Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Iacopo Sannazaro
Sonetti e canzoni

IntraText CT - Lettura del testo

  • Parte seconda
    • LXXXIX
Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

LXXXIX

 

     Sperai gran tempo, e le mie Dive il sanno

che fur mia scorta a l’amoroso passo,

quel mio dir frale e basso

alzar, cantando in più lodato stile.

Or m’è già presso il quartodecimanno

de’ miei martìr, che in questo viver lasso

mi riten, privo e casso

di libertà, quel bel viso gentile;

né posso ancor lo ingegno oscuro e vile

dal visco, ove a tutt’ore Amor lo intrica,

per industria o fatica

liberar sì che alquanto si rileve.

Onde la mente, che di viver brama,

veggendo il tempo breve,

non ardisce sperar più eterna fama.

     Qual pregio, lasso, il cieco mondo errante

vide mai tal, che questo agguagliar possa?

Lassar la carne e l’ossa

sepolte in terra, e ’l nome alzarsi a volo?

O vigilie, o fatiche oneste e sante,

rimarrò io pur chiuso in poca fossa?

fia mai tolta o scossa

di tal paura l’alma o di tal duolo?

Se le vostracque, o Muse, adoro e còlo,

se i vostri boschi con piacer frequento,

se, di voi sol contento,

dispregio quel che più la turba estima,

non mi lasciate, prego, in preda a morte;

ché dal cantar mio prima

mi prometteste già più lieta sòrte.

     Basti fin qui le pene e i duri affanni

in tante carte e le mie gravi some

aver mostrato, e come

Amore i suoi seguaci alfin governa.

Or mi vorrei levar con altri vanni,

per potermi di lauro ornar le chiome

e con più saldo nome

lassar di me qua giù memoria eterna.

Ma il dolor, che ne l’anima si interna,

la confonde per forza e volge altrove,

tal che con mille prove

far non poss’io che di se stessa pensi

né che ritorni al suo vero camino.

Misera, che, fra i sensi

summersa già, non vede il suo destino!

     Non vede il ciel, che con benigni aspetti,

per farla gloriosa et immortale,

gli avea dato con l’ale

materia da potersi alzar di terra,

mostrando a nostra età chiari e perfetti

animi, a cui giamai non calse o cale

se non di pregio eguale

a lor virtù sempr’una in pace e in guerra.

Lasso, chi mi tien qui, che non mi sferra?

Ché avendo di parlarlargo campo,

del desir tutto avampo,

sol per mostrare a chi mi incende e strugge

che, senza dir degli occhi o del bel velo

o di lei che mi fugge,

si con altra gloria andare in cielo.

     Così quel che cantò del gran Pelide,

del forte Aiace e poi del saggio Ulisse,

e quel altro che scrisse

l’arme e gli affanni del figliol d’Anchise,

più chiari son di quei che ’l mondo vide

pianger e notte le amorose risse,

ché tal legge prescrisse

natura a chi ad amor virtù sommise.

Beati spirti, a cui per fato arrise

lieto il ciel, che dal terreno manto

con lor soave canto

si alzàr sopra quest’aere oscuro e fosco!

Ché se viver qua giù tanto ne aggrada

errando in questo bosco,

che fia salir per la superna strada?

     Benigno Apollo, che a quel sacro fonte,

che inonda il felicissimo Elicona,

la ’ve a tutt’or risona

la lira tua, ti stai soavemente,

potrò dir io con rime argute e pronte

il bel principio altero, e la corona

vittrice, onde Aragona

sparse l’imperio suo per ogni gente?

O dirò sol di quello a chi il ponente

parendo angusto, il braccio infin qui stese?

et a mille altre imprese

Italia aggiunse? Ove con vivi esempi

lasciò poi sì famoso e degno erede,

che adorna i nostri tempi

con le rare virtù che in sé possede.

     Alma gentil che tutte l’altre vinci,

se tanto ai versi miei prometter lice,

il tuo nome felice

Lete non sentrà mai ne le mie carte:

tacerò, se pur fia ch’io cominci,

i bei rami che uscìr di tal radice;

l’una e l’altra fenice

che per te spandon l’ale in ogni parte:

questa che, Italia ornando col suo Marte,

guarda col becco il proprio e l’altrui nido;

quella che con un grido

su la riva del Reno, e poi su l’acque

di Nettuno, disperse ogni altro ucello;

ché così al cielo piacque,

per far più il secol nostro adorno e bello.

     Indi, se aven che al viver frale e manco

non lenti il corso il mio debile ingegno,

ma con vittoria al segno

pur giunga, sì com’io bramando spero,

pria che dal fascio faticato e stanco

si parta e lasse il suo corporeo regno,

benché frale et indegno,

si sforzerà con stil grave e severo

sacrar, cantando, un altro spirto altero,

che oggi orna il mondo sol con sua beltade,

ma la futura etade

con gesti illustrerà, per quanto or veggio;

ai quali il ciel riserbe i giorni mei,

che ’l veda in alto seggio

carco tornar di spoglie e di trofei!

     Canzon, tu vedi ben che ’l gran desio

di sì breve parlar non reman sazio,

ove maggiore spazio

alma vorrebbe più tranquilla e lieta.

Ma se pur fia che Amor non mi distempre,

vedrai col suo poeta

Napol bella levarsi e viver sempre.

 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License