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Iacopo Sannazaro
Sonetti e canzoni

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  • Parte seconda
    • LXXXIII
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LXXXIII

 

     In qual dura alpe, in qual solingo e strano

lito andrò io, in qual sì nudo scoglio,

che da’ tuoi messi mi difenda, Amore?

e che quella leggiadra e bianca mano

e que’ begli occhi, donde io viver soglio,

non mi stian sempre fissi in mezzo al core?

Lasso, se ’l gran dolore

per morte ha fin, perché non pensi almeno

liberarti d’affanni, o misera alma?

perché questa tua salma

coprir non lasci qui dal tuo terreno?

ché chi fugge, e ’l suo mal si tira appresso,

cielo ben cangiar, ma non se stesso.

     Se al freddo Tanai, a le cocenti arene

di Libia io vo, se dove nasce il sole

o dove il sente in mar strider Atlante,

colui, che sol di pianto mi mantene,

mi rappresenta i gesti e le parole,

per cui spargendo vo lacrime tante.

Dolci accoglienze sante,

onestà mai non vista e leggiadria,

senno sopra l’uman, concetto altero,

che ’l mio stanco pensiero

guidar solete al ciel per piana via,

or mi conven di voi pur viver privo,

se chi perde un tal ben si può dir vivo.

     Vivo fui io, mentre tener la vela

fermo potei de la mia ricca nave,

e venian l’aure a’ miei desir seconde.

Poi che importuna nube il sol mi cela,

sento fortuna ognor farsi più grave,

se ben mi accorgo al mormorar de l’onde;

né già più mi risponde

Portuno o Galatea, che fur più volte

al mio bel navigar felici scorte.

Or ripregando morte

vo, che le voci mie pietosascolte;

c’a bada star non dee nel mondo cieco

chi la grazia del ciel non ha più seco.

     Vita, che, di tormenti e d’error piena,

sei pur di pianto e di sospir albergo;

vita, che mai non riposasti un’ora,

quando mi lascerai, falsa sirena?

Maligna Circe, per cui volto e tergo

portai cangiati sempre e porto ancora,

quando sarò mai fòra

di tuoi stretti legami, o forte maga?

quando ricovrarò l’antica forma?

ché già non metto un’orma

che bisulca non sia, ferina e vaga,

poscia che dietro a te perdei la luce

che data mi era qui per segno e duce.

     Oh chi fia mai che di quest’empia guerra

pace m’apporte? oh perc’al mondo io nacqui,

se veder non devea del mio mal fine?

se luttar con un’idra che mi atterra?

con un Anteo, sotto il qual vinto giacqui,

con mille ispide fiere peregrine,

tra boschi folti e spine,

come irata Giunon seppe guidarme?

Ma tu che pòi, Signor, movi al mio scampo,

che con disnore in campo

non pèra, anzi al bisogno stringa l’arme;

c’a generoso spirto o viver bene

o morir altamente si convene.

     Non aspettar, canzone,

conforto al dolor mio, poi che sei certa

che terminar nol tempoloco;

e gridar mi val poco,

sì che ’l più star sarebbe insania aperta.

Lasciamo omai questa fallace speme,

ché ’l mal che ben si porta, assai men preme.

 




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