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Iacopo Sannazaro Sonetti e canzoni IntraText CT - Lettura del testo |
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LXXV
Qual pena, lasso, è sì spietata e cruda giù nel gran pianto eterno, che nel mio petto interno via maggior non la senta l’alma stanca? La qual, dannata in questo vivo inferno, trema nel foco ignuda, e nel ghiaccio arde e suda, e tra speme e paura arrossa e ’mbianca. Così dì e notte manca, né col mancar degli anni manca di tanti affanni; c’Amor, del mio mal vago, vuol che sempre si strugga e si distempre, e per amenda de’ passati danni abbia a cercar le pene ad una ad una et in sé sola poi soffrir ciascuna. Tra le infide sorelle al mesto fiume (ahi fatiche diuturne!) il dì mille e mill’urne torna ad empir, tutte di fondo scosse; né per riposo mai d’ore notturne, per caldi né per brume, cessa dal suo costume, sì com’ella di lor pur una fosse; e se mai duol la mosse, trovando esauste e vòte di tristo umor le gote, sùbito torna indietro sospirando. Così sempre iterando sua desperata via per l’orme note, da quella schiera mai non si divise, poi che sua libertà di notte ancise. Indi dal suo voler fallace e strano tirata al grande assalto, per un poggio aspro et alto ripinge un sasso faticoso e greve; il qual, cadendo poi di salto in salto, fa che sovente al piano quella dolente in vano discenda e s’affatiche in tempo breve mille volte, e rileve l’usato peso, e mai non reste d’aver guai, poggiando ognor ne la speranza prima; e poi ch’è in su la cima, ricaggia in pena più noiosa assai. Così Sisifo in lei si vede, ahi lasso!, e ’l salire e ’l cadere, e ’l monte e ’l sasso. Al dolce suon de’ rivi freschi e snelli sitibunda poi sede; e, quando ber si crede, l’acqua da’ labri s’allontana e fugge. Né meno intorno agli occhi ancor si vede da’ bei rami novelli frutti pender sì belli, che, sol mirando, si consuma e sugge. E chi così la strugge, perché ’l duol sia maggiore, li fa sentir l’odore inchinando vèr lei li carchi rami; onde conven che brami e sol d’ombra si pasca e del suo errore, non stringendo altro mai che vento e fronde, e sia Tantalo posta in mezzo l’onde. Né questo ancor, quantunque acerbo e forte sia ’l martir che sostene, l’afflige in tante pene, ma via maggior agli altri un se n’aggiunge: ché, se ’l dì mille volte a pianger vène la sua spietata sòrte, mille sente la morte che con finto terror l’assale e punge; e parli or presso or lunge vedersi in su la testa una selce funesta con ruina cadere e con spavento, né scema un sol momento la paura e ’l dolor che la molesta. Misera, or non è meglio un chiuder d’occhi c’a tutt’or aspettar che ’l colpo scocchi? In una rota poi volubil molto vede a forza legarsi, et in giro voltarsi col vento sempre, senza aver mai posa. Ahi stelle, ahi fati nel mio ben sì scarsi, come da quel bel volto m’avete escluso e tolto? E l’alma più nel ciel tornar non osa, poi che la sua nascosa speranza discoverse, e ’l suo desire aperse a tutto ’l mondo, che celar devea; onde quella sua dèa con ragion sì turbata a lei s’offerse. Or par che nel girar si fugga e segua. né, fuggendo o seguendo, ha pace o tregua. Al fin conven che per l’antiche colpe stia resupina in terra, a sostener la guerra d’un voltór famulento, aspro e rapace; lo qual, poi che col becco il petto afferra, par che la snerve e spolpe; unde è ragion che incolpe se stessa e ’l suo pensier vano e fallace, che la fe’ troppo audace in cercar, per suo male, tentar cosa immortale. E, per più doglia, il cor sempre rinasce, e del suo danno pasce quel fier, che, più degiuno, ognor l’assale. C’or l’avess’ei già roso e svelto in tutto! poi che d’ogni mia speme è questo il frutto. Canzon mia, mai nel cielo tra li beati spirti non fui; ma vo’ ben dirti che ’l fonte ond’esce si perpetua noia trapassa ogni altra gioia; tal che potrai, s’Amor vorrà seguirti, di selva in selva gir gridando ch’io né vita più né libertà desio.
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