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Iacopo Sannazaro
Sonetti e canzoni

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  • Parte seconda
    • XLI
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XLI

 

     Or son pur solo e non è chi mi ascolti,

altro che’ sassi e queste querce amiche,

et io, se di me stesso oso fidarme.

O secretari di mie pene antiche,

a cui son noti i miei pensieri occolti,

potrò fra voi securo or lamentarme?

Poi che non trovo altr’arme

contra ai colpi d’Amor, che preme e sforza

questa frale mia scorza

a soffrir più c’uom mai soffrisse in terra,

tal che, se l’aspra guerra

pietà non tempra, il sol morir mi è gioia;

ché a chi mal vive, il viver troppo è noia.

     Certo le fiere e gli amorosi ucelli

e i pesci d’esto ameno e chiaro gorgo

il sonno acqueta, e l’aria e i vènti e l’acque.

Sola tu, luna, vegli; e ben mi accorgo

che vèr me drizzi gli occhi onesti e belli,

né mai la luce tua, com’or, mi piacque.

Tu sai ben quanto tacque

la lingua mia, e quante in sé ritenne,

dal che ad arder venne

l’anima serva in questo carcer fosco.

Or che ’l mio mal conosco,

che ’l desir via più cresce e mancan gli anni,

comincio teco a ricontar miei danni.

     Quante fiate questi tempi adietro,

se ben or del passato ti rimembra,

di mezza notte mi vedesti ir solo!

A pena allor traea l’afflitte membra,

per fuggir un pensier noioso e tetro,

che fea star l’alma per levarsi a vuolo;

e per temprar mio duolo,

credendo che ’l tacer giovasse assai,

non t’apersi i miei guai;

ma se ’l tuo cor sentì mai fiamma alcuna,

e sei pur quella Luna

ch’Endimion segnando fe’ contento,

conoscer mi potesti al girlento.

     Che potea far, se d’ogni speme in bando

e dal dolor mi vedea preso e vinto,

e ’l sonno era nemico agli occhi miei?

Talor in queste selve risospinto,

scrivea di tronco in tronco sospirando

de la mia donna il nome; e ben vorrei

che fusse or noto a lei:

forse quel core adamantino e fiero,

non resistendo al vero,

a pietà si movesse di mia sòrte

e mi togliesse a morte,

ché sola ella il far con sue parole;

e ’n tanta pioggia mi mostrasse il sole!

     Tal guida fummi il mio cieco desio,

c’al labirinto, il qual seguendo fuggo,

mi chiuse, onde non esco omai per tempo.

Né questo incarco, sotto il qual mi struggo,

mi parrebbegrave, al creder mio,

se guidardon sperasse in alcun tempo.

Ma, perc’ognor m’attempo

e quella dolce mia nemica acerba

di in più superba

vèr me si mostra, e non veggio altro scampo,

corre senz’arme al campo,

per far, lasso, di me l’ultima prova;

ché bel fin è morir com’uom si trova.

     Che spero io più, se non di piante in piante

varcar mai sempre, e d’uno in altro strazio?

Sì mi governa Amor, Fortuna e ’l Cielo.

E bench’io non sia mai di pianger sazio,

pur mi rileva lo sfogare alquanto,

perché ’n silenzio sol non cangi il pelo.

Scusar non posso il velo,

e la man bianca, e i becapei che spesso

mi fanno odiar me stesso,

quando tra ’l volto inordinati e sparsi

mi son invidi e scarsi

di que’ begli occhi, ov’io mirando fiso,

sento qual sia ’l piacer del paradiso.

     Lasso, chi poria mai ridire a pieno

quel che questa affannata infelice alma

notte e prova al foco, ov’ella è d’esca?

La vita, a lei noiosa e grave salma,

non per tanti affanni venir meno,

ma più s’indura, per che ’l duol più cresca.

par che vi rincresca,

invide stelle, anzi ’l mio mal vi pasce;

ché s’a le prime fasce

chiuso avess’io quest’occhi, era assai meglio

andar fanciul che vèglio;

ché desiar non dee più lunga etade

chi gioven morire in libertade.

     Canzon, se tua ventura

ti guidasse dinanzi a la mia donna,

gèttati a la sua gonna

con reverenzia, et umilmente piagni

tanto che ’l lembo bagni:

ché s’ogni selva del mio duol s’attrista

che devrà far chi parumana in vista?

 




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