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Iacopo Sannazaro
Sonetti e canzoni

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  • Parte prima
    • XXV
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XXV

 

     Ben credeva io che nel tuo regno, Amore,

fossin frodi et inganni,

ma non tanti tormenti e sì diversi.

Or veggio un carcer pien di cieco orrore,

di sospiri e d’affanni,

che maledico il che gli occhi apersi.

Misero, a che ti offersi,

senza conoscer pria tua mente cruda,

l’alma semplice e nuda?

Allor fusse ella di su’ albergo uscita!

ché bello era il morire in lieta vita.

     Chi pensò mai che dentro a duo begli occhi

tante faville ardenti,

tante reti e lacciuoli fussin tesi?

Quante fiate avvien che l’arco scocchi,

tante voci dolenti,

tanti vedi cattivi al varco presi.

Lasso, che male intesi

quel che la mente peregrina e vaga,

già del suo mal presaga,

parlava al cor che palpitava forte,

dicendo: — Ecco il tremor di nostra morte. —

     Qual meraviglia ebb’io, quando in un punto

l’alma confusa e calda

senti’, senza vedere altre sembiante?

Era il colpo mortal passato, e giunto

ne la più intera e salda

parte del cor, difesa d’un diamante.

Ahi stolta voglia errante!

Un che me strugge, un che m’uccide, adoro,

e per lui vivo e moro;

né pur dal cieco e folle desir mio,

ma da l’ingordo mondo è fatto dio.

     Qual pregio, qual onor, qual tanta gloria

ti sprona a far tue prove

non con tuoi par, ma contra uom pur mortale?

qual palma o spoglie avrai di tal vittoria?

quali inudite e nove

lodi? qual carro aurate e trionfale?

Or ti inalza su l’ale

e scrolla l’arco e tienti assai più caro,

ché sei famoso e chiaro

per aver vintaleggiadra impresa,

spirito inerme, senza far difesa.

     E perché ancora lamentar conviemmi

de la mia cruda donna,

che di tanti pensieri il petto m’empie,

dico che ’l che tal percossa diemmi,

che mi passò la gonna

insino al cor con piaghe acerbe et empie,

tal che pria queste tempie

imbiancheranno ch’io saldar le senta;

a pena fu contenta

ch’io respirasse al colpo del suo dardo,

ma fuggì presta, più che tigre o pardo.

     Da quel in qua, per selve e per campagne.

magro e pallido in vista,

son gito, morte e libertà bramando.

Ma perché dopo ’l danno in van si piagne,

acqueto l’alma trista

che e notte va sempre sospirando,

ma non sì che, pensando,

non torni a’ suoi dolori alcuna volta.

Così, di pene involta,

convien c’odii la vita e si distempre;

ché via meglio è ’l morir che pianger sempre.

     Quante fiate, lasso, in questo stato

al mio fiero destino

ho dato biasmo et a le crude stelle!

Ma che colpa è del cielo o del mio fato

o del voler divino,

se voi, occhi mortal, miraste quelle

forme celesti e belle?

e ’l cor, già vago di sua morte, corse

al foco, ove ora in forse

sta di sua vita, e di peggiore ha tema?

ché più pena è ’l tardar che l’ora estrema.

     Canzon, se in alcun bosco

ti fermi, del mio mal non far parola,

ma peregrina e sola,

come dolente e desperata, andrai,

e per camin nessun saluterai.

 




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