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Jacopone da Todi
Laude

IntraText CT - Lettura del testo

  • XXXVII
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XXXVII

         “Que fai, anema predata?”.

“Faccio mal, so dannata.

         Aio male che è enfenito,

onne bon sì m’è fugito;

         lo celo sì m’à esbannito

e l’onferno m’à albergata”.

         “Dàime desperazione

de la me’ condizione,

         pensanno la perfezione

de la vita tua che è stata”.

         “Eo fui donna reliosa,

settant’anni fui reclusa.

         Iurai a Cristo esser esposa,

or so’ al diavol maritata”.

         “Qual è stata la casone

de la tua dannazione?

         Ché speravan le persone

che fusci canonizzata”.

         “Non vedìno el magagnato,

che enel cor era ocultato;

         Deo, a cui non fo celato,

à descoperta la falsata.

         Vergene me conservai,

el meo corpo macerai,

         ad om mai non aguardai

ch’e’ non ne fusse po’ tentata.

         Non parlai plu de trent’agne

(como el so le me’ compagne);

         penetenze fici magne

plu ch’e’ non ne fu’ notata.

         Diiunar meo non n’esclude

pane et aqua et erbe crude;

         cinquant’anni entegri e plune

’n diiunar non fui alentata.

         Còia de scrofe toserate,

fune de pel’atortichiate,

         circhi e veste desperate,

cinquant’anni cruciata.

         Sostenute povertate,

frid’ e cald’ e nudetate.

         Non ce abi omeletate;

però da Deo fui reprobata.

         Non abi devozione

mentale orazione;

         tutta la me’ entenzione

fo ad essere laudata.

         Quanno odìa clamar ‘la santa’,

lo cor meo soperbia ennalta.

         Or somenata a la malta

co la gente desperata.

         S’e’ vergogna avesse auta,

non siria cusì peruta;

         la vergogna averìa apruta

la mea mente magagnata.

         Forsa me sirìa corressa,

ch’e’ non fòra a cquesta oppressa;

         l’onoranza me tenne essa

ch’eo non fusse medecata.

         Oimè, onor comal te vide,

tuo ioco me fo occide.

         Bello i me costa el tuo ride,

de tal prezo m’ài pagata.

         Se vedisce mea fegura,

morirì’ de la pagura;

         non porìa la tua natura

sostenir la mea esguardata.

         L’anema ch’è viziosa

orrebel è sopre onne cosa,

         tal puzza estermenosa,

en onne canto è macellata.

         O penar, non sai fenire,

né a ffin mai venire;

         si persevren to firire

como fussencomenzata.

         Non fatiga el feredore

e ’l ferito non ne more;

         or te pensa el bell’amore

che sta en questa vecinata!

         La pena consumativa,

l’anema morta sempre viva

         e la pena non deriva

de star sempren me adizata”.

         “Penso ch’eo sirò dannato;

nullo bene aio operato

         e molto male ho acumulato

ennela mea vita passata”.

         “Frate, non te desperare,

ché ’l paradiso pòi lucrare,

         se tte guardi de furare

l’onor suo, t’à vetata.

         Tim’e serve e non falsare

e commatti enn adurare;

         sed èi en bon perseverare

provarai l’umiliata”.

 




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