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Antonio Labriola
Discorrendo di socialismo e di filosofia

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V.

Roma, 24 maggio '97

 

Ripigliando al punto dov'ero rimasto l'altra volta, mi pare voi abbiate pienamente ragione di rimettere in campo il problema della filosofia in generale. Mi riferisco, così dicendo, non solo alla vostra Prefazione, che io vado quasi moltiplicando di effetto in questo mio prolungato conversar per iscritto, ma anche ad alcuni vostri articoli nel “Devenir Social”, e, inoltre, a parecchie delle lettere private, che avete avuto la cortesia d’indirizzarmi. Vi pensiero, in fondo, che il materialismo storico possa apparire come campato in aria, fino a che abbia di contro a sé delle altre filosofie, con le quali non armonizzi, e fino a quando non si trovi modo di sviluppare la filosofia, che gli è propria, come quella che è insita ed immanente ai suoi assunti e alle sue premesse.

Ho capito bene?

Voi accennate esplicitamente alla psicologia, all'etica, e alla metafisica. Con quest'ultimo termine intendete di significare ciò che io, per effetto di altri abiti dello spirito e di altre maniere di trattazione didattica, chiamerei per es.: Dottrina generale, o della Conoscenza, o delle Forme fondamentali del pensiero, e cosi via, a un di presso, o per eccesso di cautela, o per tema di non incorrere in equivocazione, ed anche per non urtare in certi pregiudizii. Passo, però, sopra a cotesti accessorii terminologici; tanto perché noi, in fatto di scienza, non siam tenuti a starcene al significato che i termini hanno nella comune esperienza e nella comune intuizione (quando, come nella vita ordinaria, non c'è dato di chiamare altrimenti che pane il pane); ma quei significati fissiamo noi stessi, ponendo e sviluppando i concetti, che vogliamo compendiariamente formulare con una parola di convenzione. Si starebbe freschi a voler dedurre il significato ed il contenuto per es. della chimica dall'etimo di tal parola: ci troveremmo di faccia all'Egitto antichissimo, anzi al nome che significa la terra gialliccia dai due lati delle sponde del Nilo e fino ai monti!

Vi lascio in pace in compagnia della parola metafisica, se in questa v'accomoda d'acquietarvi. Frivolezze! Se un estensore di catalogo cacciasse domani nella rubrica dei metà physiká i Primi principii dell'oramai indispensabile Spencer, non farebbe nulla di più e nulla di meno di quel che fece il bibliotecario ai Pergamo nell'appiccicare cotale etichetta a quei vani trattati di prima filosofia (Aristotele non usa altro termine a denotarli), che nessuna cura di vecchi commentatori, né di critici moderni, è riuscita a ridurre mai alla trasparenza e conseguenza di libro giunto a perfezione. Chi sa quanti sarebbero lieti ora di scovrire, che in fin delle fini il vecchio Stagirita, che ha ingombrato di sé le menti degli uomini per tanti secoli, ed è stato insegna a tante battaglie dello spirito, non fu se non un altro Spencer d'altri tempi, che, magari per sola colpa dei tempi, scrisse in greco, e anche maluccio.

La tradizione non dee pesare sopra di noi come un incubo, come un impedimento, come un impaccio, come oggetto di culto e di stupida reverenza; e siamo bene intesi di ciò: - ma, d'altra parte, la tradizione è ciò che ci tiene nella storia, il che è quanto dire, che è ciò che ci ricollega alle condizioni faticosamente acquisite, le quali agevolano il lavoro nuovo e rendono possibile il progresso. A fare altrimenti si è bestie; perché il solo lavorio secolare della storia differenzia noi dagli animali. E poi, inoltre, nessun che si metta a studiare, sia pur nel modo più concreto, empirico, particolare, minuto e circostanziato, un qualunque lato della realtà, può rifiutarsi mai di ammettere, che a un certo punto si è come assaliti dal bisogno di ripensare alle forme generali (ossia alle categorie), che son ricorrenti negli atti particolari del pensiero (unità, pluralità, totalità, condizione, fine, ragion d'essere, causa, effetto, progressione, finito, infinito e così via). Ora, per poco che in questa nuova curiosità ci soffermiamo, i problemi universali della conoscenza ci s'impongono; ossia, ci appariscono come necessariamente dati: - e in questa inevitabile suggestione ha origine e sede anche ciò che voi chiamate metafisica, e che può chiamarsi altrimenti.

Tutto sta a sapere come cotesti dati vengano poi da noi maneggiati. La nota caratteristica, parlando, s'intende, molto genericamente, del pensiero classico (dico dei greci), è una certa ingenuità nell'uso e nella trattazione di tali concetti. La nota caratteristica della filosofia moderna, e qui di nuovo molto per le generali, è il dubbio metodico, e quindi il criticismo, che accompagna, a guisa di sospettosa cautela, l'uso di tali forme, così nell'intrinseco, come nella portata estensiva. Ciò che decide di tale passaggio dalla ingenuità alla critica è la osservazione metodica (scarsa per estensione e per sussidii negli antichi), e, più che l'osservazione, l'esperimento volontariamente e tecnicamente condotto (che mancò quasi del tutto agli antichi). Sperimentando, noi diventiamo collaboratori della natura; - noi produciamo ad arte ciò che la natura da per sé produce. Esperimentando ad arte, le cose cessan dall'esser per noi dei meri obietti rigidi della visione perché si vanno, anzi, generando sotto la nostra guida; e il pensiero cessa dall'essere un presupposto, o un'anticipazione paradigmatica delle cose, anzi diventa concreto, perché cresce con le cose, a intelligenza delle quali viene progressivamente concrescendo. L'esperimento ad arte e metodico finisce da ultimo per indurci nella persuasione di questa verità semplicissima: che anche prima che nascesse la scienza, e in tutti gli uomini che alla scienza non arrivano, le attività interiori, compreso l'uso della ovvia riflessione, sono come un venir crescendo, per la sollecitazione dei bisogni, di noi in noi stessi, e cioè un generarsi di nuove condizioni, successivamente elaborate17. Anche per questo rispetto il materialismo storico è la chiusa di un lungo sviluppo. Esso giustifica perfino il processo storico del sapere scientifico facendo questo sapere qualitativamente consono e quantitativamente proporzionale alla capacità del lavoro; cioè facendolo rispettivo ai bisogni.

 

Torno a voi, e vi do ragione per la staffilata che aggiustate all'agnosticismo. Esso è il pendant inglese del neokantismo tedesco: con un notevole divario però. Questo, il neokantismo, non rappresenta, in conclusione, se non una corrente accademica, che ci ha dato, con una più chiara conoscenza di Kant, una utile letteratura da eruditi; mentre quello, l'agnosticismo, per la sua diffusione popolare, è un fatto sintomatico della presente condizione di certe classi sociali. I socialisti avrebbero tutte le ragioni di credere, che quel fatto sintomatico sia uno degli indizi della decadenza della borghesia. Fa, certo, un malinconico contrasto con la eroica securtà del vero, che assiste il pensiero nei prodromi della storia moderna (Bruno e Spinoza!), con l'asseveranza da Convenzionali, che fu propria dei pensatori del secolo passato fino a venir poi giù giù alla filosofia classica di Germania, ed anche con la precisione dei metodi esplorativi, i quali hanno ai tempi nostri allargato di tanto il dominio del pensiero su la natura. Ha l'aria della paurosa rassegnazione. Manca del carattere essenziale ad ogni filosofia, secondo Hegel, ossia del coraggio della verità. Un qualcuno di quei marxisti, che inducono così senz'altro, a bruciapelo, dalle condizioni economiche ai riflessi ideologici, come chi issofatto traducesse i segni stenografici, potrebbe quasi dire, che cotesto Inconoscibile, tanto celebrato da una vasta setta di quietisti della ragione, è segno già che lo spirito dell'epoca borghese non è più atto a guardare perspicuamente nell'ordinamento del mondo, perché il capitalismo, dal quale esso toglie l'orientazione, è già in se fradicio; e, per ciò, molti, nell'istintiva coscienza della prossima rovina, si dànno ad una specie di religione dell'imbecillità. Simile asserto potrebbe sembrare per fino ingegnosamente bello, pur rimanendo non dimostrabile: sebbene poi rassomigli a molte delle sciocchezze, che furon dette da tanti in nome dell'interpretazione economica della storia18.

E invece, io dico, che cotesto agnosticismo ci rende un grande servigio. Fermandosi gli agnosticisti a dire e a ripetere, che non è dato di conoscere la cosa in sé, l'intimissimo della natura, la causa ultima e il fondo dei fenomeni, essi per un'altra via, ossia a modo loro, come gente, cioè, che rimpianga l'impossibile, vengono a quello stesso resultato al quale arriviamo noi, non con rimpianto ma da realisti che non cercano l’aiuto della immaginazione, e cioè: che non si può pensare se non su quello che noi possiamo sperimentare, in lato senso, noi stessi.

Guardiamo a ciò che è accaduto nel campo della psicologia; fu fugata, da un canto, la illusione ideologica, che i fatti psichici si spieghino assumendone a sostanziale subietto un ente iperfisico; - fu bandita, dall'altro canto, la volgarità, più materiale che materialistica, essere il pensiero una secrezione del cervello; - fu fissata l'inerenza dei fatti psichici nello specificato organismo, in quanto l'organismo stesso è un processo di formazione, e in quanto i fatti psichici sono la interiorità dell'attività dei nervi, ossia questa attività in quanto è coscienza; - fu respinta la grossolana ipotesi del materialismo semplicistico, che cotesta interiorità, la quale si conserva e si complica, per il solo fatto che noi ne scovriamo giorno per giorno le rispettive condizioni nei centri nervosi, in quanto è interiorità, ossia funzione di coscienza, possa essere estensivamente osservata; - ed eccoci arrivati alla scienza psichica, che è impreciso, per non dire erroneo, di chiamare psicologia senza l'anima, ma bisogna denominare scienza dei prodotti psichici senza il mito della sostanza spirituale.

 

Quando Engels nell' Antidühring usava della parola metafisica in senso peggiorativo, intendeva appunto di riferirsi a quelle maniere di pensare, ossia di concepire, di inferire, di esporre, che son l'opposto della considerazione genetica, e quindi (subordinatamente) dialettica delle cose. Tali maniere son contrassegnate da questi due caratteri: in prima dal fissare, come per sé stanti, e del tutto indipendenti l'uno dall'altro, quei termini del pensiero, i quali in verità son termini solo in quanto rappresentano i punti di correlazione e di transizione ai un processo; e, in secondo luogo, nel considerare quei termini stessi del pensiero come un presupposto, un'anticipazione, o anzi un tipo od un prototipo della povera e parvente realtà empirica. Nel primo rispetto, per es., causa ed effetto, mezzo e fine, ragion d'essere e realtà, e così via, si presentano allo spirito soltanto come termini distinti, e quindi diversi, e alcune volte opposti; quasiché si desser cose, che siano per sé esclusivamente cause ed altre che siano per sé esclusivamente effetti, e così di seguito. Nel secondo caso pare come se il mondo dell'esperienza ci si andasse disintegrando e scindendo innanzi agli occhi in sostanza ed accidenti, in cosa in sé e fenomeno, in possibilità e in ovvia esistenza. Tutta cotesta critica si risolve nell'esigenza realistica di considerare i termini del pensiero, non come cose ed entità fisse, ma come funzioni; perché quei termini hanno valore, solo in quanto noi abbiamo qualcosa da pensare attivamente, e siamo in effettivo atto di pensare, procedendo.

Cotesta critica dcll'Engels, che per molti rispetti è specificabile e precisabile ancora, e soprattutto per ciò che riguarda la origine di cotesto pensare metafisicamente, ripete a modo suo la opposizione hegeliana fra l'intendimento, che fissa gli opposti come tali, e la ragione, che gli opposti rimette in serie di processo ascendente - (la divina arte di conciliare gli opposti, direbbe Bruno - omnis determinatio est negatio, diceva Spinoza).

Cotesta metafisica, sensu deteriori, ha alla lontana una qualche analogia con la origine dei miti. S'inradica nella teologia, in quanto questa è diretta a rendere plausibili al ragionamento formale i dati (subiettivi sì, ma che l'autoillusione fa parere obiettivi) del credere. Quanti miracoli non ha fatto il quasi-mito dell'eterno logos? Tale metafisica, in senso diremo oramai dispregiativo, come stadio e come intoppo di un pensiero ancora in formazione, ricorre in ogni ramo del sapere. Quanto sforzo non è costato alla riflessione dottrinale, nel campo della linguistica, l'andar sostituendo alla illusione paradigmatica delle forme grammaticali la genesi di queste: genesi che va psicologicamente cercata ed accertata nel vario atteggiarsi del parlare, che è un fare ed un produrre, e non un semplice factum? Così fatta metafisica, in senso d'ironia, esiste ed esisterà forse sempre nei derivati verbali e fraseologici dell'espressione del pensiero; perché la lingua, senza della quale noi non potremmo, né addivenire alla precisione ai quello, né formularne la manifestazione, al tempo stesso che dice, altera ciò che esprime, ed ha perciò sempre in sé il germe del mito. Sprofondiamoci pur quanto si voglia nella teoria più generale delle vibrazioni, noi diremo sempre: la luce produce questo effetto: il calore opera così. Si ha sempre la tentazione, o per lo meno si corre il pericolo, di sostantivare un processo, o i termini di esso. Le relazioni, per via di una illusionale proiezione, divengono cose, e queste cose escogitate divengono, alla volta loro, soggetti operanti. Se facciamo attenzione, a questa così frequente ricaduta del nostro spirito nell'esercizio prescientifico dei mezzi verbali, noi ritroviamo in noi stessi i dati psicologici del modo come si originarono, in altre circostanze e tempi, le obiettivazioni delle forme del pensiero stesso in enti e in entità, come è il caso tipico delle idee platoniche: e lo dico tipico perché è il più plastico fra tutti. Di tale metafisica, in quanto essa è la immaturità di una mente non ancora scaltrita dall'autocritica, e non rafforzata dall'esperimento, è piena tutta la storia; che appunto per ciò, come per tanti altri motivi, è anche superstizione, mitologia, religione, poesia, fanatismo delle parole, e culto delle vuote forme. Lascia, cotale metafisica, le sue tracce anche in ciò che ai tempi nostri chiamiamo orgogliosamente scienza.

Non aduggia essa forse il campo della economia politica? Quel danaro, che, da semplice mezzo di scambio qual è in prima, si fa capitale, solo in quanto è in funzione col lavoro produttivo, non diventa forse, nella fantasia degli economisti, capitale ab origine, che per un diritto innato getti interesse? Ecco il gran significato di quel capitolo di Marx, dove si parla del capitale come di feticcio19. Di questi feticci è piena la scienza economica. La qualità di merce, che è propria del prodotto del lavoro umano, solo in un certo rispetto storico, - e, ossia, in quanto gli uomini vivono in un certo dato sistema di correlazione sociale, - diventa una qualità intrinseca ab aeterno al prodotto stesso. Il salario, che non è concepibile, se a determinati uomini non è imposta la necessità di darsi a mercede ad altri uomini, diventa una categoria assoluta, cioè un elemento d'ogni guadagno; e perfino l'intraprenditore capitalista si adorna del titolo di un che ritragga da se stesso un più alto salario! E poi la rendita della terra: - della terra, dico! Non ci sarebbe da venirne mai alla fine, se si volesse enumerarle tutte coteste trasformazioni metaforiche dei rapporti relativi in eterni attributi degli uomini o delle cose.

Ma che non è diventata la lotta per l'esistenza nel volgare darwinismo? - un imperativo, un comando, un fato, un tiranno; e addio le empiriche circostanze del topo e della gatta, della nottola e dell'insetto, della erbaccia e del trifoglio. L'evoluzione, ossia l'espressione compendiaria d'infiniti processi, che dan luogo a tanti problemi circostanziati e non ad un singolo teorema, non si trasforma spesso, fantasticamente, nella Evoluzione? Per fino nelle volgarizzazioni della sociologia marxista, le condizioni, i rapporti, le correlatività di coesistenza economica acquistano - forse il più delle volte per insufficienza stilistica degli espositori - un certo che di fantasticamente soprastante a noi; come se nel problema ci fossero altri dati da questi in fuori: persone e persone, cioè inquilini e padroni di casa, proprietarii e fittaioli, capitalisti e salariati, signori e servitori, sfruttati e sfruttatori, cioè, in una parola, uomini ed uomini, che, in precise condizioni di tempo e di luogo, trovansi in varia dipendenza fra loro, per l'uso così e così distribuito e collegato dei mezzi necessarii all'esistenza.

La indubbia ricorrenza del vizio metafisico, che alcune volte a dirittura confina con la mitologia, ci dee rendere indulgenti verso le cause e condizioni, o direttamente psichiche o più generalmente sociali, che per tanto tempo ritardarono in passato l'apparizione del pensiero critico, coscientemente sperimentale e cautamente antiverbalistico. Né vale di ricorrere alle tre epoche del Comte. È questione, sì, di quantitativo predominio della forma teologica o metafisica nelle diverse epoche della storia, ma non di esclusività qualitativa, a fronte della così detta epoca scientifica. Gli uomini non furon mai esclusivamente teologisti o metafisici, come non saranno mai esclusivamente scientifici. Il più umile selvaggio che paventa i feticci, sa che il fiume in discesa gli costa minor fatica, che non il fiume su cui nuoti contro corrente, e nel suo elementarissimo esercizio del lavoro ha in sé un embrione di esperienza e di scienza. Ai giorni nostri ci sono, viceversa, degli scienziati con la mente ingombra di mitologia. La metafisica, nel senso di ciò che sarebbe il contrario della correttezza scientifica, non è già un fatto precisamente così preistorico, da stare alla pari col tatuaggio e con l'antropofagia!

Non è, spero, chi voglia mettere esclusivamente sul conto attivo del materialismo storico la vittoria definitiva su la metafisica, nella significazione usata qui innanzi, secondo Engels. Esso è, anzi, un caso particolare, per rispetto allo sviluppo del pensiero antimetafisico. Non sarebbe stato

veramente possibile, se l'intelletto critico non si fosse formato già per l’innanzi. Qui c'è da fare i conti con tutta la storia della scienza moderna. Quando il Don Ferrante dei Promessi Sposi (siamo, s'intende bene, al secolo XVII) che fu, se Leone XIII non vorrà per invidia di mestiere aversene a male, l’ultimo scolastico veramente convinto, moriva di peste, negando la peste, attesoché quella non rientrasse nelle dieci categorie di Aristotele, lo scolasticismo avea ricevuto già i primi, e fieri, e decisivi colpi. E da allora in qua è tutta una storia di conquiste positive del pensiero, che hanno, o assorbita, o eliminata, o altrimenti ridotta e combinata quella materia del conoscere, che innanzi formava la filosofia per sé stante, e quindi soprastante alla scienza. In cotesto cammino del pensiero scientifico, noi c'incontriamo, per es., nella psicologia empirica, nella linguistica, nel Darwinismo, nella storia delle istituzioni e nel criticismo propriamente detto. Direi anche nel positivismo, se non temessi d'ingenerare equivoco. Difatti il positivismo, guardato così in genere e per sommi capi, è una delle tante forme in cui lo spirito s'è andato avvicinando al concetto di una filosofia, che non anticipi su le cose, ma sia a queste immanente. Non è quindi da maravigliare, se, per la generica similarità che riavvicina il materialismo storico a tanti altri prodotti dello spirito e del sapere contemporaneo, molti di quelli che trattano la scienza alla maniera dei letterati e dei leggitori di riviste, ingannati dalle impressioni, e seguendo gl'impulsi della erudita curiosità, han creduto di poter completare Marx, o con questa, o con quell'altra cosa. Di coteste storpiature ne avremo per un pezzo. Induce soprattutto in cotesto errore l'abito, comune a quasi tutta la scienza del nostro tempo, della considerazione evolutiva o genetica: cosicché agli inesperti e superficiali pare che da chiunque si parli di evoluzione si dica lo stesso. Voi molto giustamente portate la vostra attenzione su i caratteri differenziali e differenziati del materialismo storico - i quali, aggiungo io, son proprii di una scienza da comunisti dialetticamente rivoluzionarii - e non vi proponete il quesito se il signor Marx possa andare a braccetto del tale o tale altro filosofo, ma vi chiedete, invece, quale filosofia sia a questa dottrina necessariamente e obiettivamente implicita.

 

Gli è per questa ragione che io vi ho lasciato e vi lascio anche l'uso della parola metafisica, nel senso non dispregiativo. In fondo al marxismo ci son dei problemi generali; e questi si aggirano, per un verso su i limiti e su le forme del conoscere, e, per un'altra parte, su le attinenze del mondo umano col resto del conoscibile e del conosciuto. Non è ciò che intendete voi di dire? Tanto è, che io appunto alle questioni più generali rivolsi l'attenzione mia nel secondo dei miei saggi; ma con un modo di trattazione che dissimula l'intento.

Chi consideri il materialismo storico nel suo insieme, può trovarvi argomento a tre ordini di studii. Il primo risponde al bisogno pratico proprio ai partiti socialistici, di andare acquistando una adeguata conoscenza della specificata condizione del proletariato in ogni paese, e di commisurare, congruamente alle cause, alle promesse ed ai pericoli della complicazione politica, l'azione del socialismo. Il secondo può menare, e menerà di certo, a rinnovare gl'indirizzi della storiografia, in quanto abiliti a ricondurne l'arte sul terreno delle lotte di classe e della combinatoria sociale, che da quelle risulta, data la relativa struttura economica, che ogni storico deve d'ora innanzi conoscere ed intendere. Il terzo consiste nella trattazione dei principii direttivi, a comprendere e svolgere i quali occorre di necessità la generale orientazione da voi invocata. Ora, pare a me - e ho dato di ciò la prova, scrivendo - che quando non si cada nell'antiquato errore di credere, che le idee stiano come degli esemplari al di sopra delle cose, ammessa la inevitabile division del lavoro, il darsi alla considerazione dei principii generali, presi per sé, non implichi per forza, lo scolasticismo formale, ossia la ignoranza delle cose dalle quali quei principii vengono astratti. Certo che quei tre ordini di studii e di considerazioni faceano uno nella mente di Marx, e, oltre che nella mente, fecero uno nell'opera sua. La sua politica fu come la pratica del suo materialismo storico, e la sua filosofia fu come inerente a quella sua critica dell'economia, la quale fu il suo modo di trattare la storia. Ma, lasciando stare che cotesta universalità di comprensione è la nota specifica del genio che inizii un nuovo indirizzo mentale, il fatto è che Marx stesso in un solo caso portò a compimento la integrazione della sua dottrina, ed è nel Capitale.

La perfetta immedesimazione della filosofia, ossia del pensiero criticamente consapevole, con la materia del saputo, ossia la completa eliminazione del divario tradizionale tra scienza e filosofia, è una tendenza del nostro tempo: tendenza, che il più delle volte rimane però un semplice desideratum. Cotesta tendenza vorrebbero alcuni significare, appunto quando dicono superata la metafisica (in ogni senso); mentre altri, che son più esatti, suppongono che la scienza giunta a perfezione sia già la filosofia riassorbita. La medesima tendenza giustifica quella dicitura di filosofia scientifica, che altrimenti sarebbe d'un risibile barocchismo. Se cotesta espressione può mai aver un riscontro pratico di evidenza probativa, gli è proprio nel materialismo storico, come fu nella mente e negli scritti di Marx. Ivi la filosofia è tanto nella cosa stessa, e in essa e con essa rifusa, che il lettore di quegli scritti ne prova l'effetto, come se il filosofare non sia se non la funzione stessa del procedere scientificamente.

Devo io qui stare a fare delle confessioni; o mi tocca solo di limitarmi a discorrer con voi obiettivamente, su quei punti che possono riavvicinarci negli intenti? Se io dovessi fermarmi alle espressioni aforistiche, che son proprie della confessione, io direi così: - a) l'ideale del sapere deve esser questo, che in esso cessi la opposizione fra scienza e filosofia; - b) ma, come la scienza (empirica) è in continuo divenire, e si moltiplica così nella materia come nei gradi, differenziando in pari tempo gl'ingegni che i singoli rami ne coltivano, e d'altra parte s'è accumulata e s'accumula di continuo sotto al nome di filosofia la somma delle cognizioni metodiche e formali; - c) così la opposizione tra scienza e filosofia si mantiene e si manterrà, come termine e momento sempre provvisorio, per indicare appunto, che la scienza è di continuo in sul divenire, e che in cotesto divenire entra per non poca parte l'autocritica.

 Basta guardare a Darwin per intendere quanto occorra di proceder cauti nell'affermare, che la scienza dell'ora presente sia per se stessa la fine della filosofia. Darwin ha di certo rivoluzionato il campo delle scienze dell'organismo, e con esse l'intera concezione della natura. Ma in Darwin stesso non fu la coscienza completa della portata delle sue scoverte: egli non fu il filosofo della sua scienza. Il darwinismo, come nuova visione della vita, e quindi della natura, e di qua dalla persona e dagl'intenti dello stesso Darwin. Viceversa alcuni volgarizzatori del marxismo hanno spogliato questa dottrina della filosofia che le è immanente, per ridurla ad un semplice aperçu del variare delle condizioni storiche per il variare delle condizioni economiche. Osservazioni così semplici bastano per persuaderci, che se noi possiamo affermare, che la scienza arrivata a perfezione è già la filosofia, ossia che questa non significhi se non l'ultimo grado della elaborazione dei concetti (Herbart), noi non dobbiamo, con l'enunciazione di tale postulato, autorizzar nessuno a parlare con dispregio di ciò che in senso differenziato chiamasi la filosofia, come non dobbiamo dare a credere a tutti gli scienziati, che, a qualunque grado dello sviluppo mentale si arrestino, essi sian di già i trionfatori o gli eredi di quella bagattella che fu la filosofia. E voi, perciò, non avete posta una questione che possa dirsi oziosa, mentre chiedete, a un di presso: - con quale animo il cultore del materialismo storico guarderà la rimanente filosofia?

 





17 “I giuochi dell’infanzia, non paia detto per celia, sono il primo principio ed il primo fondamento di tutta la serietà della vita; come quelli, che, servendo d’immediata scarica e di sfogo naturale alle movenze interiori, dànno via via luogo ad atti di accorgimento, e ad un lento trapasso da una in altra forma della consapevolezza. Al colmo di questa nasce poi l’illusione che il dominio acquisito (di noi sopra di noi stessi) sia originaria potenza e causa costante di quei visibili effetti, di cui s’ha e noi e gli altri l’evidenza obiettiva nelle operazioni” – così a pp. 13-14 del mio scritto: Del Concetto della Libertà, Studio psicologico, Roma 1878, che fu composto nel momento acuto della crisi della psicologia.



18 Parecchie di coteste sciocchezze furono abilmente illustrate da B. Croce; cfr.: Le teorie storiche del prof. Loria, Napoli 1897, e: Intorno al comunismo di Tommaso Campanella, Napoli 1895.



19 Ora gli edonisti, operando cum ratione temporis, spiegano l’interesse ut sic (danaro che produce danaro) per mezzo del valore differenziale tra il bene attuale e il bene futuro; traducono in concettualismo psicologico la ragione del risico, ed altre analoghe considerazioni della ovvia pratica commerciale. E poi operano su tale andare col sussidio di una matematica il più delle volte fattizia e fittizia.





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