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Jacopone da Todi
Laude

IntraText CT - Lettura del testo

  • LIV
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LIV

         O omo, tu è’ engannato,

esto mondo t’a cecato.

         Cecato t’à questo mondo

con delett’e col soiorno

         e co ’l vestementadorno

e con essere laudato.

         Li delezzi c’à auti,

que n’a’ a ttener? Sòssenne iuti;

         en vanetà li t’ài perduti

e fatto ci ài molto peccato.

         Et unqua te non vòlpentere,

fin che vene a lo morire.

         De que sai non di’ guerire,

dici pro ’l preite sia mannato.

         Lo preite dice: “Frate meo,

como sta lo fatto teo?”.

         E tu dici: “Ser, è ch’eo

so’ de mal molto agravato”.

         Sì ttafrigo li figlioli,

che li larghi po’ te suli,

         plu de lor che de te doli,

ch’el fatto lor larghi embrigato.

         Quel dolor t’afrige tanto,

quan’ li figli plango enn alto,

         ch’el fatto tuo larghi da canto,

de renner lo mal aquistato.

         Po’ che vene a lo morire,

li parente fo venire;

         no te largan benescire,

for de casa t’ò iettato.

         Fine a santo vo gridanno

e dicenno: “Or ecco danno!”.

         Artorna a casa e’ mbrigantanno

ch’el manecar sia aparecchiato.

         Poi che sosatollati,

del to fatto s’ò scordati;

         de denarc’ài guadagnati,

non n’ài con teco alcun portato.

         O taupino, a ccui adduni?

Ad ariccar li toi garzuni?

         Da poi ch’è’ morto, gran bocconi

se fo del tuo guadagnato!

 




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