sforzi diretti alla produzione di novello pensiero; in prima, perché i prodotti precedenti rimangono obiettivati nei mezzi intuitivi dello scritto e delle altre arti rappresentative, e, in secondo luogo, perché l'energia in noi internamente accumulata penetra e investe il nuovo lavoro, qual ritmo del procedimento, nella qual cosa (ossia nel ritmo) consiste appunto il metodo della memoria, del ragionamento, dell'espressione, della comunicativa, e così via. Ma macchine pensanti non si diventa mai! Tutte le volte che ci mettiamo nuovamente a pensare, oltre che ci necessitano sempre i mezzi e gl'incentivi esterni ed obiettivi della materia empirica, ci occorre ancora uno sforzo adeguato per passare dagli stati più elementari della vita psichica a quello stadio superiore derivato e complesso, che è il pensiero, nel quale non possiamo mantenerci, se non per atto di attenzione volontaria, che ha intensità e durata di speciale e non sorpassabile misura.

Cotesto lavoro, che a noi si rivela nella nostra diretta ed immediata coscienza, qual fatto, che ci concerna solo in quanto siamo persone singole e circoscritte dalla nostra naturale individuazione, non si avvera in ciascun di noi, se non in quanto noi siamo appunto, nell'ambiente della convivenza, esseri socialmente e quindi anche storicamente condizionati. I mezzi della convivenza sociale, che sono, da un lato le condizioni e gl'istrumenti, e dall'altro i prodotti della collaborazione variamente specificata, costituiscono, al di di ciò che offre a noi la natura propriamente detta, la materia e gl'incentivi della nostra formazione interiore. Di qui nascono gli abiti secondarii, derivati e complessi, pei quali, di dai termini della nostra corporea configurazione, sentiamo il nostro proprio io come la parte di un noi, il che vuol dire, in concreto, di un modo di vivere, di un costume, di una istituzione, di uno stato, di una chiesa, di una patria, di una tradizione storica, e così via. In coteste correlazioni di consociazione pratica, che corrono da individuo a individuo, han la loro radice e hanno il loro fondamento obiettivo e prosaico tutte quelle varie rappresentazioni ideologiche di spirito pubblico, di psiche sociale, di coscienza etnica, e così via, intorno alle quali, come gente che pigli per enti e sostanze i rapporti e le relazioni, speculano, da metafisici di pessima scuola, i sociologisti e psicologisti, che io chiamerei simbolisti e simboleggianti. In questi medesimi rapporti pratici nascono le comuni correnti, per le quali il pensiero individuo, e la scienza che ne deriva, son vere e proprie funzioni sociali.

E così siamo daccapo nella filosofia della praxis, che è il midollo del materialismo storico. Questa è la filosofia immanente alle cose su cui filosofeggia. Dalla vita al pensiero, e non già dal pensiero alla vita; ecco il processo realistico. Dal lavoro, che è un conoscere operando, al conoscere come astratta teoria: e non da questo a quello. Dai bisogni, e quindi dai varii stati interni di benessere e di malessere, nascenti dalla soddisfazione o insoddisfazione dei bisogni, alla creazione mitico-poetica delle ascoste forze della natura: e non viceversa. In questi pensieri è il segreto di una asserzione di Marx, che è stata per molti un rompicapo, che egli avesse, cioè, arrovesciata16 la dialettica di Hegel: il che vuol dire, in prosa corrente, che alla semovenza ritmica d'un pensiero per sé stante (- la generatio aequivoca delle idee! -) rimane sostituita la semovenza delle cose, delle quali il pensiero è da ultimo un prodotto.

In fine, il materialismo storico? ossia la filosofia della praxis, in quanto investe tutto l’uomo storico e sociale, come mette termine ad ogni forma d'idealismo, che consideri le cose empiricamente esistenti qual riflesso, riproduzione, imitazione, esempio, conseguenza o come altro dicasi, d'un pensiero, come che siasi, presupposto, così è la fine anche del materialismo naturalistico, nel senso fino a pochi anni fa tradizionale della parola. La rivoluzione intellettuale, che ha condotto a considerare come assolutamente obiettivi i processi della storia umana, è coeva e rispondente a quell'altra rivoluzione intellettuale, che è riuscita a storicizzare la natura fisica. Questa non è più, per alcun uomo pensante, un fatto, che non fu mai in fieri, un avvenuto che non è mai divenuto, un eterno stante che non proceda, e molto meno il creato d'una volta sola, che non sia la creazione di continuo in atto.

 





10 Già molto prima che i simbolismi e le analogie organiche venissero di moda nella sociologia, io mi trovavo di aver criticata cotesta curiosa tendenza in un articolo-recensione della Psicologia sociale del Linder (“Nuova Antologia”, dicembre 1872, pp. 971-98).



11 Nell’articolo intitolato: Programm der blanquistichen Kommüne-Flüchtlinge, apparso nel “Volksstaat”, n. 73, e poi riprodotto a pp. 40-46 dell’opuscolo: Internationales aus dem Volksstaat, Berlin 1894.



12 A p. 6, ossia alla prefazione al citato opuscolo: Internationales aus dem Volksstaaat, che riproduce degli articoli dell’Engels venuti alla luce fra il 1871-75. La prefazione – è bene notarloreca la data del 3 gennaio 1894.



13 Per ciò Hegel e gli hegeliani, che così spesso usarono dei simbolismi verbali, adoperavano la parola aufheben, che può significare, tanto toglier via e rimuovere, come alzare, e quindi elevar di grado.



14 Il Vera scriveva ancora nel 1870 una Filosofia della Storia da hegeliano letterale della stretta osservanza. E quanto io lo tartassai nella recensione che ne scrissi nella “Zeitschrift für exakte Philosophie”, vol. X, pp. 79 sgg., 1872!



15 Di fatti Rosenkranz, uno dei corifei dell’epigonismo hegeliano, scriveva un apposito libro intitolato: Hegels Naturphilosophie und die Bearbeitung derselben durch den italienischen Philosophen A. Vera, Berlin 1868. Stralcio da quel libro alcuni brani, che fanno al caso mio. “È uno spettacolo interessante l’osservare come il tedesco di Hegel rinasca nella lingua italiana. I signori…(e qui una infilzata di nomi)…e tanti altri rendono i pensieri di Hegel con tale precisione e facilità, che dieci anni addietro sarebbe parsa in Germania cosa impossibile” (p. 3). “Vera è il più rigoroso sistematico che Hegel abbia mai avuto, che lo segue passo con piena devozione” (p. 5). “A chi d’ora innanzi adducesse le difficoltà d’intendere Hegel in tedesco, si potrà dar consiglio di leggerne la traduzione di Vera. Questa dovrà pur comprenderla, purché abbia, s’intende, l’intendimento indispensabile alla cognizione filosofica” (p. 9).



16 Il verbo usato da Marx, umstülpen, si dice comunemente del rimboccare i calzoni, o del ripiegar le maniche.





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