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Jacopone da Todi
Laude

IntraText CT - Lettura del testo

  • LIII
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LIII

         Que farai, fra’ Iacovone?

Èi venuto al paragone.

         Fusti al Monte Pellestrina,

anno e mezzo en desciplina;

         loco pigliasti malina

dónne ài mo la presone.

         Probendato en cort’i Roma,

tale n’ho redutta soma;

         onne fama se ’n ci afuma,

tal n’aiommaledezzone.

         Soarvenuto probendato,

ch’el capuccio m’è mozzato;

         en perpetua encarcerato,

encatenato collione.

         La presone che m’è data,

una casa sotterrata;

         arèscece una privata,

non fa fragar de moscune.

         Null’omo me parlare;

chi me serve lo fare,

         ma èli opporto <a> confessare

de la mea parlazione.

         Porto iette de sparveri,

soneglianno nel meo gire;

         nova danza ce odire

chi sta apresso mea stazzone.

         Da po’ ch’eo me socolcato,

revòltome nell’altro lato;

         nei ferri soenciampagliato,

engavinato êl catenone.

         Aio un canestrello appiso,

che da surci non sia offiso;

         cinqui pane, al meo parviso,

tener lo meo cestone.

         Lo ciston sì sta fornito:

fette de lo transito,

         la cepolla pro appitito

(nobel tasca de paltone!).

         Poi che la non’è cantata,

la mea mensa aparecchiata;

         onne crosta aradunata

per emplir meo stomacone.

         Arécammese la cocina,

messa enn una mea catina;

         poi c’arbassa la ruina,

bevo e ’nfonno meo polmone.

         Tanto pane ennante affétto

che ne stèttera un porchetto;

         ecco vita d’om destretto,

novo santo Ylarione.

         La cucina manecata

(ecco pesce en peverata!),

         una mela èmmece data,

e par taglier de sturione.

         Mentr’e’ magno, ad ura ad ura,

sostener granne fredura,

         lèvome a l’ambiadura,

estampiando el meo bancone.

         Paternostri otto a ddenaro

a pagar Deo tavernaro,

         ch’eo no n’aio altro tesaro

a ppagar lo meo scottone.

         Sì nne fusser providuti

li frate che so’ venuti

         en corte, per argir cornuti,

che n’avesser tal boccone!

         Se nnavesser cotal morso,

non farìn cotal descurso;

         en gualdana curre el corso

per aver prelazione.

         Povertate poco amata,

pochi t’ànno desponsata,

         se se porge ovescuvata,

che ne faccia arnunciasone!

         Alcun è che perdel mondo,

altri el larga como a sonno,

         altri el caccia en profondo;

deversa n’è condizione:

         chi lo perde, è perduto;

chi lo larga, ène pentuto;

         chi lo caccia, erproferuto,

èli abomenazione.

         L’uno stanno li contende,

l’altri dui, arprende arprende;

         se la vergogna se spénne,

vederai chi sta al passone!

         L’Ordeneà un pertuso,

c’a l’oscir non n’è confuso;

         se quel guado fusse arcluso,

staran fissi al magnadone.

         Tanto sogito parlanno,

cort’i Roma gir leccanno,

         c’or è ionto alfin lo banno

de la mea prosonzione.

         Iace, iace enn esta stia,

como porco d’e<n>grassia!

         Lo Natal no ’n trovaria

chi de me live paccone.

         Maledicerà la spesa

lo convento che l’à presa;

         nulla utilità n’è scesa

de la me’ reclusione.

         Fàite, fàite que volite,

frate, ché de sotto gite,

         le spese ce perdite,

prezzo nullo de pesone!

         C’aio granne capetale,

ch’e’ me ssousato de male

         e la pena non prevale

contra lo meo campione.

         Lo meo campione è armato,

de me’ odio è scudato;

         non esser vulnerato

mentre a ccollo à lo scudone.

         O amirabele odio meo,

d’onne pena àsignorìo,

         non recipi nullo eniurìo,

vergogna t’è essaltazione.

         Nullo sse trova nimico,

onnechivell’è per amico,

         eo solo me sso’ l’inico

cuntra mea salvazione.

         Questa pena che mm’è data,

trent’agnà ch’e’ l’aio amata;

         or è ionta la iornata

d’esta consolazione.

         Questo non m’è orden novo,

ch’el capuccio longo arprovo,

         c’agni decentegri artrovo

ch’eo ’l portai gir bezocone.

         Loco fici el fondamento

a virgogn’e schergnemento

         (le vergogne socovento

de vesica de garzone).

         Questa schera è sbarattata,

la vergogna è conculcata;

         Iacovon la sua mainata

currel campo a confalone.

         Questa schera mess’è ’n fuga,

vegna l’altra che soccurga;

         se né ll’altra no n’ensurga,

e anco atenne a paviglione.

         Fama mea, t’aracommanno

al somier che va raianno;

         po’ la coda sia ’l tuo stanno

e quel te sia per guigliardone.

         Carta mea, va’ mitti banna,

Iacovon preson te manna

         en cort’i Roma, che sse spanna

en tribù lengua e nazione:

         ‘En Todo iaccio sotterrato,

en perpetua encarcerato.

         En cort’i Roma ho guadagnato

bon beneficione!’.

 




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