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Iacopo Sannazaro
Sonetti e canzoni

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  • Parte seconda
    • LIII
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LIII

 

     Amor, tu vòi ch’io dica

quel ch’io tacer vorrei,

né par che ’n tanto error vergogna curi.

Dirò con gran fatica

gli affanni e’ dolor miei,

non perché speri dir quanto sian duri,

ma, se tu m’assicuri

di tue percosse acerbe,

vo’ che mi veda e senta

quella che mi tormenta,

quasi un languido cigno su per l’erbe,

c’allor che morte il preme

getta le voci estreme.

     Ben mi credeva, lasso,

che ’l mie cantare un tempo

grato fusse a l’orecchie alpestre e crude;

ché non è sterpo o sasso

c’almen tardi o per tempo,

vedendo le mie piaghe aperte e nude

e ciò che l’alma chiude,

a pietà non si mova

del mio doglioso stato.

Ahi sòrte, ahi crudo fato,

et a costei perché ’l mio pianger giova?

perché mi giunge affanno,

se ’l mio morir gli è danno?

     Ver’è ch’io piansi sempre

con lacrimoso stile

de’ miei gravi martìr la lunga guerra;

ma con soavi tempre

il bel nome gentile

cantando, ancor sperava alzar di terra;

che s’un marmo poi serra

la carne ignuda e frale,

almen di tanta gloria

qualche rara memoria

qui rimanesse eterna et immortale.

Or poi che a lei non piace,

la mia lira si tace.

     Tacen le dolci rime

e que’ pietosi accenti

che rilevar solean mie pene in parte;

ché se non è chi stime

queste voci dolenti

né chi gradisca il suon di tante carte,

a che l’ingegno e l’arte

perder, sempre piangendo

dietro a chi non m’ascolta?

s’è senno alcuna volta,

per non noiar altrui, soffrir tacendo?

Ché, per gridar più forte,

non si fugge la morte.

     Alma, riprendi ardire

e dal continuo pianto

ti leva al ciel, che già t’affetta e chiama;

rifrena il gran desire,

e con più altero canto

ti sforza d’acquistare eterna fama;

ché chi di venir brama

in qualche chiaro grido,

non sol per mirar fiso

negli atti d’un bel viso

si pòte a vuolo alzar dal proprio nido.

Drizza le voglie accese

a più lodate imprese.

     Non sa la turba sciocca

de’ miseri mortali

qual pregio è rimaner dopo mill’anni.

Così la morte scocca

i velenosi strali

et in un punto sgombra i vani affanni.

Ma chi pensa a’ suoi danni

potrà ben veder come

poca polvere et ossa

in una breve fossa

si chiuderanno, e fia sepolto il nome.

Però, mentr’ella è viva,

trove di sé chi scriva.

     Quanto vedi, canzon, col tempo manca,

e li triunfi e i regni,

altro ch’i sacri ingegni.

 




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