LXIX
Incliti spirti, a cui Fortuna arride
quasi
benigna e lieta
per farvi
al cominciar veloci e pronti,
ecco che
la sua torbida inquieta
rota par
che vi affide
e vi
spiani dinanzi e fossi e monti;
ecco c’a
vostre fronti
lusingando
promette or quercia or lauro,
pur c’al
suo temerario ardir vi accorde.
Ahi menti
cieche e sorde
de’
miseri mortali, ahi mal nato auro,
qual mai
degno ristauro
esser pò
di quel sangue
del qual
la terra già bagnata suda?
e de la
schiera esangue
ch’erra
senza sepolcri afflitta e nuda?
Voi che sempre
fuggendo il volgo sciocco
e ’l suo perverso errore
tutte le
antiche carte avete volte
se
racquistar cercate in vita onore,
e per
coturno o socco
sperate
d’illustrar l’ossa sepolte,
acciò che
il mondo ascolte
vostri
nomi più bei dopo mill’anni,
drizzate
al ver camin gli alti consigli,
e, come
giusti figli,
il
vecchio padre, c’or sospira i danni,
liberate
d’affanni;
ché se
mai pregio eterno,
per ben
far, s’acquistò con lode e gloria.
questo,
s’io ben discerno,
farà di
voi qua giù lunga memoria.
Or che ’l vento vi aspira, e vostra nave
ha saldi
arbori e sarte,
sarebbe
il tempo da ritrarvi in porto;
ché poi,
lasso, non val l’ingegno o l’arte
ne la
tempesta grave,
quando il
miser nocchier, già stanco e smorto,
non trova
altro conforto
che di
voltarsi a Dio con umil pianto,
lodando
l’ocio e la tranquilla vita.
Dunque,
se ’l ciel vi invita
ad un
viver securo, onesto e santo,
non vi
induri il cor tanto
l’odio,
lo sdegno e l’ira,
c’al ben
proprio veder vi appanne gli occhi:
ché
spesso in van sospira
chi per sua
colpa aven c’al fin trabocchi.
Rare fiate il ciel le cagion giuste
indifese
abandona,
benché
forza a ragion talor contrasti.
Indi, se
’l ver per fama ancor risona,
le sue
mura combuste
vide al
fin Troia e i tempii rotti e guasti,
e tanti
spirti casti
per uno
incesto a ferro e a foco messi;
né questa
sol, ma mille altre vendette
c’avete
udite e lette:
populi
alteri, al fin pur tutti oppressi.
Deh,
questo or fra voi stessi,
ma con
più fausto inizio,
signor,
pensate; e se ragion vi danna,
non
vogliate col vizio
andar
contra virtù; ch’error v’inganna.
L’alto e giusto motor che tutto vede
e con
eterna legge
tempra le
umane e le divine cose,
sì come
ei sol là su governa e regge,
e solo in
alto siede
fra
quelle anime elette e luminose,
così qua
giù propose
chi de’
mortali avesse in mano il freno,
ché mal
senza rettor si guida barca.
Però con
l’alma scarca
di
sospetto e di sdegni, e col cor pieno
d’un
piacer dolce ameno,
al vostro
stato primo
ritornate,
e ’l voler del ciel si segna;
ché s’io
non falso estimo,
tempo non
vi fia poi di pace o tregua.
Quella real, possente, intrepid’alma,
che da
benigne stelle
fu qui
mandata a rilevar la gente,
con sue
virtù vi mova invitte e belle,
ch’ebber
sì chiara palma
del
barbarico popol d’oriente,
allor che
sì repente
col solito
furor la turca rabbia
e’ nostri
dolci liti a predar venne,
là ’ve
poscia sostenne
il giusto
giogo, in stretta e chiusa gabbia.
Ché se di
tanta scabbia
il nostro
almo paese
per sua
presenzia sol fu scosso e netto,
che fia
di vostre imprese,
se contra
voi pur arma il sacro petto?
Né vi mova, per dio, che ’l Tebro e l’Arno
tra selve
orrende e dumi
a bada il
tegnan, ché speranza è vana.
Ritardar
nol potran monti né fiumi,
ché mai
non spiega indarno
quella
insegna felice e più che umana,
la qual, così
lontana,
se si
confessa il ver, timor vi porge,
e con
l’imagin sua vi turba il sonno.
Onde, se
i fati ponno
quel che
per veri effetti ognor si scorge,
quanto
più in alto sorge
l’error
che acciò vi induce,
tanto fia
del cader maggior la pena;
ché tal frutto
produce
ostinato
voler, che non si affrena.
Così sola et inerme
come
partì, canzon, senz’altra scorta,
benché
ingegni vedrai superbi e schivi,
di’ il
vero, ovunque arrivi,
ché ’n
ciel nostra ragion non è ancor morta.
E se pur
ti trasporta
tanto
inanzi la voglia
rimordendo
lor cieco e van desire,
digli che
in pianto e doglia
Fortuna
volge ogni sfrenato ardire.
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