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Iacopo Sannazaro
Sonetti e canzoni

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  • Parte seconda
    • XLIV
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XLIV

 

     Sola angeletta starsi in trecce a l’ombra,

in trecce d’oro e di più rai che ’l sole,

per mia rara ventura vidi un giorno,

e col bel viso e con la bianca mano

far liete l’erbe e i fior d’un verde colle,

che per lei fia lodato in ciascun tempo.

     Lasso, vedrò io mai venire il tempo

ch’ella a seder m’invite a la bell’ombra,

e mi ritenga in quel beato colle

dal sorger primo al dipartir del sole,

sovente la gentil candida mano

vèr me porgendo, come fe’ quel giorno?

     Quand’io ripenso al benedetto giorno

che nel mie cor rinova il dolce tempo,

sospiro il duon de l’odorata mano

c’Amor mi fece, e dico: — Ov’è quell’ombra?

Ecco che già con Libra alberga il sole:

perché non la vegg’io nel ricco colle? —

     Oh qual grazia senti’ sopra al tuo colle,

patria mia bella, in te mirando, il giorno

che meco avea con l’un l’altro mie sole!

Poi carco di pensier, quel breve tempo

rivolgendo fra me, mi parse un’ombra,

ché non vedea la desiata mano.

     Non vide il mondoleggiadra mano,

ne coprì ’l ciel mai sì felice colle.

Ei sel sa, sallo Amor, sallo ancor l’ombra,

che nel mio cor verdeggia notte e giorno:

l’ombra che sopra al Po sì lungo tempo

pianse Fetonte, e ’l ruinar del sole.

     Ben credo c’ancor tu sospiri, o sole,

pensando a la divina ignuda mano,

ché, se ben ti rimembra di quel tempo,

ti rincrescea lassar l’amato colle;

al fin costretto di portarne il giorno,

pien d’ira, il nostro ciel copristi d’ombra.

     Tal ombra giù facea de’ rami il sole,

il giorno che ’l mio cor beasti, o mano,

qual mai colle non vide in alcun tempo.

 




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