Ufficiale di prima classe
Quando al governo borbonico si
sostituì la dittatura garibaldina, Guarino rimase al suo posto presso il
ministero, insostituibile per la sua competenza. E' lui che scrive a nome del
ministro segretario i biglietti di incoraggiamento e di elogio per i buoni
cittadini che organizzavano i funerali “dei nostri prodi liberatori”23.
Godette egli la stima del can. Gregorio Ugdulena che fu ministro per gli affari
del culto nella prodittatura e anche la stima del ministro Raeli24. Il posto
di ufficiale capo del ramo ecclesiastico però non fu dato a lui. Con decreto di
Garibaldi del 12 luglio 1860 il sac. Agostino Rotolo, che era stato uno dei
preti garibaldini più impegnati nella rivoluzione al comando di gruppi di
insorti, fu nominato capo divisione del dipartimento culto e incaricato della
commissione per le provviste ecclesiastiche. Il Guarino invece venne promosso
con decreto prodittatoriale dell’ottobre 1860 “capo sezione proprietario”
presso lo stesso dicastero25. La promozione conferma le testimonianze
di stima che il Guarino godeva anche presso gli uomini del nuovo corso.
Il cambiamento di regime portò
parecchie innovazioni nel rapporto chiesa e stato in Sicilia. Vennero eliminate
le restrizioni alla propaganda degli altri culti, soprattutto valdesi. La legge
diventò più permissiva nel campo della prostituzione, della pornografia, degli
spettacoli. La chiesa non fu più considerata una società privilegiata, rimaneva
però intatta l’impalcatura giurisdizionalista con cui lo stato liberale
intendeva controllare la vita della chiesa. Garibaldi si sedette in trono nella
cattedrale durante la festa di s. Rosalia nel luglio 1860, rivendicando il
titolo di legato papale e lo stesso fece in seguito Vittorio Emanuele. Il
Tribunale di Regia Monarchia riprendeva maggiore consistenza, mentre il governo
rafforzava nuovamente, con l’abolizione del breve Peculiaribus, il controllo sugli atti ecclesiastici dei vescovi,
sui benefici vacanti, sulle nomine ai benefici ecc. In questo modo il governo
poteva favorire e proteggere i preti liberali da qualunque intervento
disciplinare soprattutto dopo che il papa aveva comminato la scomunica nei
confronti dei violatori dello stato pontificio.
Ora però diventava più stridente il
contrasto tra le affermazioni del principio "libera chiesa in libero
stato" e l’esperienza quotidiana che vedeva la struttura ecclesiastica
bloccata da un istituto giuridico come la Legazia e da una infinità di
controlli in nome del diritto di patronato o della tradizione
giurisdizionalista. Il governo borbonico aveva tenuto la maschera del
bigottismo, soprattutto negli ultimi anni, il governo liberale invece non
garantiva più e non appoggiava la chiesa siciliana nelle sue istituzioni e nel
prestigio delle sue leggi presso il popolo e tuttavia pretendeva di tenerla
legata e controllata senza neanche le garanzie dei diritti comuni.
Ancor più sembrava stridente il
contrasto, perché molti elementi del clero secolare e regolare, a differenza di
altre regioni d’Italia, avevano preso parte attiva alla rivoluzione. E
tuttavia, ancora durante il periodo della prodittatura, il governo, retto da
siciliani, manteneva rispetto nei confronti della tradizione religiosa e del
clero. La situazione divenne più insostenibile quando alla prodittatura
garibaldina seguì il governo della Luogotenenza dopo che il plebiscito annesse
in modo incondizionato la Sicilia al Piemonte. L’arrivo dei funzionari
piemontesi che, ignari del paese, ritennero di essere i civilizzatori, portò a
un rafforzamento di una concezione più laica e liberale dello stato che si
differenziava da quella più giurisdizionalista dei funzionari meridionali. Pur
mantenendo una parvenza di governo locale con l’impianto dei suoi ministeri,
gli anni della Luogotenenza furono anni difficili perché si voleva riportare a
solo cambiamento politico un movimento che aveva espresso anche forti
rivendicazioni sociali. Nei confronti del clero deluso dalla rivoluzione la
nuova classe dirigente, che non riusciva a controllare la situazione siciliana,
preferì la linea dura. Il clero fu ritenuto troppo tiepido, se non proprio la
causa del malcontento popolare. Il clero non poteva essere tranquillo quando si
parlava di abolizione delle corporazioni religiose, di enfiteusi forzata solo
dei beni ecclesiastici, quando veniva messo alla berlina nella stampa e nei
teatri per influsso delle forti logge massoniche che si erano istallate a
Palermo sotto il patrocinio di Garibaldi.
Ci furono i primi interventi
repressivi e le prime accuse nell’estate del 1862. Dopo il fallimento
dell’impresa garibaldina in Aspromonte, la repressione si fece più violenta sia
contro il partito d’azione sia contro il clero sospettato di borbonismo e di
alleanza borbonico-repubblicana. In questo contesto va collocata la
testimonianza del nipote del Guarino il quale afferma che lo zio riuscì a
evitare l’arresto di mons. Giovanni Guttadauro, vescovo di Caltanissetta,
ritenuto molto tiepido nei confronti del nuovo regime. Il luogotenente
Alessandro De La Rovere chiamò a Palermo il Guttadauro che si era rifiutato di
cantare il Te Deum per la festa dello
Statuto. Le persone che vollero patrocinare la sua causa, secondo il giornale
cattolico “Il Presente”, furono accolte malissimo col pretesto della libertà di
coscienza26. L’azione del Guarino poté allora essere determinante nella
soluzione di quel problema.
La sua moderazione e prudenza, oltre
che l’assoluta onestà di vita gli attiravano un particolare rispetto. Nei Ricordi storici si racconta un episodio significativo dal quale emerge la
preoccupazione esclusivamente religiosa e morale nel rapporto del Guarino con
gli uomini del governo luogotenenziale:
L’avvocato Malattesi [Maltesi?], allora Ministro e
Vice Direttore di Grazia e Giustizia, ammirando nel Canonico Guarino le belle
qualità morali e dottrinali, che preziosamente l’ornavano, gli entrò in
affettuosa dimestichezza. Un giorno gli disse: «Sig. Canonico, venga qualche
volta a Palazzo, se non altro in segno di gradimento degli inviti del
Luogotenente». «E a che fare? - rispose il Canonico - Verrei ad un solo patto,
che mi facciate trovare una cotta con la stola e col secchietto dell’acqua
benedetta per cacciarvi tutti i diavoli, perché lei, che è galantuomo, deve
averne almeno dieci; poi chi sa quanti, gli altri!». Il ministro, che lo
stimava d’antico tempo, sin da quando frequentavalo per affari di sua
professione, vi rise sopra, ed avendone avuta la occasione, narrò tale aneddoto
al Della Rovere, encomiando il candore e la fermezza di carattere del Canonico
Guarino. Di qui la curiosità del Luogotenente di volerlo conoscere, e la visita
del Guarino in compagnia del ministro Malattesi.
Venuto al Palazzo fu ricevuto dal De La Rovere in
atteggiamento militare all’impiedi. «Eccellenza, son venuto per ringraziarla
delle cortesie fattemi con i suoi inviti per intervenire alle soirées; ma mi
permetta una franca parola! La santità di quest’abito, (mettendo le dita al
petto), mi ha ricordato il dovere di non profittarne». A tali parole il De La Rovere,
facendo un passo indietro, e, figgendo gli occhi al Guarino, ruppe così il
silenzio: «Vi ammiro!... È venuto qualche prete, ma eh!... Avete ragione, fate
bene a starvene in casa, facendomi arrivare i bei rapporti, che leggo sempre
con piacere. Ma avreste difficoltà, Sig. Canonico ad onorarmi domani a
pranzo?». Legato con modi così cortesi, il domani vi si recò col Ministro.
Gl’invitati erano dodici, tutti uomini, e durante il pranzo non si parlò
d’altro che delle belle processioni di Palermo e delle belle stole dei Parroci.
Finalmente il De La Rovere disse da solo al Ministro:
«Vi raccomando di non dare argomenti di
gridare al Canonico; quando grida, grida per la Giustizia. Guardategli la
fronte». E d’allora in poi cominciò a rimettere a lui le pratiche colla
puntata «Al Canonico pel suo parere»;
e quando costui vi scriveva urta coi
Canoni, il Luogotenente scriveva sotto: «Si conservi".27
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