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Iacopo Sannazaro Sonetti e canzoni IntraText CT - Lettura del testo |
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Qual pena, lasso, è sì spietata e cruda via maggior non la senta l’alma stanca? La qual, dannata in questo vivo inferno, e tra speme e paura arrossa e ’mbianca. c’Amor, del mio mal vago, vuol che sempre e per amenda de’ passati danni abbia a cercar le pene ad una ad una et in sé sola poi soffrir ciascuna. Tra le infide sorelle al mesto fiume torna ad empir, tutte di fondo scosse; né per riposo mai d’ore notturne, sì com’ella di lor pur una fosse; sùbito torna indietro sospirando. Così sempre iterando sua desperata via per l’orme note, da quella schiera mai non si divise, poi che sua libertà di notte ancise. Indi dal suo voler fallace e strano ripinge un sasso faticoso e greve; il qual, cadendo poi di salto in salto, discenda e s’affatiche in tempo breve poggiando ognor ne la speranza prima; e poi ch’è in su la cima, ricaggia in pena più noiosa assai. Così Sisifo in lei si vede, ahi lasso!, e ’l salire e ’l cadere, e ’l monte e ’l sasso. Al dolce suon de’ rivi freschi e snelli l’acqua da’ labri s’allontana e fugge. Né meno intorno agli occhi ancor si vede che, sol mirando, si consuma e sugge. E chi così la strugge, inchinando vèr lei li carchi rami; e sol d’ombra si pasca e del suo errore, non stringendo altro mai che vento e fronde, e sia Tantalo posta in mezzo l’onde. Né questo ancor, quantunque acerbo e forte ma via maggior agli altri un se n’aggiunge: ché, se ’l dì mille volte a pianger vène che con finto terror l’assale e punge; con ruina cadere e con spavento, la paura e ’l dolor che la molesta. Misera, or non è meglio un chiuder d’occhi c’a tutt’or aspettar che ’l colpo scocchi? col vento sempre, senza aver mai posa. Ahi stelle, ahi fati nel mio ben sì scarsi, E l’alma più nel ciel tornar non osa, poi che la sua nascosa a tutto ’l mondo, che celar devea; onde quella sua dèa con ragion sì turbata a lei s’offerse. Or par che nel girar si fugga e segua. né, fuggendo o seguendo, ha pace o tregua. Al fin conven che per l’antiche colpe d’un voltór famulento, aspro e rapace; lo qual, poi che col becco il petto afferra, se stessa e ’l suo pensier vano e fallace, E, per più doglia, il cor sempre rinasce, quel fier, che, più degiuno, ognor l’assale. C’or l’avess’ei già roso e svelto in tutto! poi che d’ogni mia speme è questo il frutto. che ’l fonte ond’esce si perpetua noia tal che potrai, s’Amor vorrà seguirti, di selva in selva gir gridando ch’io
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