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Jacopone da Todi
Laude

IntraText CT - Lettura del testo

  • LXXXIV
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LXXXIV

         Fede, spen e caritate

li tre cel’ vòl figurare.

Li tre cel’ (e l’arbur’ pare)

sì tt’ensegno de trovare.

         Ad onn’om cheio perdune,

s’eo n’ho ’n fallo notasone,

         cà lo dico per alcuni

e non per me de poco affare.

         O tu, om, che stai en terra

(e si creato a vita etterna),

         vide ll’arbor che t’ensegna;

or non dormir, briga d’andare.

         A novi Angeli pun cura,

l’un de l’altro plu enn altura;

         molto è nobel tua natura,

tutti li pòi pareiare.

         Lo primo arbor, ch’è fundato,

ne la fede è radicato;

         passa lo celo stellato

e iogne enfine a lo sperare.

         El primo ramoscel ch’è pénto,

de l’offes’ho pentemento;

         sia confesso e ben contento

de non volere plu peccare.

         Poi el secondo me mandòne

de ffare la satisfazione

         de onne mea offensione;

e fui<m>e a Roma, como appare.

         E lo terzo sì mme disse

che de Cristo sì entennesse,

         pover fusse, s’eo volesse.

Allor me volsi spogliare.

         Om che iogne a tale stato,

sì sse tene per salvato,

         cà lo primo angelo à trovato.

Briga de perseverare!

         Poi el quarto me tiròne;

miseme en religione;

         penetenza m’ensegnòne

e d’onferno <m>e ’n guardare.

         Tosto el quinto sì me disse

ch’en tal ramo plu non staiesse,

         ma a l’orazione me d<ai>esse,

s’eo volìa casto stare.

         Da lo sesto fui tirato

e de tacere amaiestrato.

         Obedesce el tuo prelato,

megli’ è che sacrificare.

         Chi en tale stato se trova,

co l’Arcangeli demora;

         benedetto el dì e l’ora

che Deo el volse creare.

         Ne lo settimo fui tirato

d’uno ramo desprezzato.

         Fui battuto e descacciato;

ben me fo grave a pportare.

         Poi l’ottavo me tentòne;

fòme fatto granne onore;

         per la granne devozione

l’attratti facìa andare.

         Demoranno enfra la gente,

al nono ramo pusi mente;

         disseme: “Tu fai n<e>iente”.

Comenzòme a mmedecare.

         Chi en tal stato è aplanato,

da li Truni è acompagnato,

         cà la fé’ l’à ben guidato,

sopr’el cel pòte avetare.

         Poi c’a pensare eo me misi,

tutto quanto stupefisi;

         e<n> me medesmo me reprisi

e vòlsi el corpo tralipare;

         c’allor conubbi (me dolente!)

ch’eo me tenìa sì potente

         e non sapìa que fusse n<e>iente!

Pur al corpo facìa fare.

         Poi guarda’ l’arbor vermiglio,

c’a speranza l’arsemiglio.

         No l’aguarde, en me’ consiglio,

nullo om ch’en terra à stare.

         Enver l’arbor levai ’l viso;

disseme cun claro riso:

         “O tu, omo, ove si miso?

Molto è forte l’aplanare.”

         Eo respusi con tremore:

“Non pòzz’altro, cà ’l meo core

         è esforzato d’uno amore

e vvòle el suo Signor trovare.

         Respondenno, disse: “Or vene,

ma emprima lassa onne bene

         e poi deventa en te crudele

e non t’enganni la pietate”.

         Ma en tal ramo facìa el fiore,

c’al secondo me mandòne,

         e llà trovai pomo d’Amore

e comenzai a llacremare.

         Po’ en lo terzo, plu sentenno,

a dDeo ademandai l’onferno;

         Lui amando e me perdenno,

dolze me c’era onne male.

         Chi en tale stato monta sune,

è con le Dominazione;

         al demonio porta amore

e granne prend’escecurtate.

         ’Nde lo quarto fui poi velato,

el meo entelletto fu osscurato

         e del Nimico fui pigliato;

e non sapìa<me> que mme fare.

         Non potìa el quinto patere;

per dolore gìo a ddormire;

         en fantasia fo el meo vedere

e ’l diavolo a ssunniare.

         Non lo sesto perdìo el sonno,

tenebroso vidd’el mondo;

         fòrom’ennimici entorno,

vòlserine fare desperare.

         La memoria m’adiutòne

e de Deo me recordòne

         confortòse lo meo core

e la croce vòlsi abracciare.

         Chi la croce strenge bene,

Iesù Cristo li sovene;

         poi lo Principato tene

ne la gloria eternale.

         Fui nel settimo approbato

e doppio lume me fo dato;

         fo lo Nimico tralipato,

non potennome engannare.

         ’Mantenente retornòne,

como un angelo, el latrone!

         Una ecclesia me mostròne,

ch’e’ ll’andasse a rellevare.

         Eo, co’ omo atimorato

e del cadere amaiestrato,

         non ce vòlsi voglier capo;

ad ramo ottavo vòlsi andare.

         Allor m’aparve como Cristo

e disse: “Eo so’ tuo maiestro;

         pigliate de me deletto,

ch’en tutto te voglio consolare”.

         Eo respusi: “Cristo disse

ch’eo en Lui non me folcesse;

         nel suo Patre lo vedesse

ennela eterna claritate.

         Como uno angelo de luce

me apparette entro la foce

         et a mme cun clara voce:

“Tu si degno d’adorare”.

         Eo respuse: “Onne onore

sia de lo meo Creatore,

         a ciò conosce lo meo core

che non se’ quel che tu pari”.

         Viddeme lo Nimico saio,

se partìo con suo dannaio;

         et eo compiendo el meo viaio,

fui nel ramo de contemplare.

         L’onor dando a l’Onipotente,

tutta se squarsciò mea mente,

         vedendoce Deo presente

en ciò c’avìa a resguardare.

         Questo è lo celo cristaldino,

c’a speranza sì ven meno,

         cà de lo sprendore è pleno,

regna con le Potestate.

         Al terzo cel po’ pusi mente,

plu che lo sole era lucente;

         tutta s’enflammò mea mente

de volere lassù andare.

         Per un arbore s’aplana,

caritate sì se clama;

         enn alto estendo le so rama

e la cima è ’n che non pare.

         Vòlsi montare a ccavallo;

disseme: “Cavalca saldo;

         o tu, om, se ài’ el bon anno,

emprim’ascolta el meo parlare.

         Dui bataglie ài tu vénte:

lo Nimico e, <’mpria>, la gente.

         Ormai purifica tua mente,

se per me vorrai montare”.

         Eo respusi con amore:

“Eo so’ libero de furore;

         ciò me mustra lo splendore,

ch’e’ l’obidisca el tuo parlare”.

         De la luce facìa la targia

e de la tenebria la lancia;

         puse mente a la belancia

e comenzai a ccavalcare.

         El primo grado, ch’eo salìa,

la Pigrizia trovai emprima.

         Dissi: “Donna, male stia!

ché per te nasce onne male”.

         Eo esguardai: non era sola;

apresso llei stava la Gola

         con un’altra rea persona

(Lussuria è lo suo vocare).

         ’Ntando disse l’alma mia:

“Quest’è la mala compagnia”.

         Co la lancia la firìa

e sì le fici tralipare.

         Poi me nne andai nel secondo

e la Vanagloria me fo entorno;

         volìa far meco soiorno

como ià solìa fare.

         Eo li dissi villania;

tòsto me respuse l’Ira:

         “Nui avemo una regina

e simo de sì alto affare.

         Avarizia è el suo nome

e manten lo suo valore,

         c’aracoglia (e sì <n’>arpone!)

ciò che potemo guadagnare”.

         Eo, vedenno tal brigata,

la targia m’abi abracciata;

         e l’una e l’altra abi frustata

e sì le fic’escialbergare.

         Poi, crescenno mea possanza,

fui nel terzo enn alegranza;

         e là sì trovai la Egnoranza

e sì la prisi a blastimare.

         Per la sua cammora cercava

e la Soperbia sì trovava,

         una donna molto prava

e ben me vòlse contastare.

         Un’ancilla ci avìn cortese,

che a lloro facia ben le spese;

         e Voluttate sì sse disse

(essa l’à pres’a governare).

         Eo, vedenno sì mal loco,

dissi:”Questo no n’è ioco!

         Or al foco al foco al foco!”.

E tutt’e tre fi’ consumare.

         Chi le vizia à venciute,

regna en cel co’ le Vertute;

         ormai cresce sua salute,

se le Vertù so’ ’n accordare.

         Po’ êl quarto ramo me iectai,

e ’n dui stati m’enformai;

         e co ’l poco e co l’assai,

con ciascheun sapìa Deo amare.

         Nel quinto poi andai ioioso;

là suso po’ fui plu vertuoso,

         ché me se fece lo meo Sposo

l’obedire êl commandare.

         Consumai onne gravezza,

viddim’en sì gran ricchezza;

         disseme l’alta Potenza:

“Or fa ch’en te la saccia usare”.

         Fui nel sesto senza entenza,

ne la profonda Sapienza;

         concordai co la Potenza

ne la pura Voluntate.

         L’om che iogne tanto en suso

co li cherubini à poso;

         che pò vivere glorioso,

ché vede Deo per veretate.

         Poi me viddi en tanta altura,

en me tenendo onne figura,

         fòme detto en quella ora:

“Ora espènne, ché ’l pòi fare”.

         Eo guardai al Creatore;

assintìme d’andar sune;

         e predicai, a ssuo onore,

onne gente en suo affare.

         Poi en l’ottavo me nn’andai

e co li angel’ conversai

         en lo meo Scire, che tanto amai,

secondo el loro contemplare.

         Enn alto se levò mea mente,

al nono ramo fui presente;

         laud’<a> lo vero Onipotente

en sé medesmo vòlsi usare.

         Chi lì iogne, ben è pleno

de lo Spirito devino;

         fatto è uno serafino,

esguarda ne la Ternetate.

         E tutti li stati à lassati,

e li tre arburi à spezzati,

         e li tre celi à fracassati

e vive ne la Deietate.

         Omo che iogne a tal possanza,

per mercé, per tua onoranza,

         prega la nostra Speranza

che te pozzamo sequitare.

 




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