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Iacopo Sannazaro Sonetti e canzoni IntraText CT - Lettura del testo |
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Visione in la morte de l’Ill. Don Alfonso d’Avalo Marchese di Pescara
Scorto dal mio pensier fra i sassi e l’onde, fermato er’io su la vezzosa falda che Pausilipo in mar bagna et asconde. L’intensa passion, profonda e calda, che mi fece alcun tempo amar quel monte, bollia ne l’alma ancor possente e salda; quando, girando il sole a l’orizonte, invitato dal sonno, infermo e lasso, dopo molto pensar, chinai la fronte. E parvemi veder d’un vivo sasso un foco uscir, che ’l mondo tutto ardea e poi seccava il mar di passo in passo. E mentre gli occhi in ciò fermi tenea, vidi nel mezzo suo fendersi il cielo e gridando fuggir la bella Astrea. Per l’ossa mi sentiva un freddo gelo, et in odio tenea lo mortal velo; quando sùbito allor mi fu presente un’ombra, che venia di fulgid’arme e de’ suoi proprii rai tutta lucente. Questa, credo, venia per consolarme, vedendo in me tanta paura accolta, e per li casi suoi notificarme. Pareami averla già vista altra volta, ma dove non sapea, come né quando, né se da’ lacci uman fusse disciolta. Così vèr lei mi strinsi, lacrimando: — Dimmi, chi sei, felice e ben nat’alma? — E poi caddi a’ suoi piè, tutto tremando. — Mentr’io fui qui con la terrena salma, che fu poc’anzi già — rispose allora — d’ogni eccelso valor portai la palma. Né molto spazio il cielo è vòlto ancora, poscia che mi lasciasti sì pensoso, che mai non devea più veder l’aurora. Tu ti partisti, et io tutto dubbioso rimasi, e benché in vista andasse lieto, il cor stava sospetto e doloroso. Ma chi pò gir contra ’l divin decreto? Io stesso pur sentia tirarmi a morte d’un pensier tempestoso et inquieto. Onde, quando a te ora il ciel sì forte mostrò d’aprirsi, il colpo allor provai de la mia dura, irreparabil sòrte. — A questi detti suoi gli occhi levai, ma sì del sonno avea la mente ottusa, che per nome chiamar nol seppi mai. Et egli: — Ov’è fuggita la tua Musa? c’hai posto in bando la memoria antica, come vedessi il volto di Medusa. Non ti soven che in quella piaggia aprica stamane il tuo dir saggio mi riprese de la pericolosa mia fatica? — Allora io corsi con le braccia stese, — Ahi lasso me! — dicendo or ti conosco, magnanimo, gentil, mio gran marchese. Perdona a l’intelletto infermo e losco, il qual, da tema e da dolor sospinto, non ti scorgeva ben per l’aer fosco. — Tre volte ivi pensai d’averlo cinto; tre volte mossi, oimè, le braccia in vano, Parvemi l’accidente orrendo e strano, e ritirando il piè, gittai un grido, qual uom che per dolor diventa insano. Poi dissi: — Signor mio diletto e fido, perché fuggi da me com’ombra o vento? — Et ei, che di virtù fo albergo e nido, rispose: — Amico, io son di vita spento; ossa e polpe non ho, non prender doglia, ché del mio stato io son lieto e contento; ché quella calda et eccessiva voglia, che sempr’ebbi in mostrar l’intera fede, non mi fe’ mai pregiar la cara spoglia. Et ora un sol pensier m’offende e lede, che non perdussi al fin la bella impresa, e ’l mio caro signor so ben che ’l crede. Il qual, vedendo in me tal fiamma accesa, cercò, sì come tu, di mitigarla; ma la voce da me non era intesa. Et or forse in me pensa e di me parla, forse dubita ancor ne la mia vita, e pur non sa che più non pòte aitarla. — — O anima diss’io nel ciel gradita, qual forza ti ristrinse al duro varco, ché sì sùbito sei del corpo uscita? — — Mira, — rispose, e disegnommi il parco — la mia animosa fé qui mi condusse, d’amor, d’affezzion, di voler carco. E qui ogni mia gloria si distrusse. Or pò ben estimare il volgo cieco, se le cose di qua son vane e flusse. E chi nol sa, ripensi questo or seco, che quel cor, a cui fu sì angosto il mondo, or si contenterà d’un breve speco; e quel animo vasto e sì profondo iniqua frode in sì brev’ora oppresse, col chiaro ingegno, a null’altro secondo. — Mentre ei parlava, io gli vedea sì spesse faville lampeggiar sotto la gola, che parea c’una stella ivi tenesse. Così mirando in quella parte sola: — Signor mio, — dimandai — che cosa è questa? — Et ei così seguì la mia parola: — La luce, c’ora a te si manifesta, è ’l segno che lasciò l’empia saetta, c’al mio punto fatal volò sì presta. Questo è l’onor che del ben far s’aspetta: mostrar per gloria le corusche piaghe, poi che non lice in ciel cercar vendetta. Però prega per me c’omai s’appaghe il mio signor, e di’ ch’io mi ricordo de le parole sue dolci e presaghe. Ma ’l pensier cieco e ’l desiderio ingordo tenean la mente mia tanto offuscata, che tutto era narrar fabule al sordo. Diraili ancor che lieta et impensata vittoria al suo favor spiegherà l’ale, quando da lui sarà più desiata; onde con fama eterna et immortale alzarà insino al cielo i suoi trofei; e fia il gran nome a’ suoi gran gesti eguale. Così, s’a te non grava, ancor vorrei pregassi poi la mia bella Costanza che col pianto non turbe i piacer miei. Ferme negli altri duo la sua speranza, ché, leve e scarco de le umane some, chiamato io son ne la superna danza. Or è ragion c’adempia il suo bel nome, onde Ippolita mia prendendo esempio, le man non ponga in su l’aurate chiome. Pense che ’n questo eterno, immortal tempio, che voi chiamate ciel, sarà ’l mio ospizio, lontan dal viver basso, iniquo et empio; ove, rivolto al nostro primo inizio, volgerò in gioco i miei passati danni, non più suggetto a bruma et a solstizio. Dunque, in me non contate i giorni e gli anni, c’assai son visso io già, se ’l viver mio, da li sudor s’estima e dagli affanni. Temprate, egri mortai, vostro desio, ché non la lunga età, ma i chiari gesti ne bastan a schermir dal cieco oblio. Gli anni son a fuggir sì lievi e presti, c’al fine altro non è c’un volver d’occhi questo, che poi vi lassa afflitti e mesti. Però, pria che l’offesa in voi trabocchi, armate il petto incontro a la Fortuna, ché vano è l’aspettar che ’l colpo scocchi. — Così dicendo, al raggio de la luna, c’allor del mar uscia, rivolse il viso; poi salutò le stelle ad una ad una e lieto se ne andò nel paradiso.
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