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Iacopo Sannazaro Sonetti e canzoni IntraText CT - Lettura del testo |
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XI
O fra tante procelle invitta e chiara dopo sì lunghe offese alfin si rende, e benché da le fasce e da la cuna tarda venisse a te sempre et avara né corra ancor quanto il dever si stende, pur fra se stessa danna oggi e riprende la ingiusta guerra e del su’ error si pente, quasi già d’esser cieca or si vergogni; onde, perché tardando non si agogni tra speranze dubbiose, inferme e lente, la terra e ’l mar con salda e lunga pace, ché raro alta virtù sepolta giace. Ecco che ’l gran Nettuno e le compagne de la bella Anfitrite e ’l vecchio Glauco sotto al tuo braccio omai quieti stanno; e con un suon soavemente rauco per le spumose e liquide campagne sovra a pesci frenati ignudi vanno ringraziando natura, il giorno e l’anno che a sì raro destino alzaron l’onde; tal che Protèo, ben che si pòsi o dorma, più non si cangia di sua propria forma, ma in su gli scogli assiso, ove el s’asconde, a chi il dimanda, senza laccio o nodo, e de’ tuoi fati parla in cotal modo: — Questi che qui dal ciel per grazia venne sotto umana figura a far il mondo di sue virtuti e di sua vista lieto, empierà di sua fama a tondo a tondo l’immensa terra, e di sé mille penne lascerà stanche e tutto il sacro ceto; sì che Parnaso mai nel suo laureto non sentì risonar sì chiaro nome né far d’uom vivo mai tanta memoria, né con tal pregio, onor, trionfo e gloria, dopo vittoriose e ricche some, di verde fronda, come il dì ch’io parlo, ché ’l cielo a tanto ben volse servarlo. Ben provide a’ dì nostri il Re superno, quando a tanto valor tanta beltade, per adornarne il mondo, inseme aggiunse. Felice, altera e gloriosa etade, degna di fama e di preconio eterno, che di nostra aspra sòrte il ciel compunse, e per cui sola il vizio si disgiunse da’ petti umani, e sola virtù regna, riposta già nel proprio seggio antico, onde gran tempo quello suo nemico la tenne in bando, e ruppe ogni sua insegna! dimostra ben, che se in esilio visse, le leggi di là su son certe e fisse. Chi potrà dir, fra tante aperte prove e fra sì manifesti e veri esempi, che de le cose umane il ciel non cure Ma il viver corto e ’l variar de’ tempi, e le stelle, qui tarde e preste altrove. fan che la mente mai non si assecure a questo, e le speranze e le paure (sì come ognun del suo veder si inganna) tiran il cor, che da se stesso è ingordo, a creder quel che ’l voler cieco e sordo più li consiglia e più gli occhi li appanna; e poi fra sé condanna, no ’l proprio error, ma il cielo e l’alte stelle, che sol per nostro ben son chiare e belle. Oh qual letizia fia per gli alti monti, se a’ Fauni mai tra le spelunche e i boschi arriva il grido di sì fatti onori! Usciran di suoi nidi ombrosi e foschi le vaghe Ninfe, e per le rive e i fonti spargeran di sue man divini odori; in tutti i tronchi, in tutte l’erbe e i fiori scriveran gli atti e l’opre alte e leggiadre, che ’l faran vivo oltra mille anni in terra e se in antiveder l’occhio non erra, tosto fia lieta questa antica madre più che Roma non fu de’ buoni Augusti, ché ’l ciel non è mai tardo a’ preghi giusti. Benigni fati, che a sì lieto fine scorgete il mondo e i miseri mortali e li degnate di più ricco stame, se mitigar cercate i nostri mali e risaldar li danni e le ruine, acciò che più ciascun vi pregi et ame, fate, prego, che ’l cielo a sé non chiame, fin che natura sia già vinta e stanca, questi che è de virtù qui solo esempio; ma di sue lodi in terra un sacro tempio lasce poi ne la età matura e bianca; rimanga il nome. — E così detto, tacque, e lieve e presto si gettò ne l’acque. Su l’onde salse, fra’ beati scogli andrai, canzon; ché ’l tuo signore e mio ivi del nostro ben pensoso siede. Bascia la terra e l’uno e l’altro piede, e vergognosa escusa il gran desio che mi ha spronato, onde io di dimostrar il core ardo e sfavillo al mio gran Scipione, al mio Camillo.
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