La
guerra degli episcopi
Nel
momento della sua nomina aveva ricevuto, come d’altronde gli altri nuovi
vescovi, istruzioni da parte del card. Antonelli, segretario di stato, sul modo
come doveva comportarsi con il governo47. Qualche giorno dopo riceveva
da Antonelli una lettera nella quale si condannava l’atteggiamento del Capitolo
di Saluzzo che non era conforme alle istruzioni della Segreteria di stato, e
perciò Guarino, inviando la procura per la presa di possesso al vicario
capitolare di Siracusa lo aveva avvertito a non seguire l’esempio di quel
capitolo. La sua devozione e obbedienza alle indicazioni della Sede apostolica
e del papa era pronta fino a dare la vita.
E se questo - scriveva - è un
dovere indispensabile dell’Episcopato intero, i novi eletti siamo altresì
legati da speciale riconoscenza verso il Padre comune dei fedeli e dei pastori,
il quale si degna sollevarci dalla nostra povertà.48
Il
tema della libertà della chiesa era stato molto caro a Guarino dopo che aveva
lasciato il suo impiego presso il ministero di grazia e giustizia e dei culti.
Sul giornale “Il Presente” aveva scritto contro il regalismo e questo spirito
riemergeva ora da vescovo:
Per la tutela poi della libertà della
Chiesa - scriveva nel 1875 alla congregazione del concilio -, nulla ho mai
omesso di ciò che si potesse con vigore osare e con l’aiuto di Dio, fin dal
principio del mio ingresso in questa sede, ho del tutto impedito profanazioni e
abusi intollerabili che già dal 1860 si erano miseramente introdotti, di
mescolare il sacro al profano, di celebrare con rito ecclesiastico feste
proibite che chiamano nazionali, di recitare nelle messe e dopo le litanie
alcune preghiere contro le proibizioni della Chiesa e cose di simil genere, e
con parole dolci ma con tutte le mie forze le ho allontanate senza provocare
alla ribellione l’anima di coloro che erano dalla parte opposta.49
Quando
nel giugno 1875 Guarino stese la sua relazione sullo stato della diocesi, era
già pervenuta ai vescovi siciliani, eletti dalla S. Sede senza il regio exequatur, l’intimazione a lasciare
l’amministrazione della mensa e a sgombrare lo stesso episcopio in quanto il
governo italiano, guidato dalla destra storica, non avendo dato il suo placet alla nomina, dichiarava di non
riconoscere i nuovi eletti, che però da almeno 3 o 4 anni avevano esercitato il loro ministero senza nessun problema
da parte del governo.
Nella
legge delle Guarentigie del 13 marzo 1871 n. 214 il governo italiano aveva
rinunciato, oltre al privilegio della Legazia sicula, anche “al diritto di
nomina o proposta nella collazione dei benefici maggiori” in tutto il regno, al
giuramento dei vescovi, alla collazione dei benefici vacanti (art. 15), all’exequatur e placet regio e a ogni altra forma di assenso governativo per la
pubblicazione ed esecuzione degli atti delle autorità ecclesiastiche (art. 16),
e all’appello per abuso (art. 17). Ma l’art. 16 nell’abolire l’exequatur e il placet regio per la pubblicazione ed esecuzione degli atti delle
autorità ecclesiastiche, stabiliva anche che “fino a quando non sia altrimenti
provveduto nella legge speciale, di cui all’art. 18” - sul riordinamento,
conservazione ed amministrazione delle proprietà ecclesiastiche - “rimangono
soggetti all’exequatur e placet regio gli atti di esse autorità
che riguardano la destinazione dei beni ecclesiastici e la provvista dei
benefici maggiori e minori, eccetto quelli della città di Roma e delle sedi
suburbicarie”. Con un decreto regio provvisorio del 25 giugno 1871 n. 320, in
attesa della legge speciale, si stabilì che “gl’investiti di un Beneficio non
saranno ammessi al possesso del medesimo prima che il loro titolo sia munito
del Regio Exequatur o del Regio Placet. Il decreto veniva attuato
con un regolamento che prevedeva l’intimazione ai vescovi di lasciare gli
episcopi in quanto parte della mensa vescovile.50
Il
Guarino era tra questi. La linea però seguita dal card. Antonelli fu quella di
ignorare questo decreto e di imporre ai vescovi di non chiedere l’exequatur al governo per gli atti di
nomina della Santa Sede. E così si era comportato Guarino, limitatosi solo a
trasmettere la notizia della sua nomina al governo.
Subito
dopo aver ricevuto l’ingiunzione di lasciare l’episcopio, scrisse al papa e al
card. Antonelli per esprimere il suo “indeclinabile attaccamento a Sua Santità
e alla S. Sede Apostolica”.51 Il 19 maggio rispose all’intimazione del
subeconomo regio di Siracusa, scrivendo all’economo generale di Palermo la sua
sorpresa per questa intimazione. Questo economo generale era il sacerdote
Vincenzo Crisafulli di origine agrigentina che era stato uno dei candidati a
ufficiale del ministero del culto durante il periodo borbonico e che poi era
diventato, da acceso regalista, fautore del nuovo regime italiano.
La
meraviglia di Guarino stava nel fatto che la lettera era indirizzata al vicario
capitolare di Siracusa, che non era più in carica dal marzo del 1872, quando il
Guarino aveva preso possesso. L’economo manifestava lagnanza al vicario per
aver ceduto il palazzo arcivescovile all’arcivescovo non riconosciuto dal
governo e, nello stesso tempo, dava ingiunzione di sgombrare l’arcivescovado e
di riconsegnarlo al governo.
Guarino
manifestava la sua meraviglia, perché, nell’atto di prendere possesso del suo
ufficio, aveva scritto al ministro di grazia e giustizia per comunicare la sua
nomina, anche se non inviava le bolle di nomina per ottenere l’exequatur:
Nel dare pertanto a V. E.
notizia della seguita elezione - aveva scritto al ministro - confido, che il
Governo darà gli opportuni provvedimenti a rimuovere qualunque ostacolo, che
possa impedirmi il pieno esercizio del mio pastorale ufficio.52
Il
27 dello stesso mese di quel 1872 il ministro aveva risposto:
Mi è grado assicurare V. E. che
nessuno ostacolo sarà frapposto all’esercizio del suo alto ministero e che il
Governo veglierà perché le leggi, le quali guarentiscono la libertà che a
quello si appartiene, siano scrupolosamente osservate.53
Su
questo il Guarino configurò la sua linea di difesa, contestando che, poiché il
governo conosceva la sua nomina ad arcivescovo di Siracusa, il subeconomo non
poteva fingere che non ci fosse un arcivescovo a Siracusa, inviando la lettera
al vicario capitolare non più in carica da anni. Inoltre il governo con la
lettera del ministro si era impegnato a garantire il libero svolgimento del suo
ministero che ora, con la perdita della casa arcivescovile, ne veniva a subire
detrimento. Se era vero che il vescovo, secondo la legge del 13 maggio 1871,
veniva liberamente eletto dalla Santa Sede e non dal governo, era anche vero
che l’exequatur riguardava solo il
possesso della temporalità, non l’esercizio dell’ufficio. Ma l’episcopio,
secondo Guarino, non era da considerare temporalità, ma casa canonica, casa del
vescovo legata alla cattedrale e perciò necessaria al libero svolgimento del
suo ministero54.
A
parere dell’economo generale Crisafulli sembrava che all’intimazione i vescovi
avrebbero ceduto facilmente, ma a metà maggio la situazione non era secondo le
previsioni, perché i vescovi avevano risposto con documenti di protesta.
Crisafulli era convinto che le proteste erano suggerite dal Vaticano e che
venivano fatte per motivo di coscienza, mostrando così i vescovi di cedere solo
alla forza.55 I più duri, a suo avviso, si mostravano l’arcivescovo di
Siracusa e l’arcivescovo di Palermo. Come segno di cortesia e, per dare ai
vescovi la possibilità di trovarsi un alloggio, l’economo generale concesse una
proroga di quindici giorni, dietro minaccia di deferirli al procuratore
generale del re in caso di inadempienza e, se era il caso, di usare la forza
pubblica per far sgombrare l’episcopio.56
E
mentre l’arcivescovo di Monreale si mostrava disposto a non frapporre ostacoli
e l’arcivescovo Celesia di Palermo prendeva tempo promettendo di presentare al
governo le bolle di nomina, la risposta di Guarino, che nel frattempo era stato
nominato arcivescovo di Messina, fu quella di citare in giudizio l’economo
generale dei benefici vacanti di Palermo, il suo conterraneo Vincenzo
Crisafulli, dichiarando che non avrebbe mai ceduto il palazzo neanche quando
sarebbe stato da lui abbandonato.57 Era convinto della sua tesi che
l’episcopio non faceva parte della temporalità della mensa, ma era da
considerare necessario all’esercizio delle funzioni pastorali del vescovo, come
la cattedrale.58 Si trovavano davanti due antichi allievi del Collegio
dei santi Agostino e Tommaso che aveva prodotto i più accesi fautori del
regalismo siciliano e i più forbiti conoscitori della tradizione giuridica
canonica siciliana, solo che ora militavano su campi contrapposti. Sembrò perciò
a Crisafulli questa una sfida non solo al governo, ma anche a lui stesso.
Telegrafò al subeconomo di Siracusa di procedere allo sgombro del
palazzo.59
A
favore di Guarino intervenne il prefetto di Siracusa, Berardi, perché si
evitasse l’uso della forza dal momento che l’arcivescovo stava per trasferirsi
a Messina; chiese perciò al regio economo una dilazione di 15 giorni per
evitare “spiacevoli richiami”. D’accordo con lui era anche il procuratore
generale del re. Il regio economo allora concesse la proroga di 15 giorni.60
Data
la pertinacia di Guarino a portare la causa in tribunale Crisafulli comunicò
allora al ministro che, finita la proroga, aveva dato ordini al subeconomo di
Siracusa di far sgombrare l’episcopio, e il ministro si mostrò
d’accordo.61
Il
16 luglio avvenne lo sgombro forzato dell’episcopio da parte del subeconomo di
Siracusa assistito dal delegato di P.S. Non c'era stata resistenza materiale,
telegrafò il prefetto al ministro, ma l’arcivescovo aveva dichiarato che cedeva
solo alla forza: “tranquillità perfetta soddisfazione tutta parte”.62
Secondo
una testimonianza del nipote avv. Pietro Guarino, che aveva appreso notizie dal
segretario dell’arcivescovo can. Betagh, l’arcivescovo, uscendo nel cortile del
palazzo, trovò circa trecento lavoratori del porto, appartenenti alla
fratellanza di S. Sebastiano, i quali, armati di bastoni, gridavano minacciosi
che non avrebbero tollerato che il loro pastore lasciasse la sua casa. A questi
si erano uniti molti signori della città, che facevano a gara per offrirgli
ospitalità nelle loro case. Commosso, il Guarino calmò i confrati e ringraziò
per l’ospitalità, ma preferì recarsi nella biblioteca arcivescovile in un
appartamentino annesso all’antico seminario.63 Di questi fatti tuttavia
non si trova traccia nelle relazioni ufficiali delle autorità civili.
Il
giorno 20 Guarino dette notizia dei fatti al card. Antonelli, il quale rispose
di aver dato corso alla lettera scritta dal Guarino al ministro “affinché non
si [potesse] allegare ignoranza della sua traslazione all’arcivescovado di
Messina“; inoltre esprimeva dispiacere per l'atto di forza, ma anche
soddisfazione per il comportamento del Guarino.64
Rimaneva
però in piedi la causa presso il tribunale di Siracusa che si doveva dibattere
il 31 agosto.65 La causa tuttavia subì vari rinvii perché nel frattempo
il Guarino si era trasferito a Messina, tuttavia nell’udienza del 18 gennaio
1876 i difensori dell’arcivescovo dichiararono che avevano mandato di far
cancellare la causa. I legali dell’economato regio si riservarono di prendere
posizione, ma Crisafulli fu del parere di lasciar cadere la causa, “per non
esporre il regio diritto ad una controversia, quantunque sia esso fondato sopra
saldissime basi. L’abbandono da parte del Prelato di quel giudizio - scriveva -
non potrà essere interpretata che nel senso di aver egli riconosciuto la
futilità della sua pretesa”. Il ministero accettò questa soluzione.66
Ma non fu questo il motivo di Guarino perché i suoi argomenti non erano così
peregrini, fondati com’erano sulle ragioni di buon canonista. E' probabile che
non volle spingere sia perché era ormai a Messina, sia per non creare intralci
a una possibile soluzione della questione sul piano diplomatico.
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