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Francesco Michele Stabile
Il Card. Giuseppe Guarino

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  • Guarino a Palermo
    • La rivoluzione del 1860
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La rivoluzione del 1860

            Pochi mesi dopo, nell’aprile 1860 scoppiava la rivoluzione a Palermo e nel maggio Garibaldi sbarcava in Sicilia, determinando la fine del regno borbonico. Quale fu l’atteggiamento del Guarino di fronte alla rivoluzione? Non abbiamo testimonianze esplicite, ma ritengo si possa affermare con sicurezza che egli rimase estraneo a quegli avvenimenti e alla ventata ottimistica di cambiamento, anche se non pare ci fosse una avversione preconcetta. L’interesse preponderante del Guarino per gli aspetti religiosi della vita sociale, pur rendendolo grato al governo borbonico per gli onori ricevuti, non lo aveva messo in vista come particolarmente legato alla dinastia. La sua era una naturale adesione e rispetto per le legittime autorità che gli derivavano dalla formazione, dagli orientamenti spirituali e dagli studi giuridici.

            La preponderante formazione giuridica regalista del clero agrigentino non si risolveva necessariamente nel legittimismo borbonico, quanto piuttosto in una concezione che vedeva il clero sempre aggrappato ai detentori del potere politico. Non si può infatti dimenticare la devozione per il nuovo governo rivoluzionario e per il governo italiano di Cirino Rinaldi, giudice di monarchia, che era creatura dei Borboni, o di Vincenzo Crisafulli, che diventò subeconomo dei benefici vacanti in Sicilia dopo il 1860.

            Guarino era uomo d’ordine, convinto com’era che ognuno doveva svolgere il suo compito nel rispetto della legittima autorità e della legge. Per la sua formazione giuridica ed ecclesiologica inoltre era fermamente convinto dell’obbligo del potere civile di far osservare le regole ecclesiastiche e, ancora nel 1860, riteneva importante l’intervento regolatore dello stato anche nella vita interna della chiesa soprattutto per la disciplina ecclesiastica.

            Non era mancata anche nel clero agrigentino una ventata di entusiasmo per le nuove idee e per il mito del progresso21. Lo stesso Guarino dichiara di esserne stato contagiato, probabilmente alla vigilia della rivoluzione del 1848. Scriverà infatti nel 1863:

 

                Anch’io, sono già parecchi anni, dubitai se fosse lecito il chiedere: «siamo noi in progresso morale?» quando mi venne in mano un libro picciolo di mole, ma grande di senno e d’esperienza. Il mondo incivilito, diceva egli, è intelligente, ricco, potente, ma è malato: gli manca la morale, gli manca il credere... Sol può salvarlo il maritaggio dello spirito del progresso con la religione! Queste gravi parole mi scossero fortemente.22

 

            Era evidente che la preoccupazione religiosa prevaleva su ogni altra considerazione. Si ritrova in lui la stessa preoccupazione che fu nel can. Domenico Turano e nel clero zelante palermitano, che, pur essendo legati a una cultura cattolico-liberale, dopo il 1848 e le prime leggi eversive cominciarono a nutrire perplessità e dubbi perché le scelte del nuovo regime erano lontane dal realizzare quella armonia che avevano sognato nel tentativo di conciliare fede e progresso. Essi accettavano la libertà politica, purchè non intaccasse il tessuto religioso della società siciliana con l’affermazione di astratti principi di libertà di culto o di libertà in campo morale.

            In questo itinerario il funzionario Giuseppe Guarino si trovava ormai vicino al gruppo di preti zelanti palermitani, ma doveva passare ancora qualche anno perché egli diventasse uno dei più eminenti esponenti di questo clero.

 

 




21 D. De Gregorio, Ottocento ecclesiastico agrigentino, Agrigento 1968.



22 (G. Guarino), Siamo noi in progresso morale?, in “Il Presente”, n. 14, 1863, p.2.






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