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Francesco Michele Stabile
Il Card. Giuseppe Guarino

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  • Guarino a Palermo
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Guarino a Palermo

 

Il segretario del giudice di monarchia sicula

            Quando nell’agosto 1855 il giovane prete Giuseppe Guarino arrivò a Palermo come segretario del giudice del Tribunale di Regia Monarchia Sicula, non poteva conoscere la lunga controversia diplomatica che nel più riservato clima di segretezza aveva contrapposto la S. Sede e il governo di Napoli proprio sulle prerogative del giudice di monarchia sicula che fungeva da giudice di appello per tutte le cause ecclesiastiche in virtù del privilegio di Apostolica Legazia sicula di cui si sentivano investiti i re di Sicilia1.

            L’invadenza del giudice, anche dopo gli accordi sanciti dalla bolla Fideli del 1728, si era fatta sempre più consistente a mano a mano la monarchia borbonica, per paura della rivoluzione, aveva accentuato nel XIX secolo il controllo delle strutture ecclesiastiche come strumento di dominio politico. I vescovi, senza contestare la legittimità del Tribunale di Monarchia, non finirono di lamentare abusi del giudice che pretendeva avocare a il giudizio anche sugli interventi disciplinari degli ordinari diocesani e regolari nei confronti del clero. I vescovi più volte avevano riferito a Roma soprattutto sugli abusi del giudice nelle dispense di matrimonio nei gradi di consanguineità non contemplati dalla bolla Fideli. Insofferenti si mostrarono alcuni  vescovi che mal sopportavano i limiti imposti nella comunicazione con la S. Sede e soprattutto l’intervento del giudice che limitava moltissimo la loro autorità e minava il loro prestigio.2

            Era sembrato che il concordato del 1818 avesse dato un colpo di spugna al Tribunale di Monarchia, ma non fu così perché, dopo la morte del ministro Medici, le pretese del giudice e del governo aumentarono. Nel 1846 il governo di Napoli poiché le lamentele continuavano fu costretto a mandare a Roma in missione speciale il siciliano Antonio De Luca, vescovo di Aversa, divenuto poi cardinale di curia, perché la S. Sede riconoscesse al giudice di monarchia la possibilità di dispensare in casi non contemplati dalla bolla Fideli. Roma si mostrava per un verso condiscendente a patto però di considerare il giudice suo rappresentante e non funzionario regio.

            La situazione si rese più delicata, quando nel 1850, sempre in riferimento ai diritti di Legazia apostolica, il governo pretese dall’arcivescovo di Palermo, card. Pignatelli, che di chiedere il permesso al re per la convocazione della Congregazione generale dei vescovi siciliani, già convocata per invito e sollecitazione del card. Antonelli, segretario di Pio IX, e di sottoporre alla revisione regia gli atti di quella congregazione. La convocazione da parte di Roma degli episcopati delle varie province ecclesiastiche italiane all’indomani della rivoluzione del ‘48 aveva segnato una svolta importante nella lotta contro le correnti regaliste e gallicane, rafforzando la spinta ultramontana che si era affermata dopo la rivoluzione francese.

            Ripresero allora le trattative del De Luca, inviato a Roma per la seconda volta, poichè il governo di Napoli sapeva che una sconfessione del Tribunale e della Legazia poteva provocare in Sicilia forti reazioni, pericolose per il governo in un momento tanto difficile a causa della rivoluzione sempre incombente. Le trattative però si arenarono nel 1852 quando, forte delle lagnanze dei vescovi, il card. Antonelli scrisse direttamente a nome del papa al giudice di monarchia per rimproverarlo di non essersi attenuto alla bolla Fideli.

            Era giudice di monarchia mons. Diego Planeta. Nato a Sambuca di Sicilia nel 1794, il Planeta aveva compiuto gli studi nel seminario di Agrigento e la specializzazione in diritto canonico e morale nel Collegio dei ss. Agostino e Tommaso della stessa città, una roccaforte del regalismo siciliano. Era stato arcivescovo di Brindisi e amministratore apostolico di Ostuni. Dal 1849 ricopriva la carica di giudice di monarchia3. Non si può dubitare della sua buona formazione sacerdotale e della sua carità4. La sua cultura giuridica, come quella della maggior parte del clero siciliano, era però inficiata di regalismo. L’autonomia della chiesa siciliana da Roma e la difesa dei privilegi della corona, soprattutto della Legazia, costituivano parte integrante di questa cultura che riconosceva l’autorità religiosa del papa, ma ne ridimensionava quella giuridica, accettando una dottrina conciliarista mitigata.

            Degli abusi del Planeta che tendeva a estendere il campo della sua giurisdizione, i vescovi ne avevano parlato già a Portici con il papa e poi erano tornati alla carica a Roma, dopo la fine della repubblica romana. E già a Portici Pio IX aveva ammonito l’arcivescovo Planeta e ne aveva ottenuto promessa di rispetto della bolla Fideli. Ma poi gli abusi erano ripresi, quando arrivò al Planeta la lettera del card. Antonelli. La lettera indirizzata direttamente al giudice, senza la mediazione del governo, costituiva un fatto inaudito e suonava sconfessione della Legazia e delle prerogative della corona.

            Anche l’arcivescovo Diego Planeta, giudice di monarchia, ritenne il richiamo di Antonelli al suo operato un abuso da parte della curia romana. Invece di rispondere, “questo devoto ed affezionato a S. M. quanto geloso della importantissima regia prerogativa, non si prestò punto all’invito”, anzi passò la lettera al ministero napoletano.5

            Il 14 ottobre 1852 il ministero degli esteri di Napoli presentò una nota ufficiale di protesta alla Segreteria di Stato Vaticana, nella quale si rivendicavano il diritto del Tribunale di Monarchia, ma anche le prerogative di legato pontificio in Sicilia per il re di Napoli. Nessuna delle parti aveva però interesse ad allargare il fossato, e così il card. Antonelli interpretò il “paternale e privato rimprovero” al giudice di monarchia come “un più facile ritorno del Planeta al sentiero giusto” e rivendicò però in nome del primato romano il diritto del papa di “comunicare liberamente con il suo gregge”.6 Sul piano diplomatico il segretario di stato chiedeva al governo di Napoli “nella via della dolcezza” di ritirare la nota. Il ministero napoletano a sua volta condizionava questo atto al ritiro della lettera al giudice di monarchia da parte della segreteria vaticana.7 

            Il giovane prete Guarino assumeva il suo ufficio di segretario del giudice di monarchia nell’agosto 1855, quando già le acque si erano fatte più tranquille sul piano diplomatico. Il 26 gennaio 1856 infatti Pio IX pubblicava con il consenso tacito del re di Napoli il breve Peculiaribus con cui dichiarava di accettare l’estensione della facoltà di dispensa matrimoniale in vantaggio dei poveri, ma obbligava il giudice di monarchia a farne richiesta di volta in volta a Roma, affermando così la concezione romana del tribunale. Vietava ancora al giudice di intervenire contro le sanzioni disciplinari degli ordinari diocesani comminate ex informata conscientia. Era il successo del papa e dei vescovi, al quale si arrivava per le difficoltà del governo borbonico sempre più bisognoso di appoggio politico da parte del mondo ecclesiastico. A partire dal 1857 gli atti ecclesiastici non subirono più il geloso controllo governativo di prima, mentre ai vescovi veniva affidata la vigilanza sulle scuole e sulla stampa.

            Il nuovo segretario del giudice di monarchia si muoveva fra le carte di ordinaria amministrazione, ma doveva sempre essere un uomo di fiducia; si doveva distinguere per competenza nel diritto canonico e nel diritto pubblico ecclesiastico siculo, condividere la stessa formazione culturale del Planeta. Per queste motivazioni il Planeta aveva fatto la ricerca nella sua terra di origine ed era naturale che guardasse al Collegio dei ss. Agostino e Tommaso, dove egli stesso si era formato. Si era rivolto perciò al nipote mons. Giuseppe Oddo, rettore del seminario di Agrigento, il quale gli propose subito il Guarino. Anche se doveva ancora completare l’ultimo anno di studi di specializzazione, il Guarino aveva brillantemente seguito e superato il difficile curriculo canonistico ed era fornito di qualità morali che lo rendevano un giovane di sicuro avvenire. Mons. Oddo conosceva bene il Guarino e la sua grande capacità lavorativa perché per molto tempo il giovane lo aveva aiutato come segretario nel disbrigo della sua corrispondenza.8

 

                Nel 1855 - scrisse il Guarino quasi un decennio più tardi - contemporaneamente fui onorato da quattro vescovi: Mons. Lo Jacono, vescovo di Girgenti, mi volea con per farmi Lettore nel Seminario e poscia di diritto canonico nel Collegio; Mons. Sterlini, vescovo Girgentino in Calvi e Teano, nel regno di Napoli, mi voleva con professore di filosofia e teologia nel Seminario di Teano; Mons. Stromillo mi desiderava in Caltanissetta; Mons. Oddo mi proponeva a Segretario di Mons. Planeta, Giudice della Monarchia in Palermo, e mi imponeva di ubbidire in nome di Dio. Ero io passivo: ne scrissi a papà, il quale volle che venissi a Palermo; ed avutane la benedizione e il permesso del mio Vescovo Mons. Stromillo, venni qui il mese di agosto 1855.9

 

            Prete da sei anni, il Guarino si lasciò guidare nella scelta dal padre, il quale, uomo di robusta formazione cristiana, seguiva con attenzione la carriera ecclesiastica del figlio come seguiva quella degli altri due maschi che studiavano a Palermo. Già alla vigilia del suddiaconato del figlio, il cav. Michele Guarino si era impuntato non solo perché il fratello Giuseppe attribuisse al nipote omonimo il beneficio da lui fondato a Montedoro, ma anche che il figlio fosse esentato dall’obbligo di residenza per non condizionare la sua carriera ecclesiastica. Così ora che si apriva una dignitosa carriera ecclesiastica, il padre non ebbe dubbi a far partire il figlio dalla provincia verso la capitale.

            Di quel primo periodo palermitano il giovane prete qualche anno più tardi non ricordava che il lavoro intenso. “Nell’ufficio di segretario della monarchia - scriveva - lavorai molto, ma proprio molto, per più anni non conobbi bene Palermo; studiare o scrivere e nulla più!”10.

            Rimase quasi estraneo alla città e all’ambiente ecclesiale palermitano. Della città conosceva solo l’itinerario che ogni giorno doveva fare per arrivare dal convento di S. Domenico, dove abitava, a piazza Bologni, dove aveva sede il Tribunale di Monarchia. Nella grande chiesa di S. Domenico celebrava ogni mattina la messa, ma solo la domenica consacrava un po’ di tempo nel ministero delle confessioni. Con qualche rimpianto ricorderà poi di essersi buttato a capofitto nel lavoro: “Ho pensato sempre per gli altri ed al lavoro e non all’anima mia”11.

            Però l’osservatorio palermitano da cui il Guarino cominciò a scrutare la vita della chiesa siciliana, i rapporti delle istituzioni ecclesiastiche con la società e il potere regio, era veramente un posto di eccezionale importanza. Il Tribunale di Monarchia infatti attraverso i suoi giudici delegati era ramificato in tutte le diocesi e i centri più importanti dell’isola. Ad esso arrivavano in appello tutte le controversie ecclesiastiche, nonchè le richieste di dispensa dagli impedimenti matrimoniali e le cause di nullità dei voti religiosi. Vero è che con il breve Peculiaribus del gennaio 1856 il giudice non poteva interferire negli interventi disciplinari dei vescovi, ma rimaneva il vasto campo degli ordini regolari e tutto il contenzioso tra preti e vescovi.

            Non era facile districarsi in un groviglio di giurisdizioni. Abbiamo già visto che il clero regolare dipendeva giuridicamente dal giudice di monarchia. Il clero secolare dipendeva dal vescovo, ma nella stessa diocesi era presente anche un clero regio, legato alla giurisdizione del cappellano Maggiore del regno. Inoltre bisognava tener conto della diversità del rito soprattutto nelle diocesi di Palermo, Monreale, Messina, dove era presente anche un clero di rito greco. Maggiormente rilevante era il particolarismo religioso di origine feudale che si esprimeva in una mentalità fortemente tradizionale e attaccata alla autonomia e indipendenza dei vari corpi ecclesiastici e morali che difendevano una propria identità e i loro beni dall’intervento giuridico del vescovo. Questo preminente rapporto giuridico col vescovo rischiava di impoverire il rapporto pastorale. La vita di una diocesi si esprimeva in un policentrismo che dal punto di vista istituzionale non vedeva nel vescovo o nel papa il polo unificante, ma nella monarchia  e dal punto di vista più specificamente religioso si disperdeva nella pluralità dei centri di culto e devozionali a scapito della parrocchia e della centralità della liturgia.

            Per la verità il Tribunale di Monarchia non giovava affatto a dissolvere questa frammentazione perché il più delle volte ostacolava ogni tentativo episcopale di ricucire il tessuto ecclesiale. L’equivoco rimaneva nell’impianto esclusivamente giuridico e disciplinare che si voleva dare a questi tentativi che perciò trovavano nel clero e nei fedeli una consistente resistenza in quanto l’intervento dei vescovi si riteneva arbitrario e lesivo della libertà. Si pensi per esempio alle sospensioni inflitte dai vescovi ex informata conscientia che venivano inferte senza che l’interessato fosse messo al corrente delle accuse o potesse difendersi da delatori occulti. E allora il tribunale si presentava come possibilità correttiva di abusi, ma finiva spesse volte come comodo alibi per non tener conto della disciplina ecclesiastica. Non era raro infatti che tra vescovo e giudice di monarchia si facesse il braccio di ferro per l’affermazione di un diritto più che per la ricerca della verità. All’indomani della rivoluzione del 1860 il breve Peculiaribus non ebbe più il placet del nuovo governo e il tribunale riprese il suo ruolo di difensore dei preti patrioti liberali colpiti dalla sospensione del vescovo.

            Perciò il campo in cui il Guarino si trovò ad operare, oltre a una grande scienza giuridica, richiedeva una eccezionale prudenza e moderazione, perché bisognava salvaguardare il diritto proprio della chiesa e i diritti che la monarchia si riservava e che si erano concretizzati nel corso del XIX secolo in quello che fu chiamato il Codice ecclesiastico siculo, particolarmente corposo dal momento che non si celebravano sinodi in Sicilia per l’eccessivo controllo da parte del potere regio sugli atti ecclesiastici.

            Tutte le testimonianze sono concordi nel dichiarare che il Guarino riuscì a cavarsela con grande serietà e moderazione all’interno del solco della tradizione regalista siciliana. Il Mira nella sua Bibliografia sicula del 1873 accenna all’impegno più consistente del Guarino in quei primi anni di vita palermitana, il quale si segnalò nell’affare della controversia fra comunità di rito greco e comunità di rito latino a Palazzo Adriano. In tale occasione il Guarino fu scelto come segretario della commissione istituita dal governo per risolvere la controversia, sulla quale scrisse “un ben lungo e motivato rapportobene accolto alla corte di Napoli12. La notizia del Mira è confermata da due saggi del Guarino Sulle controversie tra il rito greco ed il rito latino a Palazzo Adriano durante quattro secoli  e Sulle parrocchie di Palazzo Adriano, Scritto canonico che nel 1873 venivano dati come prossimi alla pubblicazione, ma che non furono mai pubblicati probabilmente per i nuovi impegni episcopali del Guarino.

            Non ho trovato la firma del Guarino tra le carte della commissione sui riti che di fatto venne istituita il 29 agosto 1855 proprio quando il Guarino arrivava a Palermo. Furono chiamati a formare la commissione il giudice di monarchia, mons. Diego Planeta, l’arcivescovo di Palermo, mons. Giovanbattista Naselli, il quale veniva rappresentato dal suo vicario generale Niccolò Cervello, l’arcivescovo titolare di Adana, Domenico Cilluffo, e il vicario capitolare di Monreale, l’abate benedettino Tarallo. Soltanto nel 1858 fu inserito mons. Giuseppe Crispi, vescovo ordinante di rito greco. La controversia verteva sulla pretesa di “matricità” della comunità greca, sulle processioni delle due comunità e su altre questioni. La commissione non raggiunse l’accordo per una relazione unitaria. Così nel 1858 furono presentate al governo due relazioni, una di maggioranza (Planeta, Cilluffo, Tarallo, Cervello) e una di minoranza di mons. Crispi13. Nelle relazioni non compare il nome del Guarino come segretario, ma tutto lascia supporre che esse furono redatte dal Guarino, tenendo conto che il Planeta era il responsabile della commissione.

            Tanto lavoro e tanta competenza non potevano passare inosservati né al Planeta, né all’ambiente palermitano, né alla corte. Il 4 aprile 1857 un rescritto sovrano nominava Guarino beneficiale della collegiata della basilica della Magione, una delle più prestigiose della città di Palermo con la Cattedrale e la Palatina14. Tre mesi dopo conseguiva anche il canonicato.

           

                Poichè intanto vacava ivi un canonicato - scrive lo stesso Guarino - da conferirsi a concorso, ed il re Ferdinando II ordinò che concorressero tutti i Beneficiali, concorsi anch’io il luglio trovandomi Beneficiale sin dal 4 aprile, ed il 6 agosto dello stesso ebbi il possesso del canonicato.15

 

            Iniziava in questo modo il suo inserimento tra il clero palermitano e si chiudeva il periodo di estraneità alla città. Tuttavia, anche se legato a una prestigiosa collegiata, rimaneva ancora soprattutto un funzionario del governo. Infatti “a sua insaputa” con decreto del 22 ottobre 1859, dato dal re in Portici, fu nominato ufficiale di prima classe con responsabilità del carico degli affari ecclesiastici nel Ministero e Real Segreteria di Stato presso il Luogotenente di Sicilia.

            Ma come si arrivò a questa nomina di grande responsabilità e di prestigio? Nella primavera del 1858 era morto mons. Diego Planeta, al quale era succeduto nella carica di giudice della monarchia Cirino Rinaldi, canonico della Cattedrale di Agrigento, anch’egli proveniente dalla scuola regalista del Collegio dei ss. Agostino e Tommaso, di cui era stato professore. Il Rinaldi lasciava libero il posto di ufficiale capo del Dipartimento ecclesiastico nel Ministero e Real Segreteria di Stato presso il Luogotenente, che aveva ottenuto nel 1856 alla morte dell’abate Restivo, scavalcando due funzionari di carriera, Carmelo Griffo e Salvatore de Paulis. Per ottenere quel posto, il Rinaldi non aveva allora preteso stipendio, contentandosi della prebenda canonicale. Ai due funzionari il governo però concedette il massimo stipendio della rispettiva classe e altre onorificenze.

            Ora che il Rinaldi otteneva la ricchissima prebenda del giudice di monarchia, il posto di ufficiale capo rimaneva libero e si apriva la gara alla successione. Il Griffo rivendicava quel posto come suo diritto, ma il sac. Vincenzo Crisafulli di Agrigento, ufficiale di prima classe del Regio Ministero di Stato per gli affari di Sicilia in Napoli chiedeva anche lui di avere quel posto per potersi trasferire a Palermo, ma chiedeva, oltre l’avanzamento di grado, anche l’aumento di stipendio a 90 ducati al mese.

            Il ministro Giovanni Cassisi da parte sua chiese altre indicazioni sia al giudice di monarchia, sia al luogotenente di Sicilia Castelcicala. Il Rinaldi propose quattro candidati di età intorno ai 40 anni, ex suoi allievi del Collegio dei ss. Agostino e Tommaso: il sac. Giacomo Urso, prevosto della Collegiata di Licata; il sac. Giuseppe Lo Bue, vicario foraneo di Casteltermini; il sac. Giuseppe Lauricella, professore di filosofia nel seminario di Agrigento; il sac. Michele Montuoro, beneficiale della Cattedrale di Agrigento.

            A sua volta il luogotenente generale di Sicilia Castelcicala presentava il parroco Gaetano Messina, il can. Castro della Cattedrale di Agrigento e il sac. Salvatore Ragusa della Cappella Palatina e professore di diritto canonico nell’università di Palermo. L’abate Scavone, personaggio di primo piano del Ministero degli Affari di Sicilia a Napoli, richiesto dal ministro su questi nomi, manifestava la sua preferenza perché fosse scelto il Crisafulli per la sua abilità nel lavoro e per la sua profonda competenza16 E, nel caso che il Crisafulli avesse dovuto lasciare il suo posto di Napoli, l’abate suggeriva di sostituirlo con il giovane prete Giuseppe Guarino. Anche se non lo conosceva personalmente, l’abate Scavone ne aveva sentito parlare molto bene dallo stesso mons. Planeta:

 

                Mi è stato detto aver studiato nel Collegio di Girgenti, essere istruito nelle discipline canoniche, ed anche nel diritto ecclesiastico siculo, di somma probità, modesto e riserbato.17

 

            Scartati i candidati che avevano più di 60 anni e anche i quarantenni, ci si orientò sia a Napoli che a Palermo a rinviare la nomina dell’ufficiale capo del dipartimento e invece si decise di dividere in due uffici il ramo ecclesiastico. Al primo carico venne  assegnata la oompetenza su personale ecclesiastico, onorificenze, temporalità, terzo pensionabile, spogli e sedi vacanti. Al secondo carico su polizia e disciplina ecclesiastica, alienazioni, enfiteusi, transazioni, luoghi pii e preminenza dei diritti del re come monarca, come patrono, come legato.

            Il luogotenente Castelcicala propose per questi due uffici il Griffo e il Crisafulli, chiedendo per quest’ultimo un aumento di stipendio. Ma il Crisafulli, avuto sentore di questa nuova impostazione che vedeva sfumare l’avanzamento di carriera e i vantaggi economici, ritirò la sua candidatura. Nel consiglio di stato del 12 settembre 1859 il re approvò la divisione del ramo ecclesiastico in due uffici, ma non la designazione del Crisafulli. Al primo ufficio fu nominato il Griffo, per il secondo ufficio bisognò cercare la persona idonea. Il luogotenente Castelcicala allora fece una nuova indagine e presentò al nuovo ministro Carmelo Cumbo una terna di nomi, raccomandando però di scegliere “a preferenza il primo dei ternali”. La terna era composta dal sac. Giuseppe Guarino da Montedoro di anni 36, dal sac. Antonio Casaccio, segretario dell’arcivescovo Naselli di anni 39, dal sac. Girolamo Colombo da Palermo di anni 32, professore di diritto canonico all’Olivella18.

            Il ministro segretario Cumbo rispose che era d’accordo per la scelta del Guarino, tenuto conto delle qualità morali e politiche e dei meriti professionali, ma che, per prudenza, non era opportuno conferire subito il posto di ufficiale di carico, e più opportuno per qualche tempo inserirlo come ufficiale di prima classe in modo che potesse dar prova delle sue qualità prima della nomina ad ufficiale di carico. D’accordo il Castelcicala, purchè all’eletto ufficiale di prima classe fosse dato il massimo dello stipendio (circa 70 ducati al mese) e gli onori di ufficiale di carico19.

            Il 22 ottobre 1859 il ministro Cumbo presentava al re in Portici la proposta nella conferenza ordinaria. Il re approvò la scelta del Guarino e gli concesse il titolo di ufficiale di prima classe col massimo dello stipendio, ma senza gli onori di ufficiale di carico20. Tutto era avvenuto all’insaputa del Guarino e senza la sua richiesta, ma il governo non dubitava della sua fedeltà alla corona e della sua accettazione. Anzi questo suo avanzamento nella carriera fu considerato come un atto di benevolenza da parte del sovrano e un riconoscimento della fama di esperto in diritto canonico oltre che della serietà della sua vita. Così Guarino lasciò piazza Bologni per il nuovo incarico.

           

 

 




1      F.M. Stabile, L’abolizione della Apostolica Legazia Sicula e del Tribunale di Regia Monarchia, in Atti del II Convegno di ricerca storica sulla figura e sull’opera di Papa Pio IX, Senigallia 1978, pp. 245-282. Da quando Filippo II, re di Spagna e di Sicilia, aveva dato una struttura giuridica permanente alla rivendicazione della corona di ereditare il privilegio per il re di Sicilia di essere Legato nato del papa, in virtù della bolla Quia propter prudentiam tuam, concessa da papa Urbano II nel 1097 al conte Ruggero il Normanno, la S. Sede non aveva mai accettato l’istituto della Legazia apostolica in Sicilia e il suo Tribunale, che impedivano una piena attuazione dei decreti tridentini e ponevano la chiesa siciliana nelle mani del potere regio, anziché della sede romana.

                Con il Tribunale di Regia Monarchia, un giudice ecclesiastico infatti, come rappresentante della corona, accoglieva tutte le cause di appello dei tribunali degli ordinari diocesani e religiosi che altrimenti sarebbero passati ai tribunali romani. L’eccessiva invadenza della monarchia nella vita della chiesa siciliana aveva come conseguenza la scomparsa, agli inizi del settecento, di una vita sinodale autonoma delle chiese diocesane e la formazione di un diritto pubblico ecclesiastico siciliano, che raccoglieva gli interventi legislativi della corona che regolavano la vita della chiesa.

                Era quindi inevitabile l’avversione della curia romana, la quale tendeva a considerare invece il giudice di monarchia soltanto un delegato del papa e non del re, ma era altrettanto spiegabile l’animosità dei regalisti siciliani, i quali consideravano la Legazia e il suo tribunale come un privilegio inalienabile del regno di Sicilia.

                La tensione si trasformò in rottura durante il breve regno di Vittorio Amedeo di Savoia (1714-1718), tanto che la S. Sede nel 1715 abrogò la Legazia Apostolica e il suo tribunale. Nel 1728 si venne a una composizione con la Concordia benedettina tra Carlo VI d’Austria, allora re di Sicilia, e papa Benedetto XIII. Il papa della bolla Fideli, senza fare riferimento alla Legazia abolita, regolò l’esercizio del tribunale di monarchia, eliminando gli abusi e definendo gli ambiti di intervento del giudice, considerato però come suo delegato.



2 Nel 1807 e nel 1808 i vescovi siciliani inoltrarono al re una Protesta contro l'eccessiva invadenza del potere politico nella vita della chiesa.



3 D. De Gregorio, Il card. Giuseppe Guarino, arcivescovo e archimandrita di Messina, Messina 1982, p. 85.



4 A. Narbone, Elogio funebre di Mons. Diego Planeta, già arcivescovo di Brindisi e poi di Damiata in partibus, giudice della Regia Monarchia e Apostolica Legazia in Sicilia, presidente della Commissione di Pubblica Istruzione ed Educazione, consultore de’ regi domini di dal Faro, pronunziato nelle esequie celebrate nella maggiore chiesa dei Crociferi a 8 giugno 1858, Barravecchia, Palermo 1858.



5 Lett. del luogotenente generale al ministro per gli affari di Sicilia, 2.9.1853, in G. Catalano, Studi sulla Legazia apostolica, Reggio Calabria 1973, Appendice VI, p. 307.



6 Lett. del card. Antonelli a mons. De Luca, 25.6.1853, ASV, Spoglio card. A. De Luca, cit. da F.M. Stabile, L’abolizionedella Apostolica Legazia, cit..



7 Ivi.



8 Cenni autobiografici, in Cardinale Giuseppe Guarino, Ricordi storici, numero unico, 5 maggio 1907, p. 11. Da ora in poi Ricordi storici.



9   Ivi.



10 Ivi.



11 Ivi.



12 G.M. Mira, Bibliografia siciliana, Palermo 1875-1882, voce Guarino.



13 ASP, Ministero e Real Segreteria per gli Affari di Sicilia, Ecclesiastico b. 2386 n. 10, Questioni tra parrocchia greca e latina di Palazzo Adriano, anno 1859.



14 Ricordi storici, cit., p. 11.  La collegiata della basilica non poteva contare più su benefici consistenti, perché le rendite della chiesa, appartenente all’ordine costantiniano, erano state incamerate dal governo ed assegnate come appannaggio a un principe della famiglia reale.



15 Ivi.



16 La corrispondenza relativa, in ASP, Ministero e real segreteria di stato per gli affari di Sicilia, b. 1343, anno 1859, fasc. 36.



17 Due noteriserbatissime” dell’abate Scavone al ministro Paolo Cumbo, s.d., ivi.



18 Lett. del luogotenente Castelcicala al ministro per gli affari di Sicilia, 12.10.1859, ivi.



19 Minuta del ministro Cumbo al Castelcicala, 14.10.1859; lett. del Castelcicala, 19.10.1859, ivi.



20 Proposta del ministro al re e lett. del Castelcicala, 25.10.1859; copia conforme del rescritto reale di nomina del Guarino del 25.10.1859 e copia del real decreto, ivi.






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