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Iacopo Sannazaro Sonetti e canzoni IntraText CT - Lettura del testo |
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Sperai gran tempo, e le mie Dive il sanno che fur mia scorta a l’amoroso passo, alzar, cantando in più lodato stile. Or m’è già presso il quartodecim’anno de’ miei martìr, che in questo viver lasso di libertà, quel bel viso gentile; né posso ancor lo ingegno oscuro e vile dal visco, ove a tutt’ore Amor lo intrica, liberar sì che alquanto si rileve. Onde la mente, che di viver brama, non ardisce sperar più eterna fama. Qual pregio, lasso, il cieco mondo errante vide mai tal, che questo agguagliar possa? sepolte in terra, e ’l nome alzarsi a volo? O vigilie, o fatiche oneste e sante, rimarrò io pur chiuso in poca fossa? di tal paura l’alma o di tal duolo? Se le vostr’acque, o Muse, adoro e còlo, se i vostri boschi con piacer frequento, dispregio quel che più la turba estima, non mi lasciate, prego, in preda a morte; ché dal cantar mio prima mi prometteste già più lieta sòrte. Basti fin qui le pene e i duri affanni in tante carte e le mie gravi some aver mostrato, e come Amore i suoi seguaci alfin governa. Or mi vorrei levar con altri vanni, per potermi di lauro ornar le chiome lassar di me qua giù memoria eterna. Ma il dolor, che ne l’anima si interna, la confonde per forza e volge altrove, tal che con mille prove far non poss’io che di se stessa pensi né che ritorni al suo vero camino. summersa già, non vede il suo destino! Non vede il ciel, che con benigni aspetti, per farla gloriosa et immortale, materia da potersi alzar di terra, mostrando a nostra età chiari e perfetti animi, a cui giamai non calse o cale a lor virtù sempr’una in pace e in guerra. Lasso, chi mi tien qui, che non mi sferra? Ché avendo di parlar sì largo campo, sol per mostrare a chi mi incende e strugge che, senza dir degli occhi o del bel velo o di lei che mi fugge, si pò con altra gloria andare in cielo. Così quel che cantò del gran Pelide, del forte Aiace e poi del saggio Ulisse, e quel altro che scrisse l’arme e gli affanni del figliol d’Anchise, più chiari son di quei che ’l mondo vide pianger dì e notte le amorose risse, ché tal legge prescrisse natura a chi ad amor virtù sommise. Beati spirti, a cui per fato arrise sì lieto il ciel, che dal terreno manto si alzàr sopra quest’aere oscuro e fosco! Ché se viver qua giù tanto ne aggrada che fia salir per la superna strada? Benigno Apollo, che a quel sacro fonte, che inonda il felicissimo Elicona, la ’ve a tutt’or risona la lira tua, ti stai soavemente, potrò dir io con rime argute e pronte il bel principio altero, e la corona sparse l’imperio suo per ogni gente? O dirò sol di quello a chi il ponente parendo angusto, il braccio infin qui stese? et a mille altre imprese Italia aggiunse? Ove con vivi esempi lasciò poi sì famoso e degno erede, con le rare virtù che in sé possede. Alma gentil che tutte l’altre vinci, se tanto ai versi miei prometter lice, Lete non sentrà mai ne le mie carte: né tacerò, se pur fia ch’io cominci, i bei rami che uscìr di tal radice; l’una e l’altra fenice che per te spandon l’ale in ogni parte: questa che, Italia ornando col suo Marte, guarda col becco il proprio e l’altrui nido; quella che con un grido su la riva del Reno, e poi su l’acque di Nettuno, disperse ogni altro ucello; per far più il secol nostro adorno e bello. Indi, se aven che al viver frale e manco non lenti il corso il mio debile ingegno, pur giunga, sì com’io bramando spero, pria che dal fascio faticato e stanco si parta e lasse il suo corporeo regno, si sforzerà con stil grave e severo sacrar, cantando, un altro spirto altero, che oggi orna il mondo sol con sua beltade, con gesti illustrerà, per quanto or veggio; ai quali il ciel riserbe i giorni mei, carco tornar di spoglie e di trofei! Canzon, tu vedi ben che ’l gran desio di sì breve parlar non reman sazio, ove maggiore spazio alma vorrebbe più tranquilla e lieta. Ma se pur fia che Amor non mi distempre, Napol bella levarsi e viver sempre.
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