Appendici
I.
Postscriptum all'edizione francese.
Frascati (Roma), 10 settembre ‘98
Sebbene fino ad
ora il Sorel non abbia dato segno di ricominciare, può sempre darsi ci si provi
in seguito. Ho però ragione di temere, che, ricominciando, s'incamminerebbe per
una via per me inaspettata, dal momento che mette in iscena: La crisi del
socialismo scientifico (cfr. suo articolo nella “Critica Sociale”,
del I° maggio 1898, pp. 134-38), proprio a proposito di quelle stesse
pubblicazioni del Merlino, che egli avea l'anno innanzi così aspramente
criticato nel “Devenir Social” (ottobre 1897, pp. 854-888).
Ma che egli
ricominci, o che non ricominci ad occuparsi di questi problemi generali avendo
riguardo a ciò che io ho scritto in queste lettere a lui indirizzate, mi preme
di dire qui, a scanso di fraintesi, e perché i lettori non cadano in equivoco,
che io non lo seguirei nelle sue immature e premature elucubrazioni su la teoria
del valore (“Journal des Economistes”, Paris, I° maggio 1897;
“Socialistische Monatshefte”, Berlin, agosto 1897; “Giornale degli
Economisti", Roma, luglio 1898). Senza entrare nel merito di tali
elucubrazioni, la qual cosa non si può fare per incidente o per passatempo, io
non vorrei, per la compagnia non ben definita del Sorel, vedermi poi citato fra
gli esempii della crisi del marxismo (cfr. Th. Masaryk: Die Krise des
Marxismus, Vienna, 1898; trad. franc. nella “Revue de sociologie”, luglio
1898; dove è citato il sig. Sorel in appoggio di tale preziosa scoverta
letteraria). A mio credere in cotesta pretesa crisi entrarono molte dramatis
personae, che, o non hanno ancora bene appresa la parte, o hanno paura di
apprenderla, o la recitano maledettamente male.
Coteste
medesime riserve io devo estendere, ma con una certa insistenza, anche al
Croce, per quanto riguarda la sua memoria: Per la interpretazione e la
critica di alcuni concetti del marxismo, Napoli 1897 (riprodotta nel
“Devenir Social”, anno IV, fascicoli del febbraio e marzo
1898).
Sebbene quello scritto paia concepito (e così
appunto dice l'autore stesso a p. 3) qual libera recensione del mio Discorrendo;
il fatto è che esso, oltre a parecchie utili osservazioni di metodologia
storica, e ad alcune sagaci note di tattica politica, contiene enunciati
teoretici, che nulla han da vedere con le pubblicazioni e con le opinioni mie,
anzi a queste son diametralmente opposte. Dovrei io forse mettermi per
le vie di una esplicita polemica ex-professo contro tutto l'insieme di
quella dissertazione, che per tanti altri rispetti è degna d'esser letta? Ma
perché mai; e a che pro? Lascio volentieri al libero recensente la
libertà delle opinioni sue; purché queste non passino agli occhi dei lettori
per un complemento delle mie, e per un complemento da me accettato.
Non posso,
però, fermarmi alla generica riserva, che basta per il Sorel; e, anzi, devo
indugiarmi in alcuni appunti sommarii di critica.
Passerei
senz'altro sopra alle sottili distinzioni scolastiche, in cui il Croce
s'impiglia insistendovi tra la scienza pura e la scienza applicata, tra
l'uomo oeconomicus e l'uomo morale, tra l'egoismo e il tornaconto,
tra l'essere e il doveressere, e così via, perché tanto
appartiene al mio mestiere di professore la tolleranza dello scolasticismo
tradizionale, che può in certi casi servire al primo addestramento degli
ingegni giovanili, ma non è mai la scienza piena e concreta. Come potrebbe mai
l'astronomo impedire che la gente parli del sole, che sorge, e tramonta? Caso
mai potrei rimandare, in via analogica e in linea approssimativa, ai capp. VI e
VIII del mio Materialismo storico: ove pian piano si dimostra come i fattori,
indispensabili alla cognizione empirica ed immediata, a un certo punto si
trasformino, o in aspetti o in momenti (secondo i casi) di un
complesso conoscitivo unitario. Ma, domando io per la più spiccia, come mai
colui che abbia il cervello ancor chiuso in tali strettoie della logica
dell'immediato intendimento empirico, fa poi ad abbordare proprio il problema
del marxismo, che è, o almeno (per usar cortesia agli avversarii) pretende di
essere al di sopra di tali volgari distinzioni? Non è questo un combattere ad
armi troppo disuguali? Inviterei quasi quasi il Croce a rifar la prova della
sua arte critica in altro campo di studii, a leggere sbrigativamente un
trattato di Energhetica - quello per es. recente dell'Helm - di mandare
al diavolo tutti gli Helmoltz e i R. Mayer di questo mondo, per rimettere in
onore, secondo il senso comune, la luce che è sempre luminosa,
ed il calore che è sempre caldo.
Ma donde il
Croce - e proprio nell'atto che s'occupa di Marx! - trae la persuasione, che
oltre alle varie economie succedutesi nella storia, rispetto alle quali l'economia
capitalistico-industriale è, per così dire, un caso particolare (ma è quel
caso, si noti, che solo fino ad ora ha la sua teoria, e questa esiste in molte
varianti di scuole e sottoscuole), ci sia poi una economia pura, che da
sola dà luce e indirizzo generale d'interpretazione a tutti questi casi, o,
diciamo meglio, a tutte queste forme di prosaica esperienza? Un animale in
sé, oltre a tutti gli animali visibili ed ostensibili? E che cosa dovrebbe
mai contenere codesta economia dell'uomo superistorico e supersociale, che
finisce per essere più noioso dei superuomini della letteratura e della
filosofia? Forse la nuda dottrina dei bisogni e degli appetiti, data la sola
natura ambiente, ma senza esperienza di lavoro, senza istrumenti, e senza
correlazioni precise, o di comunanza, o di società? Tanto per la psicologia
congetturale della preistoria la tesi potrebbe andare. Ma no: - questa economia
dell'uomo in sé è perpetua ed attuale; - e qui proprio mi ci perdo. Ecco
qua (p. 19): “Io tengo fermo alla costruzione economica dell'indirizzo
edonistico, all'utilità-ofelimità, al grado terminale di utilità, e
finalmente alla spiegazione (economica) del profitto del
capitale come nascente dal grado diverso di utilità dei beni presenti e dei
beni futuri! Ma ciò non appaga il desiderio di una spiegazione sociologica
del profitto del capitale; e questa spiegazione, con le altre della
medesima natura, non si può trovarla se non su la via per la quale la cercò il
Marx”. Il mio amico Croce è un uomo a dirittura incontentabile; e la sua
incontentabilità potrebbe farlo apparire, a chi altrimenti non lo conosca,
quale uomo alquanto capriccioso. Accetta d’emblée tutto un sistema
d’economia, un sistema che pretende di abbracciare tutto il conoscibile
economico. È questo un sistema, inoltre, assai noto in Italia, dove ha
rappresentanti notevoli, e anzi continuatori e perfezionatori, come dicono sia
il caso del Barone per la dottrina della distribuzione. A conferma della
sua profession di fede, che non può non essere di gran letizia essendo
edonistica, mette un tanto di punto ammirativo ove dice che accetta la spiegazione
economica (o che avrebbe a essere non-economica?) del “profitto del
capitale come nascente dal grado diverso di utilità dei beni presenti e dei
beni futuri!”. E che gli mancherebbe dunque per dare dell'imbecille e del
perditempo a Marx, che per vie del tutto diverse s'è affannato a ricercare
l'origine, il processo e la spartizione del sopravvalore; alla qual
cosa, alla fin fine, si riduce nell'essenziale l'attività sua specifica di critico
e d'innovatore dell'economia? La benedetta formola del D D', ossia del
danaro che si ritrova in danaro con tanto di più, fu come il chiodo fisso nella
testa di Marx ricercatore, come il pernio della sua ricerca. Ora il Croce,
fatta la sua profession di fede di edonista convinto, quasi come chi avendo già
bevuto e mangiato a sazietà, voglia ribere e rimangiare, si volge a Marx a
chiedergli una teoria sociologica, che sia complementare a quella economica,
nella quale lui Croce è tanto fermo e deciso; - e che altro può dirgli Marx se
non questo: mandate al diavolo quella vostra filastrocca edonistica, se no è
inutile interroghiate me su tali quisquilie, ché io non posso offrirvi che
l'assolutamente opposto. Di fatti il Croce è costretto a farsi un Marx diverso
- non dirò se molto o poco - dal vero, perché sia quello i cui principii
possano apparire conciliabili con gl'indiscutibili dati dell'edonismo.
Discorrendo del come Marx “poté giungere a scovrire e definire l'origine
sociale del profitto, ossia del sopravvalore”, esce in questa sentenza
(p 12): “Sopravvalore, in pura economia, è una parola priva di senso,
come è mostrato dalla denominazione stessa, giacché un sopravvalore è un
extravalore, ed esce fuori dal campo della pura economia. Ma ha bene un
senso e non è un assurdo, come concetto di differenza, nel paragone che si fa
tra una società economica con un'altra, un fatto con un altro, o due ipotesi
tra di loro”. E poi aggiunge in nota: “Faccio ammenda di un errore nel
quale incorsi in una mia precedente memoria, nella quale, pur dicendo rettamente
che il sopravvalore non è un concetto puramente economico, lo definivo
inesattamente un concetto morale; e dovevo dire, come dico ora, un
concetto di differenza di sociologia economica e di economia applicata,
e non di economia pura. La morale qui non ha parte, come non ha nessuna
parte in tutta l'indagine del Marx”. Auguro al Croce, che giungendo alla sua terza
memoria in argomento confessi poi, che del primo errore egli poté
fare ammenda, perché quello almeno era la generalizzazione di una opinione
ovvia nel socialismo volgare, che il sopravvalore sia cioè il compendio
delle proteste degli sfruttati; ma che del secondo errore non può scusarsi,
perché lui stesso non è più in grado di decifrare plausibilmente il pensiero
suo. Né solo per la continua equivocazione di profitto, interesse e sopravvalore;
ma perché in più luoghi assume il concetto di una società lavoratrice come
di una forma a sé (ma, dico io, in contrapposto a quale altra, forse a quella
dei santi in paradiso?) e dice: “Marx faceva il paragone della società
capitalistica con una parte di se stessa isolata ed elevata ad esistenza
indipendente; ossia il paragone tra la società capitalistica con la società
economica in se stessa (ma solo in quanto società lavoratrice)” e poi: “Dunque
l'economia marxista è quella che studia l'astratta società lavoratrice” (pp. 12
e 13).
Se c'è chi
senta il bisogno di liberarsi dal malefico bacillo metafisico, che induce a
tali ragionamenti, io gli consiglierei come rimedio la lettura, non già delle
polemiche degli economisti, e di quelle segnatamente che in Germania ebbero
occasione dalle pubblicazioni del Dietzel, che possono parer sospette, ma della
Logica del Wundt (vol. II, parte II, pp. 499-533), nella qual Logica, a
dirlo per incidente, più in là delle pagine testè citate si adduce come esempio
tipico di legge sociale (pare incredibile! e il Wundt non è dolce di sale,
né coi sociologisti, né con le così dette leggi sociali) proprio il sopravvalore
secondo Marx (ibidem, pp. 620-22).
Al postutto
cotesta economia pura - come è in uso di chiamarla in Italia, che è sempre il
paese dell'enfasi e della esagerazione - ossia cotesto indirizzo di ricerca
e di sistema, che su gl'inizii, o insufficienti, o ignorati, o dimenticati
del Gossen, del Walrass e del Jevons. s'è venuto sviluppando in ciò che ora ha
(vulgo) il nome di scuola austriaca, non è, così nelle
premesse come negli andamenti, se non una variante teoretica nella
interpretazione di quegli stessi dati empirici della vita economica moderna,
che han sempre formato l'obietto degli studii delle altre scuole. Si distingue
dalla scuola classica (che non fu tanto antistorica, come è parso a
molti, e come ha dimostrato R. SCHÜLLER: Die klassische Nationalökonomie, Berlin
1895), per la tendenza a un più alto grado di astrazione e di generalizzazione.
Si prova a mettere in maggiore evidenza gli stati psichici, che precedono ed accompagnano
gli atti ed i rapporti economici. Usa ed abusa degli espedienti matematici.
Non è la superistoria, sebbene metta assai spesso in iscena le robinsonate, che
dissimula però sotto la veste di una sottile psicologia individualistica: anzi
è tanto poco la superistoria, che da questa storia attuale assume due dati,
facendone dei presupposti estremi, ossia la libertà del lavoro e la libertà di
concorrenza spinte per ipotesi al massimo. Per ciò essa è, in ciò che reca,
afferrabile, comprensibile e discutibile; perché è confrontabile con
l'esperienza della quale è spesso una forzata ed unilaterale interpretazione.
(Alla generalità del pubblico francese ora è dato di leggere in forma chiara e
piana la esposizione sommaria della teoria del valore di cotesta scuola
nel libro di E. PETIT: Etude critique der différentes théories de la valeur,
Paris 1897).
Tornando al
Croce non saprei nascondere la mia maraviglia, che egli (note I e 2 a p. 14)
trovi a ridire contro l'Engels, perché questi una volta chiami storica la
scienza dell'economia, e un'altra volta poi parli di economia teoretica. Per
chi si fermasse alle parole sole basterebbe di dire, come storico in
quel caso li è l'opposto del naturale nel senso del fisso e dell'immutabile (le
famose leggi naturali della economia volgare), e il teoretico è
detto in opposizione al conoscere grossolanamente descrittivo ed empirico.
Ma c'è dell'altro. Ogni teoria non è se non la rappresentazione, per quanto più
si può perfetta, dei rapporti di reciproca condizionalità di quei fatti, che in
un determinato campo dell’esperienza appariscano omogenei, riavvicinabili e connessi.
Ma tutti questi varii gruppi di fatti sono momenti di un divenire. Or se
un fisiologista, dopo d'avervi esposta la teoria fisico-meccanica della respirazione
polmonare, esca a dirvi, che la respirazione non è legata all'esistenza del
polmone, e che il polmone stesso è un fatto particolare di genesi nella storia
generale degli organismi, vorreste voi forse cotesto fisiologista tradurlo,
nel-la qualità d'imputato, innanzi al fòro di un'altra economia pura, cioè
volevo dire, innanzi a quello di una fisiologia purissima, che studii l'ente
vita, anziché i viventi?
Di fatti il
Croce muove querela (passim) a Marx, per non aver questi
stabiliti i rapporti fra la sua indagine e i concetti di economia pura, per
mostrare (p. 3) “con metodica esposizione come i fatti apparentemente più
diversi del mondo economico siano retti in ultimo da una medesima legge,
o, ch'è lo stesso, come questa legge si rifranga variamente passando attraverso
organizzazioni varie, senza mutar se stessa, che altrimenti mancherebbe il modo
ed il criterio stesso della spiegazione”. Qui Marx, se avesse pur voglia di
rispondere, non saprebbe che cosa rispondere. Qui Marx non c'entra più. E non
si tratta nemmen più delle generalizzazioni, per dir vero troppo astratte della
scuola edonistica, che pur sempre rientrano nei processi leciti di astrazione e
d'isolazione proprii ad ogni scienza, che partendo dalla base empirica tenti la
via dei principii. Qui ci troviamo in presenza di una legge economica, che
a guisa di un quasi-ente attraversa misteriosamente le varie fasi della
storia, perché non s'abbiano a scucire. Questo è il puro possibile, che
è poi, in realtà, l'impossibile. Il signor Dühring - che qua e là è in
un certo modo direttamente difeso - è oltrepassato. Qui si tratta di
riaffacciare delle difficoltà nella concezione preliminare di ogni problema
scientifico, per le quali rimangon fuori della comprensibilità, non solo Marx,
ma tre quarte parti del pensiero contemporaneo. La logichetta formale, di
felice memoria, diventa l'arbitra del sapere. Teniamoci pure al testo, che in
passato ebbe tanta diffusione in Francia, il Port-Royal. Si parta da un
concetto della massima estensione e del minimo contenuto, e per incremento di
meccanica notazione si arrivi ad un concetto di minima estensione e di massimo
contenuto. E se ci capita poi fra mani un processo
reale, il passaggio per es., dall'invertebrato al vertebrato, o dal comunismo primitivo
alla proprietà privata del suolo, o dalla indifferenza delle radici alla
differenziazione tematica di verbo e nome nel gruppo ario-semitico, invece di
fermarsi in tali fatti, come in casi di epigenesi faticosamente e realiter
accaduta, scriveremo in un concetto già bello e preconcepito, per via di un
facile metodo di notazione, prima un A, poi un a, poi un a1,
poi un a2, poi un a3, e così via: - e tutto
sarà bello e fatto. E mi pare che basti di ciò.
Eccoci, per
conseguenza, ad alcuni enunciati alquanto curiosi (p. 2): “È una società
(s'intende quella studiata da Marx nel Capitale) ideale e
schematica, dedotta da alcune ipotesi, che potrebbero anche non essersi
presentate mai corso della storia”. Qui Marx diventa l'illustratore
teorico di una
quasi-utopia. E poi (p. 4): “Marx assunse, fuori del campo della pura
teorica economica, una proposizione, che è la famigerata eguaglianza
di valore e lavoro”. E di dove dunque l'ha presa? forse (secondo alcuni) c'è
arrivato “spingendo alle estreme conseguenze un concetto poco felice di
Ricardo”. Il quale Ricardo bisognerebbe espellerlo a dirittura dalla storia
della scienza, perché qualcos'altro di più felice non l'ha veramente
fatto. In un certo punto il Croce (p. 20, in nota) se la piglia col Pantaleoni,
perché questi “combatte il Böhm Bawerk, domandandosi donde il mutuatario del
capitale riesca a prendere di che pagare l'interesse”. Di fatti il Pantaleoni (Principii
di economia politica, p. 301) dice: “la causa generativa
dell'interesse sta nella produttività del capitale come bene complementare in
un processo tecnico vantaggioso, richiedente un certo tempo, e non nella virtù
del tempo, che lascerebbe le cose come le ha trovate”. Qui, e per tutto un
capitolo, il Pantaleoni, con l'andamento del ragionare che è proprio al
suo indirizzo, ripiglia a modo suo quella spiegazione dell'interesse per via
della produttività del (danaro-) capitale, che, uscita vittoriosa
già nel secolo XVII dalle polemiche coi moralisti e coi canonisti, apparisce
nella sua formola elementarmente economica per la prima volta in Barbon e
Massey. Quella spiegazione è la sola che l'economista possa enunciare, fino a
che la produttività del capitale, che prima facie pare evidente, non è
fatta essa stessa oggetto di una critica; la qual cosa ha menato poi Marx alla
formola più generale e al principio genetico del sopravvalore. In quello
stesso capitolo Pantaleoni abilmente polemizza contro il Böhm, che, come
direbbe il Croce “dà la spiegazione (economica) del profitto del
capitale, come nascente dal grado diverso di utilità dei beni presenti e dei
beni futuri” 49.
Ma volete forse
per vostro passatempo mettere in iscena una farsetta ideologica concepita così:
- si assume da una parte la legittima aspettazione del creditore, e dall'altra
parte la onesta promessa del debitore; - questi due attributi psicologici, che
tanto fanno onore alla eccellenza dell'animo loro, vengon messi nella dovuta
evidenza; poi si suppone, che debitore o creditore siano homines oeconomici tanto
perfetti, quanto è necessario di tener per fermo che siano, dal momento che
nacquero coi diagrammi del Gossen stampati nel cervello50; - poi si aggiunge la nozione del tempo
astratto; - e, costituita la santa trinità di aspettazione, promessa e
tempo, si attribuisce a questa trinità la virtù di trasmutarsi in quel più
di valore, che deve essere poniamo, per es., nelle scarpe prodotte col
denaro mutuato, perché il mutuante, in ultimo, e guadagnando pur lui qualcosa,
se nel frattempo non vuol morir di fame, solvat debitum cum usura. Ma
questa è proprio la scienza messa alla gogna. In verità il
tempo non è nella economia, come non è nella natura, se non la
misura di un processo: ed è nell'economia la misura del processo della produzione
e della circolazione (ossia, in ultima analisi, e data
la debita analisi, del lavoro). E solo in quanto esso entra
nell'economia per questo rispetto, il tempo è anche misura dell'interesse. Un
tempo che in quanto tempo operi come causa reale è un mitologhema. (Su gli
avanzi mitici nella rappresentazione del tempo leggere: Zeit und Weile nelle
Ideale Fragen di M. Lazarus, Berlin 1878, pp. 161-232). Se fino alla
mitologia dobbiamo risalire, rimettiamo a dirittura lassù nel cielo, più in su
dell'Olimpo, quell'antichissimo Kronos, che il volgo greco confondeva
con chronos (tempo): e se speranze, aspettazioni e
promesse son per sé cause reali di fatti economici, diamoci a dirittura
alla magia.
Parrebbe quasi
che perfino in questa, o per inavvertenza, o per una certa tal quale bizzarria
di forma letteraria, il Croce rischi di dare una capata, quando scrive (p. 16):
“E se nell'ipotesi del Marx, le merci appaiono come gelatine di lavoro, o
lavoro cristallizzato, perché in altra ipotesi non potrebbero apparire come
gelatine di bisogni, o quantità di bisogni cristallizzate?” Santi
numi! Marx non fu veramente un modello di ciò che chiamasi dizione classica,
specie nella plasticità, nella trasparenza e nella continuità delle immagini.
Marx fu un seicentista. Ma le sue immagini, spesso bizzarre, ma che non son mai
né ghiribizzi né facezie, dicon sempre qualcosa di profondamente realistico. Se
quella immagine della gelatina, che del resto non ha niente di sacramentale né
di obbligatorio per nessuno, l'andate a ripetere al primo calzolaio che vi
capiti innanzi, egli, accennando forse alle mani incallite, alla schiena
ricurva, e al sudore della fronte, vi dirà che a un dipresso ha capito, perché
nelle scarpe che produce ci mette via via una parte di se stesso, le sue
energie meccaniche, dirette dalla volontà, ossia dirette dall'attenzione
volontaria, secondo la forma preconcetta, nella quale si assomma,
come in intento ed in proposito, la sua attività cerebrale in quanto egli è in
atto di lavorare. Ma finora fu dato solo ai fattucchieri di credere o di dare a
credere, che coi soli desideri si riesca a conglutinare una parte di noi
stessi con alcun bene in genere, prodotto o non prodotto che esso si sia.
Con la
psicologia non è lecito di scherzare. Non saprei dire in poche parole quanta parte
di essa debba entrare nei presupposti della economia. So di certo però, che la
più parte dei concetti psicologici, che edonisti e non-edonisti vanno
cacciando dentro all'economia, ha un certo che di messoci a posta ad usum
delphini, un certo che di escogitato e non di trovato, un certo che di
accidentalmente tratto dalla volgare terminologia e non di criticamente
vagliato; onde è il caso di ripetere tractent fabrilia fabri. E so anche
questo, che dal bisogno al lavoro ci corre tutta la formazione
psicologica dell'uomo; ci corre quanto ci corre dal sentimento privativo della
sete, che è il bisogno del bere, che il bambino non associa ancora, non dirò ai
movimenti che gli occorrono, per procurarsi da bere, ma nemmeno alla
rappresentazione dell'acqua, sino all'atto del lavoratore provetto, il quale
per matura volontà d'intelletto, per volontà nella quale esperienza ed
immaginazione, imitazione ed inventiva fanno uno, scava un pozzo, o apre una
fontana. Ridurre e scheletrizzare cotesta viva formazione in un'arida
nomenclatura, questo fu il difetto della psicologia vulgaris, e questa
il più delle volte gli economisti, anche ai giorni nostri, prendono a premessa
delle loro speciali elucubrazioni. La psicologia del lavoro, che sarebbe
il coronamento della dottrina del determinismo, è ancora da scrivere.
A quoi bon questo
post-scriptum? dirà forse il lettore. Ecco qua: io non sono il paladino
di Marx, ammetto tutte le critiche, sono io stesso in tutto ciò che dico un
critico, non smentisco la sentenza: comprendere è superare; ma mi
conviene pur d'aggiungere, che superare è aver compreso.
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