La rivoluzione del 1860
Pochi mesi dopo, nell’aprile 1860
scoppiava la rivoluzione a Palermo e nel maggio Garibaldi sbarcava in Sicilia,
determinando la fine del regno borbonico. Quale fu l’atteggiamento del Guarino
di fronte alla rivoluzione? Non abbiamo testimonianze esplicite, ma ritengo si
possa affermare con sicurezza che egli rimase estraneo a quegli avvenimenti e
alla ventata ottimistica di cambiamento, anche se non pare ci fosse una
avversione preconcetta. L’interesse preponderante del Guarino per gli aspetti
religiosi della vita sociale, pur rendendolo grato al governo borbonico per gli
onori ricevuti, non lo aveva messo in vista come particolarmente legato alla
dinastia. La sua era una naturale adesione e rispetto per le legittime autorità
che gli derivavano dalla formazione, dagli orientamenti spirituali e dagli
studi giuridici.
La preponderante formazione
giuridica regalista del clero agrigentino non si risolveva necessariamente nel
legittimismo borbonico, quanto piuttosto in una concezione che vedeva il clero
sempre aggrappato ai detentori del potere politico. Non si può infatti
dimenticare la devozione per il nuovo governo rivoluzionario e per il governo
italiano di Cirino Rinaldi, giudice di monarchia, che era creatura dei Borboni,
o di Vincenzo Crisafulli, che diventò subeconomo dei benefici vacanti in
Sicilia dopo il 1860.
Guarino era uomo d’ordine, convinto
com’era che ognuno doveva svolgere il suo compito nel rispetto della legittima
autorità e della legge. Per la sua formazione giuridica ed ecclesiologica
inoltre era fermamente convinto dell’obbligo del potere civile di far osservare
le regole ecclesiastiche e, ancora nel 1860, riteneva importante l’intervento
regolatore dello stato anche nella vita interna della chiesa soprattutto per la
disciplina ecclesiastica.
Non era mancata anche nel clero
agrigentino una ventata di entusiasmo per le nuove idee e per il mito del
progresso21. Lo stesso Guarino dichiara di esserne stato contagiato,
probabilmente alla vigilia della rivoluzione del 1848. Scriverà infatti nel
1863:
Anch’io, sono già parecchi anni, dubitai se fosse
lecito il chiedere: «siamo noi in progresso morale?» quando mi venne in mano un
libro picciolo di mole, ma grande di senno e d’esperienza. Il mondo incivilito,
diceva egli, è intelligente, ricco, potente, ma è malato: gli manca la morale,
gli manca il credere... Sol può salvarlo il maritaggio dello spirito del
progresso con la religione! Queste gravi parole mi scossero
fortemente.22
Era evidente che la preoccupazione
religiosa prevaleva su ogni altra considerazione. Si ritrova in lui la stessa
preoccupazione che fu nel can. Domenico Turano e nel clero zelante palermitano,
che, pur essendo legati a una cultura cattolico-liberale, dopo il 1848 e le
prime leggi eversive cominciarono a nutrire perplessità e dubbi perché le
scelte del nuovo regime erano lontane dal realizzare quella armonia che avevano
sognato nel tentativo di conciliare fede e progresso. Essi accettavano la
libertà politica, purchè non intaccasse il tessuto religioso della società
siciliana con l’affermazione di astratti principi di libertà di culto o di
libertà in campo morale.
In questo itinerario il funzionario
Giuseppe Guarino si trovava ormai vicino al gruppo di preti zelanti
palermitani, ma doveva passare ancora qualche anno perché egli diventasse uno
dei più eminenti esponenti di questo clero.
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