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Antonio Labriola
Discorrendo di socialismo e di filosofia

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  • IX.
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IX.

Roma, 2 luglio '97

 

Voi accennate a quei critici, di varia indole e natura, i quali, per varie ragioni di molto difformi fra loro, ritengono, che il cristianesimo sfugga all'intendimento materialistico della storia, e stimano che in tale obiezione sia come una difficoltà insormontabile.

Devo io addentrarmi in cotesta selva, non dirò aspra e selvaggia, ma di certo molto oscura per me? Voi sapete come io respinga gli schematismi d'ogni sorta. Non mi pare - e pensare il contrario sarebbe mera fatuità, - ci sia mai alcuna teoria storica tanto buona ed eccellentissima per sé, che ne abiliti alla sommaria cognizione di ogni storia particolare, quando anche alla ricerca specializzata di questa non ci siamo per l'innanzi addestrati con proprii e diretti studii nostri. Ora io su la storia della chiesa cristiana non ho fatto fino ad ora studii ex-professo, che mi conferiscano il facile maneggio della cosa stessa; su la quale gli obiettatori di solito discettano e discorrono come chi giudichi per generiche impressioni. Da giovane, come accadeva allora di tutti quelli che si aggirassero nella cerchia della filosofia classica di Germania, lessi lo Strauss e i principali scritti della scuola di Tubinga; ed ora, con tanti altri, potrei, con piccola variante, ripetere la esclamazione di Faust: ich habe, leider, auch Theologie studiert!

Ma poi dopo... io di coteste materie non mi son più occupato. Ho serbata però in me viva la persuasione, che, come con la scuola tubingese cominciò, in definitivo e per davvero, quella considerazione del cristianesimo, che sola può dirsi storica, così gli ulteriori progressi consistano principalmente nelle correzioni e nei complementi, che furon già portati, o si vanno portando, ai resultati di quella stessa scuola. La principale delle correzioni è, e deve, a mio avviso, esser tuttora questa: che, mentre i tubingesi mirarono, in modo prevalente sì, ma non esclusivo, a studiare la genesi ed il processo delle credenze e dei dogmi, sia poi occorso, e occorra al presente, di mettersi allo studio obiettivo della formazione e dello sviluppo dell'associazione cristiana. Per cotesto riavvicinarsi a quel modo di considerazione, che, brevitatis causa, chiamerò sociologico, si fa un passo innanzi nella obiettività della ricerca: in guisa, che l'intendimento del come e del perché l'associazione è nata e si è svolta, ci il modo di vedere per quali ragioni e per quali vie gli animi, le fantasie, le menti, i desiderii, i timori, le speranze, le aspirazioni degli associati dovessero completarsi di certe credenze, ricercare certi simboli, giungere alla escogitazione di certi dogmi; - o come gli associati potessero mettere, in somma, assieme tutto un mondo dottrinale ed ideologico. Fatta una tale inversione, si è già su la via, che mena diritto al materialismo storico; ossia siam prossimi al postulato generale, che si debba considerare le idee come il prodotto e non come la causa di una determinata struttura sociale.

Se non erro, - perché, come dicevo, di tali argomenti me ne intendo relativamente poco - in questo indirizzo realistico concorrono soprattutto gli studii recenti delle antichità cristiane; nei quali, mi pare, primeggiano gli scrittori del genere di Harnack e simiglianti. Cito incidentalmente, giacché questo libro qui io l'ho studiato, quelle notevolissime letture dell'inglese Hatch; nelle quali, con la massima lucidezza di analisi documentaria, si va dimostrando, come l'associazione cristiana, da un punto in qua dalle sue primissime origini, si sviluppasse e si consolidasse per via dell'adattamento alle varie forme di quel diritto corporativo, che fioriva nelle varie regioni dell'impero, o nelle condizioni peculiarmente proprie al giure pubblico romano, o in quelle altre degli altri usi locali e nazionali, e segnatamente delle istituzioni greche ed ellenistiche. I nostri vescovi non se ne abbiano a male. Lo spirito santo ci sarà entrato per qualche cosa nel metterli al di sopra del rimanente dei fedeli, da quando nella associazione originariamente democratica si creò la differenziazione gerarchica di clero e di laici (ossia popolani); ma il loro nome stesso ricorda, che la organizzazione fu fatta sul preciso modello di quei corpi di navicellai, pescivendoli, fornai e simili, che aveano i loro episcopi (sopravveglianti) et reliqua.

A questo punto bisogna fare ancora un passo innanzi. Bisogna, cioè, abbandonare il concetto astratto e generico di una storia unica ed unitaria di tutto il cristianesimo, e venire alla storia particolare, per tempi e luoghi, dell'associazione cristiana: - la quale associazione ora è una parte soltanto di quella più larga società civile, semicivile, o a dirittura barbara, in cui essa s'andò svolgendo nei primi tre secoli; - ora par che covra ed assorba tutti i rapporti della complessiva società semicivile o semibarbara, come fu nell'occidente latino del così detto Medioevo; - e da ultimo, dopo quella dilacerazione dell'unità cattolica, che è il protestantesimo, e riconosciuta la libertà di coscienza, e assai più spiccatamente in seguito alla Grande Rivoluzione, torna ad essere una parte del tutto nella convivenza politico-sociale, una parte, o prevalente, o piccola, o minima, e così via dicendo. Su cotesta traccia stessa va trattato il problema dei rapporti fra chiesa e stato; che è questione di relatività storica, e non di teoretica elocubrazione formalistica.

Per questo modo d'intendere si è in fine in grado di ricercare e di dichiarare quelle condizioni materiali, le quali, come è accaduto di ogni altra convivenza umana, produssero dapprima l'associazione cristiana, e poi la mantennero, la perpetuarono, o la portarono alla parziale o locale dissoluzione, con tutte le varie vicende, che nelle cause e ragioni loro divengon poi senza difficoltà patenti. E si capisce che credenze, e dogmi, e simboli, e leggende, e liturgie, e altre simili cose debbano venire in seconda linea, come è proprio di ogni altra soprastruzione ideologica.

Continuare a scrivere la storia dell'ente Cristianesimo (ne faccio qui un solo sostantivo con la lettera maiuscola), gli è come moltiplicare l'errore di concezione metodica, nel quale incorrono i letterati e gli eruditi, quando compongono, in senso affatto unitario, come se si trattasse di cose per sé stanti, le storie della letteratura o della filosofia. In coteste manipolazioni della dotta fabbrica, pare come se i poeti, gli oratori, i filosofi di diversi tempi, isolati quasi dal resto del mondo in cui realmente vissero, si porgano la mano attraverso o al di sopra dei secoli, per comporre una illustre catena; - o come se, non avendo essi tolta la materia e l'occasione al poetare o al filosofare dalle condizioni della società in cui si svolsero, e dal grado evolutivo di questa, si sforzassero di entrare nella serie indipendente, che è lo studiato indice della dotta compilazione. Si capisce quanto sia cosa comoda l'avere a mano, nel manuale, la somma delle notizie su ciò che chiamiamo letteratura francese, per es. dalla Chanson de Roland ai romanzi del signor Zola: ma dall'una cosa all'altra non corre soltanto il cronologico millennio, né da una cosa all'altra intercede soltanto il semplice variare della facoltà poetica; perché, anzi, c'è di mezzo tutto il tramutarsi di tutti i rapporti della convivenza in tutti i suoi principali aspetti, e in rispetto a cotesti sociali tramutamenti le manifestazioni letterarie non son che relativi indici, sedimenti specifici, e casi particolari. Sarà comodo, specie per l'allevamento artificiale al sapere, che è tanta parte delle nostre Università, il ridurre in compendio la somma di ciò che nella storia chiamiamo genericamente filosofia; ma chi è che riesca a capir poi per davvero, per cotesta via, come i singoli filosofi siano arrivati a pensare in modi cosi difformi, e spesso contraddittorii? Come si fa a mettere in una sola linea di processo continuativo, indipendente ed unitario, la filosofia dell'antichità, che fu fino a Platone quasi tutta la scienza, - e poi quel minimo di scienza che fu la Scolastica sopraffatta dalla teologia, - e più in qua quella filosofia del secolo XVII, che è una forma di esplorazione concettuale parallela alla nuova scienza contemporanea della osservazione e dell'esperimento - in fine questa neocritica, che tende ora a far della filosofia una semplice revisione formale del saputo nelle singole scienze, già di tanto differenziate fra loro?

A potiori è assurdo l’andar scrivendo - salvo che per ragioni di comodità accademica - delle storie universali del cristianesimo. Non parlo di quelli che pensano con animo da credenti; e, ossia, opinano che il filo conduttore di tali storie unitarie consista nella missione provvidenziale della chiesa stessa attraverso i secoli. A coloro, che così pensano, e in vario modo intendono cotesta storia ideale eterna, che sarebbe come una immanente o processuale rivelazione, noi non abbiamo nulla da dire o da suggerire. Son fuori del campo nostro. Ma quei critici, i quali scrivono le storie unitarie di tutto il cristianesimo, pur sapendo e confessando di aver per le mani una materia che fa parte delle variabili e più o meno necessarie condizioni successive della vita umana, come non vedono, che la loro rappresentazione continuativa si tien sopra di un assai debole filo di tradizione, e riflette uno schema assai vago di cose appena appena riavvicinabili?

Il nascere, l'ampliarsi, il diffondersi, l'organizzarsi e lo sparire (in alcune parti, dico, del mondo, per es. l'Asia anteriore e l'Africa settentrionale) dell'associazione cristiana, e il vario atteggiarsi di essa verso il rimanente dell'attività pratica, e i multiformi legami che ebbe con le altre aggregazioni e potestà politico-sociali: - tutte coteste cose, che son la storia vera e effettuale, non s'intendono, se non si parte dalle condizioni complessive di ciascun singolo paese, nel quale, o pochi, o molti, o tutti gl'incoli, abitanti e cittadini, o da membri di modesta setta, o nelle forme d'imperiosa cattolicità, o perseguitati, o tollerati, o intolleranti e perseguitanti, si professarono e professano cristiani. E di cui solo si comincia a metter piede sul terreno solido, di ciò che è degno obietto dell'intendimento storico; e di qui alla interpretazione materialistica non occorre sforzo maggiore di quello che occorra in ogni altro ramo delle nostre conoscenze della vita del passato.

In una parola, la storia effettiva è quella della chiesa, anzi delle chiese; ossia di una società, che ha la sua oikonomia, così nel senso generico di ordinamento, come in quello specificato del modo di acquisizione, di produzione, di distribuzione e di consumo dei beni (ahimè, terreni!) Se altri intende per cristianesimo, in un senso esclusivo, il solo complesso delle credenze e delle aspettazioni circa il destino umano - credenze, che in verità varian tanto, quanto è il divario, per dirne una sola, tra il libero arbitrio del cattolicesimo postridentino e il determinismo assoluto di Calvino! - bisogna si rassegni a capire e ad ammettere, che cotesto complesso di vedute e di tendenze è nato e si è svolto sempre per entro la cerchia di una associazione, che ha variato di continuo in vario senso, ed è stata sempre, dal più al meno, contenuta da un più vasto e complicato ambiente storico-sociale, tanto per dirla con la prediletta espressione dei neologisti.

Conviene aggiungere un'altra considerazione. In questo quarto d'ora di prosa scientifica, in cui noi ci troviamo al presente, non si a credere più a nessuno, che la massa dei raccolti nell'associazione cristiana sapessero e capissero mai nulla di preciso del variare dei dogmi, e delle sottili discussioni dei sapienti e dei dottori. Delle plebi di Antiochia, di Alessandria, di Costantinopoli, e così via, agitantisi intorno alle bandiere di Ano e di Atanasio, noi non conosciamo precisamente le passioni, gl'interessi, il modo cotidiano del vivere, e l'ingenito e abituale idiotismo; - non possiamo descriverle proprio come faremmo ora di Napoli o di Londra: - ma non saremo mai così ingenui da credere, che capissero un iota della lotta circa la sostanza, o semplicemente simile, o affatto identica, del figlio per rispetto al padre. misureremo la differenza reale degli artigiani di Ginevra da quei d'Italia nel secolo XVI, dal divario dottrinale fra Calvino e Bellarmino. Per ciò appunto la storia del cristianesimo riesce in gran parte oscura, perché essa ci fu quasi sempre tramandata attraverso agl'involucri e alle diciture ideologiche di quelli che furono il riflesso dogmatico-letterario dello svolgersi dell'associazione; in guisa che della vita pratica si sa relativamente poco, e questo poco si assottiglia fino al minimo quanto più si risale ai primi secoli.

Inoltre, la massa dei consociati ha sempre serbato in cuor suo, e ha trasferito nelle minute credenze e nelle leggende, molte delle superstizioni e moltissimi dei miti che recava in sé prima di convertirsi, e tutte quelle altre superstizioni e tutti quei miti, che le fu necessità di creare, per rendersi in qualche modo plausibile le dottrine astratte e metafisiche del cristianesimo dogmatico. Accadde ciò assai visibilmente fin dalla seconda metà del secondo secolo, quando l'associazione avea cessato da un pezzo dall'essere una democratica setta di aspettanti il regno di dio, compenetrati tutti dello spirito santo, e volgeva alla formazione di una organizzata cattolicità, così nel senso della ortodossia, come in quello di una semipolitica coordinazione gerarchica di moltissimi non più santi, ma semplicemente uomini. Cresce cotesto trasferimento di tutte le superstizioni locali, regionali ed etniche nel seno del cristianesimo, dacché, diventando la chiesa in definitivo ortodossamente ufficiale e territoriale, era tolto il modo a qual si fosse più zelante di andar sceverando, con scrupolosa epurazione, i capaci di una persuasione, frutto di pedagogico addestramento, dagli obbligati a credere, e a stare ai riti e alle forme come che si fosse. Rovinando poi l'Impero di Occidente, per le sommarie o forzate conversioni dei barbari della Germania e della Slavia, s'accrebbe il capitale delle credenze popolari da formare il pascolo cotidiano delle masse, che eran tenute in obbligo di professare simboli e credenze tanto superiori o estranee all'ambito di loro menti, come quelle che rappresentavano un precipitato di molte semi-filosofie. Tutte coteste popolazioni cristiane vissero e continuarono a vivere delle loro variopinte credenze; per la qual ragione, poi, esse effettivamente trasformarono i dati comunissimi del cristianesimo in moventi ed in occasioni a nuove e speciose mitologie. A riscontro di tal vita barbaramente ingenua, le definizioni dei dottori e le decisioni dei concilii rimasero come librate in aria, quale ideologia inattingibile alle moltitudini, e a guisa di dottrinale utopia.

Da quali ragioni e cause, da quali moventi e mezzi i membri della consociazione furon tenuti, dunque, assieme nei tempi dei quali si dice che la religione fosse l'anima e il fulcro di tutta la vita? Prescindo dalle prepotenze e dalle violenze, per non entrare in un capitolo assai spinoso, che è quello cui s'appellano di solito i passionati avversarii del cristianesimo; capitolo che mette sotto gli occhi la storia delle più odiose tirannie, delle più feroci ed inumane persecuzioni, e della più raffinata ipocrisia. Tantum religio potuit suadere malorum! Ciò che mi preme gli è di notare, che la forza principale della coesione fosse appunto in quei disprezzati mezzi materiali, l'uso il maneggio e il governo dei quali ha fatto crescere l'associazione in una potente organizzazione economica, coi suoi ufficii, con la sua gerarchia, col suo diritto, e coi suoi servi, e schiavi, e dipendenti, e coloni, e ministri, e protetti e beneficati. La proprietà ecclesiastica rappresenta tutta una serie di variazioni, dall'obolo del semicomunismo alla legale corporazione, e da questa alla raccolta dei legati, alla costituzione dei complessi terrieri del latifondo, e poi del feudo coi corollarii delle decime e della finanza delle anime, e fino ai tentativi più moderni della industria coloniale (i Gesuiti), e così via ad altre ed altre cose. Ciò che mantenne la coesione degli umili furon principalmente, come sono in parte tuttora, i beneficii dell'elemosina, dell'assistenza dei malati, dei derelitti, degli orfani, delle vedove e così via, della ordinata e metodica gestione dei campi, del dissodamento delle terre di nuovo acquisto alla coltura. Questi i mezzi, che, come è accaduto di ogni altro ente morale collettivo, fecero dell'associazione cristiana una cosa vitale, e nel Medioevo soprattutto permisero ad un piccolissimo ceto di addottrinati di far servire una vasta compagine economica a fini relativamente più elevati, più nobili, più altruistici e più progressivi, di quel che non accadesse nell'ambito dei possedimenti strettamente feudali, e per opera di sovrani taglieggiatori, razziatori, e pirati. La borghesia, nelle sue diverse fasi, con modi più o meno rapidi, e in forme più o meno rivoluzionarie, ha fatto dappoi man bassa di cotesta economia della proprietà del popolo cristiano, e l'ha in diversi modi incorporata alla proprietà di pieno diritto privato, e l'ha resa fluida nel sistema capitalistico. Dove cotesta proprietà di ecclesiastica economia ha resistito parzialmente, e dove parzialmente resiste ancora ai colpi dell'evo progressivo, gli è perché essa adempie tuttavia alcuni ufficii, che le altre organizzazioni pubbliche, e lo stato che le rappresenta, o non assumono sopra di sé, o tollerano sussistano tuttora nella chiesa, come in forma di concorrenza.

La storia di cotesta economia è il midollo di quella interpretazione del variare del cristianesimo, che la critica ulteriore dovrà elaborare. Quel Gregorio Magno, che par già così persuaso, che il vescovo di Roma fosse destinato a tener le parti del tramontato Impero dell'Occidente, quel Gregorio, noto al comune delle persone colte per le sue visioni, per il suo amore della musica e per l'apostolato nell'Anglia, da economo dettò le leggi della condotta del latifondo ecclesiastico. A parecchi secoli di distanza, per tutte le traversie dei semistati e delle varie comunità semi-politiche, che si andaron sviluppando entro l'ambito dal sempre mal fermo e mal restaurato Impero d'Occidente, la estesissima proprietà ecclesiastica, da per tutto diffusa e da per ogni dove incuneata, dette luogo a tentare quella politica, che, da Gregorio VII a Bonifacio VIII, mirò a fare del successore di Pietro l'erede di Augusto. Questa politica non fu tale qual fu, perché i frati clunacensi ne avessero escogitata la dottrina, o perché com'è di fatti, Gregorio VII ed Innocenzo III fossero uomini sommi, ma perché solo in quel vasto sistema economico c’erano i dati per tentare un gran disegno di organizzazione; al quale, come è noto, si ribellarono in diversi modi, non solo gli altri semipotentati politici d'allora, ma in alcuni punti di più progredita operosità industriale e commerciale (Fiandra, Provenza, Italia del nord) con diversi intendimenti, o di cenobitica ascesi o di civile libertà cristiana, anche una parte delle plebi e delle recenti borghesie. E difatti l'umiliazione inflitta a Bonifacio VIII in Anagni, non è se non il punto acuto di quella politica di Filippo il Bello, che, da precursore molto alla lontana del principato rivoluzionario del secolo XVI, mette per il primo arditamente la mano su la sostanza del popolo cristiano.

E qui vorrei far punto a questa digressione; perché cotesta storia economica non è stata ancora per davvero scritta, e non sarò io ad avviarla con queste incidentali osservazioni.

 

Mi pare, però, che i soliti obiettatori dicano: ma fatta questa storia economica, tutto il resto sarà chiaro chiarissimo? E qui saremmo al solito caso di quelli che si fanno dei castelli di carta, per aver poi il gusto di distruggerli con un bel soffio. Spiegare un processo consiste, in generale, nel risolverlo nelle condizioni sue più elementari, fino al punto che ci sia dato di scorgere e seguire (dal minimo del discernibile in su) le fasi successive, come chi vada da premesse a conseguenze.

Nessuno si sognerà di affermare per es., che quando si conosca a fondo la struttura economica della città di Atene tra la fine del V e il principio del IV secolo a. C., si possa poi difilato passare ad intendere, così senz'altro, cioè senza il sussidio critico degli elementi intellettuali raccolti nella tradizione, tutto il contenuto ideologico di tutti e singoli i dialoghi di Platone. Ciò che occorre in verità di spiegare innanzi tutto è l'uomo Platone; ossia le sue disposizioni estetiche e mentali, il suo pessimismo, la sua fuga dal mondo, il suo idealismo e il suo utopismo. Tutto ciò è il prodotto di quelle condizioni, che come si svolsero ideologicamente nell’individuo Platone, si svolsero del pari in tanti e tanti altri contemporanei suoi, che altrimenti non l'avrebbero inteso, ammirato e seguito al punto da creare intorno a lui una setta, vissuta poi per secoli con tante modificazioni. Se altri si provi a distrarre quella formazione ideologica dall'ambiente, in cui per l'appunto nacque come primo prodromo del cristianesimo, essa diventa l'incomprensibile, ossia presso a poco l’assurdo.

A potiori ciò vale di quelle disposizioni e inclinazioni, o fantastiche, o mentali, che in una così grande convivenza, qual è stata l'associazione cristiana coi suoi molteplici ufficii e con le sue svariate attinenze, ingenerarono il bisogno di tante credenze, di tanti simboli, di tanti dogmi, di tante leggende. Ci torna di certo più facile di intendere i rapporti, che in genere legano tutte coteste ideazioni a certe determinate condizioni materiali della convivenza, che non di spiegare poi partitamente tutte e singole quelle ideazioni nel loro particolare contenuto. Cotesta difficoltà di adeguata spiegazione è cresciuta dal fatto, che si tratta di tempi di terribili catastrofi, di inauditi rimescolamenti, di decadenza delle attitudini alla scienza corretta; di tempi, in breve, nei quali manca quasi sempre la testimonianza spregiudicata, la critica, l'opinione pubblica, e le menti più forti, sequestrate dalla vita, inclinano all'astruso, al sottile e al verbalistico.

 

Gli è difatti il difficile intendimento, del come le ideologie nascano dal terreno materiale della vita, che forza all'argomentare di coloro i quali negano la possibilità di una piena spiegazione genetica del cristianesimo. In generale gli è vero, che la fenomenologia o psicologia religiosa che dir si voglia, presenta delle grandi difficoltà, e reca in sé dei punti assai oscuri. Come i dati empirici della natura e del vivere sociale si tramutino, in certi determinati tempi e in certe determinate disposizioni etniche, passando per il crogiuolo di una specificata fantasia, in persone, in iddii, in angeli, in demoni, e poi in attributi, emanazioni, e ornamenti di queste stesse personificazioni, e da ultimo in entità astratte e metafisiche come il logos, l'infinita bontà, la gomma giustizia e così via - non è cosa sempre facile d'intendere a pieno. In cotesto campo di derivata e complicata produzione psichica, siam molto lontani da quelle condizioni elementarissime, nelle quali, con l'osservazione e con l'esperimento c'è per es., lecito di seguire il sorgere e lo svolgersi delle prime sensazioni da un estremo all'altro, ossia dagli apparati periferici fino ai centri cerebrali, nei quali l'eccitazione e le vibrazioni si tramutano in noto alla coscienza, cioè dire in coscienza.

Ma è forse cotesta difficoltà psicologica un privilegio delle credenze cristiane? Non è essa propria del generarsi di tutte le credenze, e ideazioni mitiche e religiose? Ci son forse più chiare le creazioni tanto originali del primissimo buddhismo, e quelle più di seconda mano, e quasi sincretiche del maomettanismo? E risalendo poi in da questi sistemi delle grandi religioni, ci sono forse chiari e trasparenti a prima vista i procedimenti della fantasia nella creazione dei miti elementarissimi dei nostri protopadri ariani? Ci è proprio facile di renderci conto per filo e per segno di tutte le transizioni occorse alla fantasia di tante generazioni, attraverso tanti secoli, perché il pramantha, ossia il bastone da suscitare il fuoco fregandolo ed agitandolo in altro legno, si svolgesse poco per volta nell'eroe Prometeo? E pure questo è il mito più noto della mitologia indo-europea; quello per il quale esistono più dati per seguirne le successive fasi embriogenetiche, dagli antichissimi inni vedici in onore del dio Agni (il fuoco), fino alla creazione etico-religiosa della tragedia eschilea.

Gli è che coteste produzioni psichiche degli uomini dei secoli trapassati presentano all'intendimento nostro delle difficoltà tutte speciali. Noi non possiamo facilmente riprodurre in noi le condizioni che occorrono, per approssimarci allo stato interiore d'animo, che fu rispettivo a quei prodotti. Occorre una lunga assuefazione perché si acquisti quella attitudine interpretativa, la quale è propria del glottologo, del filologo, del critico, del preistorista; ossia di chi, col lungo esercizio e coi reiterati tentativi, si fa come una coscienza artificiale, congrua e consona all'obietto da spiegare.

Se non che il cristianesimo (e qui intendo dire della credenza, della dottrina, del mito, del simbolo, della leggenda, e non della semplice associazione nella sua oikonomika), ci riesce relativamente più facile, in quanto è a noi più prossimo. Ci viviamo in mezzo, e ne abbiamo di continuo a considerare le conseguenze e le derivazioni nelle letterature e nelle varie filosofie a noi familiari. Noi possiamo tuttodì osservare come le moltitudini combinino, all'ingrosso, tanto le atavistiche come le recenti superstizioni con una mezzana o appena approssimativa accettazione del principio più generale, che unifica tutte le confessioni: - il principio cioè della caduta e della redenzione. Noi l'associazione cristiana la vediamo all'opera, così per ciò che essa fa, come per le lotte che sostiene; e siamo in grado di rifarci sul passato per combinazioni analogiche, che di rado ci riesce di adoperare nella interpretazione delle credenze da noi remote. Assistiamo ancora alla creazione di nuovi dogmi, di nuovi santi, di nuovi miracoli, di nuovi pellegrinaggi; e, ripensando al passato, possiamo in buona parte dire: tout comme chez nous! Disponiamo, voglio dire, di un capitale di osservazione e di esperienza psicologica, che ci permette di rivivere nel passato, con isforzo assai minore di quello ci tocchi di fare, quando siam costretti a starcene alla sola analisi documentaria delle condizioni più antiche. Da quando si è cominciato a capir qualcosa di netto della origine della lingua, se non dal momento che fu inteso, non aver noi altro terreno di esperienza in proposito, se non nel modo come i fanciulli imparano tuttodì a parlare?

 

 

Per molti il problema della origine del cristianesimo rimane poi oscurato da un altro pregiudizio; che qui, cioè, si tratti di una formazione primissima, e quasi di una creazione ex nihilo. Costoro non pensano, che quelli che divennero cristiani giunsero a quel punto partendo da altre religioni; e che il problema della origine si riduce prosaicamente innanzi tutto a rintracciare, come gli elementi preesistenti siansi derivati in nuova forma, per entro all'ambito dell'associazione, e in che stia il vero e proprio nocciolo nuovo della neoformazione. Siamo in tempi storici. Di quelle religioni precedenti ci è nota principalmente la forma del giudaesimo posteriore, che era in una parte della massa popolare di messianismo esaltato, e nella classe degli addottrinati di affilata casistica. Ci sono a un di presso noti i culti, le superstizioni, le credenze dei varii paganesimi dell'impero e ci è nota la disposizione religiosa di una buona parte dei filosofanti di quel tempo, che eran quasi tutti decadenti, come ci son note le inclinazioni delle moltitudini di allora, più che mai propense ad accettare nuove fedi, nuove promesse, e la buona novella.

Dunque si tratta non di creazione, ma di trasformazione e siamo allora sul terreno di ogni altra storia. Per es. (- perché parlo sommariamente e come per incidente -): come Gesù è diventato il Messia degli Ebrei (forma primitiva ebionitica), come il Messia degli Ebrei è diventato il redentore di tutti gli uomini dal peccato (Paolo), e da ultimo come s'è combinato col logo del neoplatonismo di Filone (quarto evangelo)? Questo lo schema del processo ideologico. E poi dall'altra parte: come la primitiva associazione comunistica (del comunismo, s'intende, del consumo), degli aspettanti la prossima fine del reo mondo e l'universale catastrofe (l'Apocalissi), è diventata una consociazione (chiesa), che, rimandata in indefinito l'aspettativa del millennio (seconda epistola di Pietro), cresce in una organizzazione, che svolge una economia, e progressivamente si complica di attribuzioni e di ufficii? In questo processo dalla setta alla chiesa, dalla ingenua aspettazione alla complicata formula dottrinale, sta tutto il problema delle origini. Con l'allargarsi dell'associazione veniva in buon punto l'adattamento di essa alle varie forme di diritti vigenti, e col bisogno della dottrina collimava la diffusione del platonismo decadente. Certamente tutte coteste produzioni non possiamo riavvicinarcele agli occhi e all'osservazione nostra, in una intuitiva cronistoria. Non assisteremo al conversare di Filippo, di Matteo, di Pietro, di Giacomo, e loro prossimi successori, e così via, come se stessimo ad ascoltare Camillo Desmoulins, a ore 3 p. m. la domenica del 12 luglio 1789, in un caffè del Palais Royal. Non seguiremo l'originarsi e il fissarsi dei dogmi, come se si trattasse della messa insieme degli articoli della Enciclopedia. Siamo in tempi di impressioni confuse, e di non mai più viste fermentazioni. Delle grandi epidemie morali invadono gli spiriti. I rapporti più elementari della vita entrano in un periodo di acuta crisi. Al di sotto di quella civiltà della cerchia mediterranea che unificava il potere politico-amministrativo dell'impero e ciò che v'era di più utile e raffinato nell'Ellenismo, vegetavano mille forme di barbarie locali e di decadenze putride e verminose. Pensare che il cristianesimo si formò, di fatto e di nome, come cosa per sé stante, proprio nella molle Antiochia, sentina di tutti i vizii; e pensare che Paolo dirigeva ai Galati, ossia a Giudei dispersi in un paese di veri e proprii barbari, le sue sottili meditazioni, che ce lo rivelano non molto difforme da quegli Ebrei, che più tardi misero assieme il Talmud! Il cristianesimo si è diffuso fra gli umili, fra i reietti, fra le plebi, fra gli schiavi, fra i disperati di quelle grandi città, la cui tenebrosa vita c'è appena appena in qualche piccola parte dichiarata dalla satira di Petronio e di Giovenale, dai volterriani racconti di Luciano e da quei macabrici di Apuleio. Che cosa sappiamo noi di preciso su la condizione di quegli Ebrei della città di Roma, in mezzo ai quali si diffuse dapprima nell'Occidente la nuova trista superstizione, come ebbe a dir Tacito; quella superstizione, che nel volger dei secoli crebbe nel più potente organismo sociale che conosca la storia? Quelle prime origini non ci è lecito di ridurle in intuitivo racconto, e noi siam costretti a rifarle per congettura e per combinatoria. Questa è la ragion principale della interminabile letteratura in proposito; specie per opera dei dotti di Germania, che, anche quando non sian per nulla credenti, usano di chiamar teologia cotesta letteratura critica ed erudita.

 

La relativa oscurità delle prime origini fa nascere nelle menti di molti la curiosa credenza in un cristianesimo vero che sarebbe stato assolutamente difforme da quanto altro ha preso poi nome di cristiano in seguito. Quel cristianesimo vero, anzi originario, che poi viceversa è tanto oscuro, che ognuno può intenderlo a modo suo, fa soventi le spese della polemica di quei razionalisti, i quali, dopo d'aver coverto d'invettive cotesta empirica chiesa, a noi nota per la storia o per l'esperienza nostra, per rinforzo di argomentazione retorica si appellano alla chiesa ideale, che sarebbe stata la primitiva comunione dei santi. Questo è un mito storico, come la Sparta dei retori ateniesi, come la Roma antica dei ghibellini decadenti del XVI secolo, come tutte le creazioni fantasmagoriche di un passato paradisiaco, o d'un futuro non raggiungibile ancora. Questo mito storico ha assunto forme diverse. I settarii che si ribellarono alla cattolicità, o appena avviata o già trionfante da un pezzo, quei settarii, dico, che con ispirito di vera eguaglianza democratica, in determinate circostanze storiche, dai montanisti agli anabatisti, si sollevarono contro la chiesa profanamente terrena, e ortodossamente gerarchica, ebbero bisogno di rifarsi nella fantasia il cristianesimo vero, ossia la semplice vita protoevangelica, mentre proclamavano decadenza, aberrazione, opera di satana, tutto l'accaduto dappoi. A questo cristianesimo vero verissimo si appellarono assai spesso i comunisti ingenui, cui giovava, in difetto di ogni altra adeguata idea sul modo d'essere di questo ingiusto mondo delle misere disuguaglianze, di farsi delle proprie aspirazioni come un quadro, e questo potea trovare, come in tanti altri ricordi veri o fantastici, i motivi e il colorito nella poesia evangelica. Così accade fino a Weitling, che anche lui compose un: Evangelo del povero peccatore. E perché dovrei non ricordare quei Saint-Simoniani, che favoleggiando di un cristianesimo più vero, di da venire, in quello proiettarono tutte le aspirazioni della loro riscaldata fantasia?

Per tutte queste, e per tante altre cause, sta come campata in aria, nella mente di molti, l'immagine fantasiosa di un cristianesimo ultraperfettissimo, che sarebbe difforme, anzi per alcuni è assolutamente difforme - da tutto ciò che la volgare storia conosce e per cristiano; da che Stefano fu lapidato, fino alla Santa Inquisizione, che spedì all'altro mondo tante caterve d'infedeli; da che lo scalzo pescatore Pietro nei suoi paurosi dinieghi fece la parte dell'accorto Sancio Panza, fino a che papa Pio s'è compensato, con la infallibilità, del potere terreno che andava perdendo; dall'agape ebionitica dei poveri visitati dal Paracleto, ai gesuiti che armano delle flotte e fanno imprese commerciali, da precursori arditi della politica coloniale dell'evo borghese; dal Rabbi di Nazareth, che dice non esser di questo mondo il regno suo, ai vescovi ed altri prelati occupanti in nome suo per secoli, come proprietarii e come sovrani, dal quinto al terzo delle terre secondo i paesi, compresovi in alcuni luoghi il ius primae noctis, Chi per una ragione o per l'altra, e sia pure per semplice ipocrisia letteraria, crede a quel cristianesimo verissimo, è naturale sia imbrogliato a spiegare donde sia poscia nato questo men vero, o assolutamente aberrato, che noi tutti conosciamo. E si capisce, inoltre, come quel vero verissimo diventi un miracolo, se non proprio della rivelazione, della ideologia umana per lo meno; - e noi dal canto nostro non siamo obbligati a date la spiegazione di tale miracolo, né in nome del materialismo né in nome di qualunque altra dottrina, per la stessa ragione, per la quale la meccanica razionale non ha il dovere di spiegare, né il volo di Icaro, né quello dell'ippogrifo dell'Ariosto.

 

Conviene, nondimeno, non dimenticare, che quel cristianesimo vero, così idealmente contrapposto da tanti a questo assai positivo e realisticamente umano, che s'è svolto in condizioni accessibili al nostro ordinario intendimento, ha esercitato anch'esso la sua funzione storica, e giova ora a noi come di chiave per entrare più addentro nello stato d'animo e nei rapporti di vita dei cristiani primitivi. Fu quel cristianesimo vero come il simbolo delle varie ribellioni dei proletarii, delle plebi, della umile gente, dei manomessi, dei servi, degli sfruttati, fino al secolo XVI.

Ebbi occasione, come dissi già in altra lettera, di occuparmi quest'anno in modo circostanziato, nel mio corso accademico, precisamente di Fra Dolcino, nel quale culmina, e nel cui insuccesso declina il movimento della setta degli Apostolici. Poi che ebbi dichiarate le condizioni generali dello sviluppo economico e politico dell'Italia settentrionale e media, e quelle più particolari dell'ambito (ossia delle classi sociali) nel quale gli Apostolici sorsero e si diffusero, a un certo punto mi convenne di spiegare la dottrina, per la quale e con la quale Dolcino tenne ferma la compagine dei suoi seguaci, tenacissimi ed impavidi nel combattere fino all'ultimo da eroi, da martiri e da precursori di un nuovo ordine di cose nella vita dell'umanità. Quella dottrina è anch'essa uno dei tanti ritorni apocalittici al cristianesimo puramente evangelico; - è, ossia, la negazione di tutto ciò che la gerarchia abbia stabilito e fatto da papa Silvestro (da quello almeno della leggenda), in poi, negazione rinforzata dall'ardore apostolico, che il sentimento della lotta trasmuta in dovere di combattimento. Gli è naturale, che la spiegazione prima di quelle idee, come direbbero i letterati, vada cercata nei movimenti affini delle ribellioni antigerarchiche più prossime. Per un verso si risale agli Albigesi, e per un altro verso a quei confusi e variopinti moti di plebe, che hanno il comune nome di patarìa; e poi per un altro lato bisogna rifarsi su tutta quella agitazione mistica ed ascetica, che più volte accenna a dilacerare l'imperio papale, dal comunismo ideologico di Gioacchino di Fiore alle resistenze attive dei Fraticelli. Facendo un passo più addentro in cotesta ricerca, non è difficile di ritrovare, di dietro ai mistici veli dell'ascetismo, e all'esaltata passione per il cristianesimo vero, le materiali condizioni e i materiali moventi, per cui convengono intorno ad alcuni simboli di rivolta gl'infimi del cenobitismo, i contadini di quei paesi dove la feudalità è ancor viva, i contadini di quelle altre terre, che, francate dal feudo, per la rapida formazione dei liberi comuni furon violentemente proletarizzati, e poi la minutissima gente dei comuni stessi così spietatamente corporativi, e da ultimo, come sempre, gl'idealisti, che trasmutano in causa propria la causa dei derelitti: - gli elementi tutti di una rivoluzione sociale. Da questa spiegazione prossima si risale ad una spiegazione più generale, e direi tipica. Il moto dolciniano è uno dei momenti della gran catena delle sollevazioni delle plebi cristiane, che, con varia fortuna e con varia complicazione, si ribellarono alla gerarchia, e nei momenti più acuti furon portate alla inevitabile conseguenza dell'aspettazione del comunismo. Il caso classico, la forma strepitosa, per le circostanze di tempo e per la estensione e per la durata del moto, è di certo la sollevazione degli Anabatisti. Ma non fu cosa di poco conto la rivolta dolciniana; specie per le condizioni di precoce modernità economica in cui trovavasi la valle del Po, in principio del secolo XIV.

Ora, l'istinto dell'affinità portava le menti dei rappresentanti e dei condottieri delle plebi in rivolta a tornare verso l'immagine, o verso il confuso ricordo, o verso l'approssimativa riproduzione fantastica di quel cristianesimo primitivo, che fu tutto di minuto popolo, di gente afflitta e sofferente, aspettante la redenzione dalle miserie di questo reo mondo. Il cristianesimo vero, verso del quale, per simpatia procedente da similarità di condizioni, quei ribelli esaltati tornavano con tanto ardore di fede e di fantasia, fu una realtà: non nel senso dell'ideale e del tipico, da cui l'umana debolezza abbia deviato per aberrazione o per malizia, ma nel senso del fatto poveramente empirico. Il cristianesimo primitivo, mutatis mutandis, fu nel tipo, nell'insieme, nella fisonomia e nei moventi, più affine a ciò che Montano, o Dolcino, o Tommaso Münzer vollero, in tempi a ciò non adatti, ristabilire, che non a tutti i dogmi, liturgie, gradi gerarchici, dominii e demanii, lotte politiche, supremazie, inquisizioni ed altre simili miserie, in cui s'aggira la storia umanamente terrena della chiesa. Nei tentativi di cotesti ribelli, si rivede, come se essi avessero voluto dare in ispettacolo un esperimento del passato, quale debba essere stata, a un di presso, la figura originaria del cristianesimo come setta di perfetti santi, ossia di assolutamente eguali, senza differenze di clero e di laici, tutti parimenti capaci dello spirito divino, sanculotti e devoti al tempo stesso, tutti ad un modo.

 

Il problema più grave e più scabroso in tutta la storia del cristianesimo è appunto questo: d'intendere, cioè, come dalla setta degli assolutamente eguali sia nata, nel termine di men che due secoli, una associazione di differenziati per gerarchia, in guisa, che da una parte sta il popolo dei credenti e dall'altra stanno gl'investiti di potestà sacra. Questa differenziazione gerarchica si completa col dogma, il che vuoi dire con un dettame, che sopprime la immediatezza del credere nei singoli fedeli qual fatto di personale vocazione. La gerarchia vuol dire sacerdozio, amministrazione di cose, e governo delle persone. Di qui nasce la possibilità di una politica; e su la ricerca di questa politica s'aggira la storia della chiesa del III secolo. L'incontro della chiesa e dell'impero nel IV secolo non è se non il resultato del compenetrarsi di due politiche, per cui poi la religione e il maneggio degli affari da ultimo si confondono. In questo passaggio dalla libera associazione all'organamento semistatale, il quale fa che la chiesa abbia sempre da allora in poi esercitata una azione politica, o d'accordo con lo stato, o contro lo stato, o diventando essa stessa lo stato, si avvera il caso comune ad ogni associazione, la quale, dal momento che ha cose da amministrare ed ufficii da adempiere, diventa di necessità un governo. La chiesa ha riprodotto dentro di se stessa i contrasti proprii ad ogni stato, cioè le opposizioni di ricchi e di poveri, di protettori e di protetti, di patroni e di clienti, di proprietarii e di sfruttati, di principi e di soggetti, di sovrano e di sudditi. Quindi essa ha avuto nel suo proprio seno particolari lotte di classe - per es. di patriziato gerarchico e di plebe cenobitica, di alto e basso clero, di cattolicità e setta. Le sètte furono in gran parte ispirate, fino al secolo XVI, dal pensiero del ritorno al cristianesimo primitivo, e per ciò spesso colorirono i disegni attinti alle condizioni del presente di una ispirazione ideologica che rasenta l'utopia. La chiesa che è riuscita, è invece solo quella la quale, seguendo i modi di procedere che son proprii dello stato laico, anziché una società di eguali nello spirito santo, è divenuta una gerarchica consociazione di disuguali, con esercizio di formali diritti, con mezzi d'imposizione e di violenza, con perfetto imperio, o con parte d'imperio ceduto da altri imperanti, e col governo delle anime, che, come ogni altro governo spirituale, si svolge innanzi tutto col dominio su le cose senza delle quali le anime non han modo di esistere. Questi attributi umani, i quali, data la condizione di disuguaglianza economica degli uomini, riavvicinano la consociazione religiosa ad ogni altra maniera di governo delle cose di questo mondo, mostrano per un verso come l'associazione dei santi non potesse avere in alcun tempo una forma di esistenza che non fosse utopia, e per un altro verso ci spiegano la costante tendenza alla intolleranza ed alla cattolicità nelle varie sue forme, in quanto essa associazione, smentendo l'ingenuo martire di Nazareth, lasciato malinconicamente in croce su gli altari, ha fatto di questa terra il regno suo.

Per rimaner nell'esempio, che mi è più familiare pei miei recenti studii, il papato superimperiale precipitò sì nella persona di Bonifacio VIII, secondo la profezia di Dolcino, che di tre anni gli sopravvisse; ma non precipitò per dar luogo all'Apocalisse. Fu inflitta al papato sì l'umiliazione dell'esilio avignonese, ma non per dar luogo a un nuovo impero di Cesari, secondo l'utopia dell'Alighieri. C'erano allora già i prodromi dell'evo moderno, cioè i preannunzii del regno della borghesia. Filippo il Bello, che di lontano arieggia al principato civile, nel quale due secoli dopo la borghesia percorse la prima tappa del suo dominio politico su la società, mandava all'estremo supplizio i Templari, come per dire che l'epopea delle crociate finisse per opera dei cristiani stessi. E perché il motto della situazione ci fosse perfino nell'aneddoto, che sempre denuncia e smaschera gli stridenti passaggi dell'ironia della storia, il commissario del sire di Francia a preparare l'umiliazione di Anagni non fu un capitano di banda feudale, ma un legista, che negoziò il danaro occorrente alla bisogna in una cambiale rilasciata a un banchiere di Firenze.

Furono questi legisti, e principi usurpatori di diritti storici, e banchieri accumulatori del danaro, che poi divenne più tardi il capitale, quelli i quali iniziarono la moderna società così trasparente nella prosaica struttura degli intenti e dei mezzi suoi. Come su le altre rovine della società corporativa e feudale, così anche su le rovine del patrimonio ecclesiastico s’è assisa questa crudele borghesia, che, sfidatrice delle potenze misteriose, ha inaugurata l'èra del pensiero e della libera ricerca. E aspetta che altri la tolga di seggio: ma non sarà di certo, né il cristianesimo vero, né quello verissimo.

Se poi quegli uomini dell'avvenire, dei quali noi socialisti ci diamo assai spesso soverchio pensiero, produrranno o non produrranno ancora della religione, io, né so, né non so: e lascio ad essi soli la briga della vita loro, che sarà, spero, non lieve, perché non divengano degl’imbecilli nella paradisiaca beatitudine. Ciò che io vedo chiaro è solo questo: che il cristianesimo, che nel suo complesso è la religione dei popoli fino ad ora più civili, non lascerà luogo dopo di sé ad alcun’altra religione nuova. Chi d’ora innanzi non sarà cristiano, sarà irreligioso. E poi, in secondo luogo, noto, che i socialisti han fatto assai bene a scrivere nei loro programmi, che la religione è cosa privata. Spero che nessuno vorrà intendere coteste parole nel senso di una veduta teoretica, su la quale si possa poi ricamare una filosofia della religione. Quel comma del tutto pratico vuol semplicemente dire, che al presente i socialisti han troppe cose da fare di più utili e serie, da non doversi confondere con quegli hebertisti, blanquisti, e bakuninisti, e simili, che decretavano l'abolizione del divino, e Dio decapitavano in effigie. I materialisti della storia pensano però, dal canto loro, e fuori d'ogni apprezzamento subiettivo, che gli uomini dell'avvenire rinunzieranno molto probabilmente ad ogni spiegazione trascendente dei problemi pratici della vita di tutti i giorni, perché: Primus in orbe deos fecit timor! Antica la sentenza: di valore perpetuo l'enunciato!

 




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