Guarino a Palermo
Il segretario del giudice di monarchia
sicula
Quando nell’agosto 1855 il giovane
prete Giuseppe Guarino arrivò a Palermo come segretario del giudice del
Tribunale di Regia Monarchia Sicula, non poteva conoscere la lunga controversia
diplomatica che nel più riservato clima di segretezza aveva contrapposto la S.
Sede e il governo di Napoli proprio sulle prerogative del giudice di monarchia
sicula che fungeva da giudice di appello per tutte le cause ecclesiastiche in
virtù del privilegio di Apostolica Legazia sicula di cui si sentivano investiti
i re di Sicilia1.
L’invadenza del giudice, anche dopo
gli accordi sanciti dalla bolla Fideli
del 1728, si era fatta sempre più consistente a mano a mano la monarchia
borbonica, per paura della rivoluzione, aveva accentuato nel XIX secolo il
controllo delle strutture ecclesiastiche come strumento di dominio politico. I
vescovi, senza contestare la legittimità del Tribunale di Monarchia, non
finirono di lamentare abusi del giudice che pretendeva avocare a sè il giudizio
anche sugli interventi disciplinari degli ordinari diocesani e regolari nei confronti
del clero. I vescovi più volte avevano riferito a Roma soprattutto sugli abusi
del giudice nelle dispense di matrimonio nei gradi di consanguineità non
contemplati dalla bolla Fideli.
Insofferenti si mostrarono alcuni
vescovi che mal sopportavano i limiti imposti nella comunicazione con la
S. Sede e soprattutto l’intervento del giudice che limitava moltissimo la loro
autorità e minava il loro prestigio.2
Era sembrato che il concordato del
1818 avesse dato un colpo di spugna al Tribunale di Monarchia, ma non fu così
perché, dopo la morte del ministro Medici, le pretese del giudice e del governo
aumentarono. Nel 1846 il governo di Napoli poiché le lamentele continuavano fu
costretto a mandare a Roma in missione speciale il siciliano Antonio De Luca,
vescovo di Aversa, divenuto poi cardinale di curia, perché la S. Sede
riconoscesse al giudice di monarchia la possibilità di dispensare in casi non
contemplati dalla bolla Fideli. Roma
si mostrava per un verso condiscendente a patto però di considerare il giudice
suo rappresentante e non funzionario regio.
La situazione si rese più delicata,
quando nel 1850, sempre in riferimento ai diritti di Legazia apostolica, il
governo pretese dall’arcivescovo di Palermo, card. Pignatelli, che di chiedere
il permesso al re per la convocazione della Congregazione generale dei vescovi
siciliani, già convocata per invito e sollecitazione del card. Antonelli,
segretario di Pio IX, e di sottoporre alla revisione regia gli atti di quella
congregazione. La convocazione da parte di Roma degli episcopati delle varie
province ecclesiastiche italiane all’indomani della rivoluzione del ‘48 aveva
segnato una svolta importante nella lotta contro le correnti regaliste e
gallicane, rafforzando la spinta ultramontana che si era affermata dopo la
rivoluzione francese.
Ripresero allora le trattative del
De Luca, inviato a Roma per la seconda volta, poichè il governo di Napoli
sapeva che una sconfessione del Tribunale e della Legazia poteva provocare in
Sicilia forti reazioni, pericolose per il governo in un momento tanto difficile
a causa della rivoluzione sempre incombente. Le trattative però si arenarono
nel 1852 quando, forte delle lagnanze dei vescovi, il card. Antonelli scrisse
direttamente a nome del papa al giudice di monarchia per rimproverarlo di non
essersi attenuto alla bolla Fideli.
Era giudice di monarchia mons. Diego
Planeta. Nato a Sambuca di Sicilia nel 1794, il Planeta aveva compiuto gli
studi nel seminario di Agrigento e la specializzazione in diritto canonico e
morale nel Collegio dei ss. Agostino e Tommaso della stessa città, una
roccaforte del regalismo siciliano. Era stato arcivescovo di Brindisi e
amministratore apostolico di Ostuni. Dal 1849 ricopriva la carica di giudice di
monarchia3. Non si può dubitare della sua buona formazione sacerdotale
e della sua carità4. La sua cultura giuridica, come quella della
maggior parte del clero siciliano, era però inficiata di regalismo. L’autonomia
della chiesa siciliana da Roma e la difesa dei privilegi della corona,
soprattutto della Legazia, costituivano parte integrante di questa cultura che
riconosceva l’autorità religiosa del papa, ma ne ridimensionava quella
giuridica, accettando una dottrina conciliarista mitigata.
Degli abusi del Planeta che tendeva
a estendere il campo della sua giurisdizione, i vescovi ne avevano parlato già
a Portici con il papa e poi erano tornati alla carica a Roma, dopo la fine
della repubblica romana. E già a Portici Pio IX aveva ammonito l’arcivescovo
Planeta e ne aveva ottenuto promessa di rispetto della bolla Fideli. Ma poi gli abusi erano ripresi,
quando arrivò al Planeta la lettera del card. Antonelli. La lettera indirizzata
direttamente al giudice, senza la mediazione del governo, costituiva un fatto
inaudito e suonava sconfessione della Legazia e delle prerogative della corona.
Anche l’arcivescovo Diego Planeta,
giudice di monarchia, ritenne il richiamo di Antonelli al suo operato un abuso
da parte della curia romana. Invece di rispondere, “questo devoto ed
affezionato a S. M. quanto geloso della importantissima regia prerogativa, non
si prestò punto all’invito”, anzi passò la lettera al ministero
napoletano.5
Il 14 ottobre 1852 il ministero
degli esteri di Napoli presentò una nota ufficiale di protesta alla Segreteria
di Stato Vaticana, nella quale si rivendicavano il diritto del Tribunale di
Monarchia, ma anche le prerogative di legato pontificio in Sicilia per il re di
Napoli. Nessuna delle parti aveva però interesse ad allargare il fossato, e
così il card. Antonelli interpretò il “paternale e privato rimprovero” al
giudice di monarchia come “un più facile ritorno del Planeta al sentiero
giusto” e rivendicò però in nome del primato romano il diritto del papa di
“comunicare liberamente con il suo gregge”.6 Sul piano diplomatico il
segretario di stato chiedeva al governo di Napoli “nella via della dolcezza” di
ritirare la nota. Il ministero napoletano a sua volta condizionava questo atto
al ritiro della lettera al giudice di monarchia da parte della segreteria
vaticana.7
Il giovane prete Guarino assumeva il
suo ufficio di segretario del giudice di monarchia nell’agosto 1855, quando già
le acque si erano fatte più tranquille sul piano diplomatico. Il 26 gennaio
1856 infatti Pio IX pubblicava con il consenso tacito del re di Napoli il breve
Peculiaribus con cui dichiarava di
accettare l’estensione della facoltà di dispensa matrimoniale in vantaggio dei
poveri, ma obbligava il giudice di monarchia a farne richiesta di volta in
volta a Roma, affermando così la concezione romana del tribunale. Vietava
ancora al giudice di intervenire contro le sanzioni disciplinari degli ordinari
diocesani comminate ex informata
conscientia. Era il successo del papa e dei vescovi, al quale si arrivava
per le difficoltà del governo borbonico sempre più bisognoso di appoggio
politico da parte del mondo ecclesiastico. A partire dal 1857 gli atti
ecclesiastici non subirono più il geloso controllo governativo di prima, mentre
ai vescovi veniva affidata la vigilanza sulle scuole e sulla stampa.
Il nuovo segretario del giudice di
monarchia si muoveva fra le carte di ordinaria amministrazione, ma doveva
sempre essere un uomo di fiducia; si doveva distinguere per competenza nel
diritto canonico e nel diritto pubblico ecclesiastico siculo, condividere la
stessa formazione culturale del Planeta. Per queste motivazioni il Planeta
aveva fatto la ricerca nella sua terra di origine ed era naturale che guardasse
al Collegio dei ss. Agostino e Tommaso, dove egli stesso si era formato. Si era
rivolto perciò al nipote mons. Giuseppe Oddo, rettore del seminario di
Agrigento, il quale gli propose subito il Guarino. Anche se doveva ancora
completare l’ultimo anno di studi di specializzazione, il Guarino aveva
brillantemente seguito e superato il difficile curriculo canonistico ed era
fornito di qualità morali che lo rendevano un giovane di sicuro avvenire. Mons.
Oddo conosceva bene il Guarino e la sua grande capacità lavorativa perché per
molto tempo il giovane lo aveva aiutato come segretario nel disbrigo della sua
corrispondenza.8
Nel 1855 - scrisse il Guarino quasi un decennio più
tardi - contemporaneamente fui onorato da quattro vescovi: Mons. Lo Jacono,
vescovo di Girgenti, mi volea con sè per farmi Lettore nel Seminario e poscia
di diritto canonico nel Collegio; Mons. Sterlini, vescovo Girgentino in Calvi e
Teano, nel regno di Napoli, mi voleva con sè professore di filosofia e teologia
nel Seminario di Teano; Mons. Stromillo mi desiderava in Caltanissetta; Mons.
Oddo mi proponeva a Segretario di Mons. Planeta, Giudice della Monarchia in
Palermo, e mi imponeva di ubbidire in nome di Dio. Ero io passivo: ne scrissi a
papà, il quale volle che venissi a Palermo; ed avutane la benedizione e il
permesso del mio Vescovo Mons. Stromillo, venni qui il mese di agosto
1855.9
Prete da sei anni, il Guarino si
lasciò guidare nella scelta dal padre, il quale, uomo di robusta formazione
cristiana, seguiva con attenzione la carriera ecclesiastica del figlio come
seguiva quella degli altri due maschi che studiavano a Palermo. Già alla
vigilia del suddiaconato del figlio, il cav. Michele Guarino si era impuntato
non solo perché il fratello Giuseppe attribuisse al nipote omonimo il beneficio
da lui fondato a Montedoro, ma anche che il figlio fosse esentato dall’obbligo
di residenza per non condizionare la sua carriera ecclesiastica. Così ora che
si apriva una dignitosa carriera ecclesiastica, il padre non ebbe dubbi a far
partire il figlio dalla provincia verso la capitale.
Di quel primo periodo palermitano il
giovane prete qualche anno più tardi non ricordava che il lavoro intenso.
“Nell’ufficio di segretario della monarchia - scriveva - lavorai molto, ma
proprio molto, per più anni non conobbi bene Palermo; studiare o scrivere e
nulla più!”10.
Rimase quasi estraneo alla città e
all’ambiente ecclesiale palermitano. Della città conosceva solo l’itinerario
che ogni giorno doveva fare per arrivare dal convento di S. Domenico, dove
abitava, a piazza Bologni, dove aveva sede il Tribunale di Monarchia. Nella
grande chiesa di S. Domenico celebrava ogni mattina la messa, ma solo la
domenica consacrava un po’ di tempo nel ministero delle confessioni. Con
qualche rimpianto ricorderà poi di essersi buttato a capofitto nel lavoro: “Ho
pensato sempre per gli altri ed al lavoro e non all’anima mia”11.
Però l’osservatorio palermitano da
cui il Guarino cominciò a scrutare la vita della chiesa siciliana, i rapporti
delle istituzioni ecclesiastiche con la società e il potere regio, era
veramente un posto di eccezionale importanza. Il Tribunale di Monarchia infatti
attraverso i suoi giudici delegati era ramificato in tutte le diocesi e i
centri più importanti dell’isola. Ad esso arrivavano in appello tutte le
controversie ecclesiastiche, nonchè le richieste di dispensa dagli impedimenti
matrimoniali e le cause di nullità dei voti religiosi. Vero è che con il breve Peculiaribus del gennaio 1856 il giudice
non poteva interferire negli interventi disciplinari dei vescovi, ma rimaneva
il vasto campo degli ordini regolari e tutto il contenzioso tra preti e
vescovi.
Non era facile districarsi in un
groviglio di giurisdizioni. Abbiamo già visto che il clero regolare dipendeva
giuridicamente dal giudice di monarchia. Il clero secolare dipendeva dal
vescovo, ma nella stessa diocesi era presente anche un clero regio, legato alla
giurisdizione del cappellano Maggiore del regno. Inoltre bisognava tener conto
della diversità del rito soprattutto nelle diocesi di Palermo, Monreale,
Messina, dove era presente anche un clero di rito greco. Maggiormente rilevante
era il particolarismo religioso di origine feudale che si esprimeva in una
mentalità fortemente tradizionale e attaccata alla autonomia e indipendenza dei
vari corpi ecclesiastici e morali che difendevano una propria identità e i loro
beni dall’intervento giuridico del vescovo. Questo preminente rapporto
giuridico col vescovo rischiava di impoverire il rapporto pastorale. La vita di
una diocesi si esprimeva in un policentrismo che dal punto di vista istituzionale
non vedeva nel vescovo o nel papa il polo unificante, ma nella monarchia e dal punto di vista più specificamente
religioso si disperdeva nella pluralità dei centri di culto e devozionali a
scapito della parrocchia e della centralità della liturgia.
Per la verità il Tribunale di
Monarchia non giovava affatto a dissolvere questa frammentazione perché il più
delle volte ostacolava ogni tentativo episcopale di ricucire il tessuto
ecclesiale. L’equivoco rimaneva nell’impianto esclusivamente giuridico e disciplinare
che si voleva dare a questi tentativi che perciò trovavano nel clero e nei
fedeli una consistente resistenza in quanto l’intervento dei vescovi si
riteneva arbitrario e lesivo della libertà. Si pensi per esempio alle
sospensioni inflitte dai vescovi ex
informata conscientia che venivano inferte senza che l’interessato fosse
messo al corrente delle accuse o potesse difendersi da delatori occulti. E
allora il tribunale si presentava come possibilità correttiva di abusi, ma
finiva spesse volte come comodo alibi per non tener conto della disciplina
ecclesiastica. Non era raro infatti che tra vescovo e giudice di monarchia si
facesse il braccio di ferro per l’affermazione di un diritto più che per la
ricerca della verità. All’indomani della rivoluzione del 1860 il breve Peculiaribus non ebbe più il placet del nuovo governo e il tribunale
riprese il suo ruolo di difensore dei preti patrioti liberali colpiti dalla
sospensione del vescovo.
Perciò il campo in cui il Guarino si
trovò ad operare, oltre a una grande scienza giuridica, richiedeva una
eccezionale prudenza e moderazione, perché bisognava salvaguardare il diritto
proprio della chiesa e i diritti che la monarchia si riservava e che si erano
concretizzati nel corso del XIX secolo in quello che fu chiamato il Codice
ecclesiastico siculo, particolarmente corposo dal momento che non si
celebravano sinodi in Sicilia per l’eccessivo controllo da parte del potere
regio sugli atti ecclesiastici.
Tutte le testimonianze sono concordi
nel dichiarare che il Guarino riuscì a cavarsela con grande serietà e
moderazione all’interno del solco della tradizione regalista siciliana. Il Mira
nella sua Bibliografia sicula del
1873 accenna all’impegno più consistente del Guarino in quei primi anni di vita
palermitana, il quale si segnalò nell’affare della controversia fra comunità di
rito greco e comunità di rito latino a Palazzo Adriano. In tale occasione il
Guarino fu scelto come segretario della commissione istituita dal governo per
risolvere la controversia, sulla quale scrisse “un ben lungo e motivato
rapporto” bene accolto alla corte di Napoli12. La notizia del Mira è
confermata da due saggi del Guarino Sulle
controversie tra il rito greco ed il rito latino a Palazzo Adriano durante
quattro secoli e Sulle parrocchie di Palazzo Adriano, Scritto
canonico che nel 1873 venivano dati come prossimi alla pubblicazione, ma
che non furono mai pubblicati probabilmente per i nuovi impegni episcopali del
Guarino.
Non ho trovato la firma del Guarino
tra le carte della commissione sui riti che di fatto venne istituita il 29
agosto 1855 proprio quando il Guarino arrivava a Palermo. Furono chiamati a
formare la commissione il giudice di monarchia, mons. Diego Planeta,
l’arcivescovo di Palermo, mons. Giovanbattista Naselli, il quale veniva
rappresentato dal suo vicario generale Niccolò Cervello, l’arcivescovo titolare
di Adana, Domenico Cilluffo, e il vicario capitolare di Monreale, l’abate
benedettino Tarallo. Soltanto nel 1858 fu inserito mons. Giuseppe Crispi,
vescovo ordinante di rito greco. La controversia verteva sulla pretesa di
“matricità” della comunità greca, sulle processioni delle due comunità e su
altre questioni. La commissione non raggiunse l’accordo per una relazione
unitaria. Così nel 1858 furono presentate al governo due relazioni, una di
maggioranza (Planeta, Cilluffo, Tarallo, Cervello) e una di minoranza di mons.
Crispi13. Nelle relazioni non compare il nome del Guarino come
segretario, ma tutto lascia supporre che esse furono redatte dal Guarino, tenendo
conto che il Planeta era il responsabile della commissione.
Tanto lavoro e tanta competenza non
potevano passare inosservati né al Planeta, né all’ambiente palermitano, né
alla corte. Il 4 aprile 1857 un rescritto sovrano nominava Guarino beneficiale
della collegiata della basilica della Magione, una delle più prestigiose della
città di Palermo con la Cattedrale e la Palatina14. Tre mesi dopo
conseguiva anche il canonicato.
Poichè intanto vacava ivi un canonicato - scrive lo
stesso Guarino - da conferirsi a concorso, ed il re Ferdinando II ordinò che
concorressero tutti i Beneficiali, concorsi anch’io il 1° luglio trovandomi
Beneficiale sin dal 4 aprile, ed il 6 agosto dello stesso ebbi il possesso del
canonicato.15
Iniziava in questo modo il suo
inserimento tra il clero palermitano e si chiudeva il periodo di estraneità
alla città. Tuttavia, anche se legato a una prestigiosa collegiata, rimaneva
ancora soprattutto un funzionario del governo. Infatti “a sua insaputa” con
decreto del 22 ottobre 1859, dato dal re in Portici, fu nominato ufficiale di
prima classe con responsabilità del 2° carico degli affari ecclesiastici nel
Ministero e Real Segreteria di Stato presso il Luogotenente di Sicilia.
Ma come si arrivò a questa nomina di
grande responsabilità e di prestigio? Nella primavera del 1858 era morto mons.
Diego Planeta, al quale era succeduto nella carica di giudice della monarchia
Cirino Rinaldi, canonico della Cattedrale di Agrigento, anch’egli proveniente
dalla scuola regalista del Collegio dei ss. Agostino e Tommaso, di cui era
stato professore. Il Rinaldi lasciava libero il posto di ufficiale capo del
Dipartimento ecclesiastico nel Ministero e Real Segreteria di Stato presso il
Luogotenente, che aveva ottenuto nel 1856 alla morte dell’abate Restivo,
scavalcando due funzionari di carriera, Carmelo Griffo e Salvatore de Paulis.
Per ottenere quel posto, il Rinaldi non aveva allora preteso stipendio,
contentandosi della prebenda canonicale. Ai due funzionari il governo però
concedette il massimo stipendio della rispettiva classe e altre onorificenze.
Ora che il Rinaldi otteneva la
ricchissima prebenda del giudice di monarchia, il posto di ufficiale capo
rimaneva libero e si apriva la gara alla successione. Il Griffo rivendicava quel
posto come suo diritto, ma il sac. Vincenzo Crisafulli di Agrigento, ufficiale
di prima classe del Regio Ministero di Stato per gli affari di Sicilia in
Napoli chiedeva anche lui di avere quel posto per potersi trasferire a Palermo,
ma chiedeva, oltre l’avanzamento di grado, anche l’aumento di stipendio a 90
ducati al mese.
Il ministro Giovanni Cassisi da
parte sua chiese altre indicazioni sia al giudice di monarchia, sia al
luogotenente di Sicilia Castelcicala. Il Rinaldi propose quattro candidati di
età intorno ai 40 anni, ex suoi allievi del Collegio dei ss. Agostino e
Tommaso: il sac. Giacomo Urso, prevosto della Collegiata di Licata; il sac.
Giuseppe Lo Bue, vicario foraneo di Casteltermini; il sac. Giuseppe Lauricella,
professore di filosofia nel seminario di Agrigento; il sac. Michele Montuoro,
beneficiale della Cattedrale di Agrigento.
A sua volta il luogotenente generale
di Sicilia Castelcicala presentava il parroco Gaetano Messina, il can. Castro
della Cattedrale di Agrigento e il sac. Salvatore Ragusa della Cappella
Palatina e professore di diritto canonico nell’università di Palermo. L’abate
Scavone, personaggio di primo piano del Ministero degli Affari di Sicilia a
Napoli, richiesto dal ministro su questi nomi, manifestava la sua preferenza
perché fosse scelto il Crisafulli per la sua abilità nel lavoro e per la sua
profonda competenza16 E, nel caso che il Crisafulli avesse dovuto
lasciare il suo posto di Napoli, l’abate suggeriva di sostituirlo con il
giovane prete Giuseppe Guarino. Anche se non lo conosceva personalmente,
l’abate Scavone ne aveva sentito parlare molto bene dallo stesso mons. Planeta:
Mi è stato detto aver studiato nel Collegio di
Girgenti, essere istruito nelle discipline canoniche, ed anche nel diritto
ecclesiastico siculo, di somma probità, modesto e riserbato.17
Scartati i candidati che avevano più
di 60 anni e anche i quarantenni, ci si orientò sia a Napoli che a Palermo a
rinviare la nomina dell’ufficiale capo del dipartimento e invece si decise di
dividere in due uffici il ramo ecclesiastico. Al primo carico venne assegnata la oompetenza su personale
ecclesiastico, onorificenze, temporalità, terzo pensionabile, spogli e sedi
vacanti. Al secondo carico su polizia e disciplina ecclesiastica, alienazioni,
enfiteusi, transazioni, luoghi pii e preminenza dei diritti del re come
monarca, come patrono, come legato.
Il luogotenente Castelcicala propose
per questi due uffici il Griffo e il Crisafulli, chiedendo per quest’ultimo un
aumento di stipendio. Ma il Crisafulli, avuto sentore di questa nuova
impostazione che vedeva sfumare l’avanzamento di carriera e i vantaggi
economici, ritirò la sua candidatura. Nel consiglio di stato del 12 settembre
1859 il re approvò la divisione del ramo ecclesiastico in due uffici, ma non la
designazione del Crisafulli. Al primo ufficio fu nominato il Griffo, per il
secondo ufficio bisognò cercare la persona idonea. Il luogotenente Castelcicala
allora fece una nuova indagine e presentò al nuovo ministro Carmelo Cumbo una
terna di nomi, raccomandando però di scegliere “a preferenza il primo dei
ternali”. La terna era composta dal sac. Giuseppe Guarino da Montedoro di anni
36, dal sac. Antonio Casaccio, segretario dell’arcivescovo Naselli di anni 39,
dal sac. Girolamo Colombo da Palermo di anni 32, professore di diritto canonico
all’Olivella18.
Il ministro segretario Cumbo rispose
che era d’accordo per la scelta del Guarino, tenuto conto delle qualità morali
e politiche e dei meriti professionali, ma che, per prudenza, non era opportuno
conferire subito il posto di ufficiale di carico, e più opportuno per qualche
tempo inserirlo come ufficiale di prima classe in modo che potesse dar prova
delle sue qualità prima della nomina ad ufficiale di carico. D’accordo il
Castelcicala, purchè all’eletto ufficiale di prima classe fosse dato il massimo
dello stipendio (circa 70 ducati al mese) e gli onori di ufficiale di
carico19.
Il 22 ottobre 1859 il ministro Cumbo
presentava al re in Portici la proposta nella conferenza ordinaria. Il re
approvò la scelta del Guarino e gli concesse il titolo di ufficiale di prima
classe col massimo dello stipendio, ma senza gli onori di ufficiale di
carico20. Tutto era avvenuto all’insaputa del Guarino e senza la sua
richiesta, ma il governo non dubitava della sua fedeltà alla corona e della sua
accettazione. Anzi questo suo avanzamento nella carriera fu considerato come un
atto di benevolenza da parte del sovrano e un riconoscimento della fama di
esperto in diritto canonico oltre che della serietà della sua vita. Così
Guarino lasciò piazza Bologni per il nuovo incarico.
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