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Iacopo Sannazaro Sonetti e canzoni IntraText CT - Lettura del testo |
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Ben credeva io che nel tuo regno, Amore, ma non tanti tormenti e sì diversi. Or veggio un carcer pien di cieco orrore, che maledico il dì che gli occhi apersi. senza conoscer pria tua mente cruda, Allor fusse ella di su’ albergo uscita! ché bello era il morire in lieta vita. Chi pensò mai che dentro a duo begli occhi tante reti e lacciuoli fussin tesi? Quante fiate avvien che l’arco scocchi, tanti vedi cattivi al varco presi. quel che la mente peregrina e vaga, parlava al cor che palpitava forte, dicendo: — Ecco il tremor di nostra morte. — Qual meraviglia ebb’io, quando in un punto senti’, senza vedere altre sembiante? Era il colpo mortal passato, e giunto parte del cor, difesa d’un diamante. Un che me strugge, un che m’uccide, adoro, né pur dal cieco e folle desir mio, ma da l’ingordo mondo è fatto dio. Qual pregio, qual onor, qual tanta gloria non con tuoi par, ma contra uom pur mortale? qual palma o spoglie avrai di tal vittoria? quali inudite e nove lodi? qual carro aurate e trionfale? e scrolla l’arco e tienti assai più caro, per aver vinta sì leggiadra impresa, spirito inerme, senza far difesa. E perché ancora lamentar conviemmi che di tanti pensieri il petto m’empie, dico che ’l dì che tal percossa diemmi, insino al cor con piaghe acerbe et empie, imbiancheranno ch’io saldar le senta; ch’io respirasse al colpo del suo dardo, ma fuggì presta, più che tigre o pardo. Da quel dì in qua, per selve e per campagne. son gito, morte e libertà bramando. Ma perché dopo ’l danno in van si piagne, che dì e notte va sempre sospirando, ma non sì che, pensando, non torni a’ suoi dolori alcuna volta. convien c’odii la vita e si distempre; ché via meglio è ’l morir che pianger sempre. Quante fiate, lasso, in questo stato ho dato biasmo et a le crude stelle! Ma che colpa è del cielo o del mio fato o del voler divino, se voi, occhi mortal, miraste quelle e ’l cor, già vago di sua morte, corse sta di sua vita, e di peggiore ha tema? ché più pena è ’l tardar che l’ora estrema. ti fermi, del mio mal non far parola, come dolente e desperata, andrai,
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