Parte II
Or, nel rincontrare
particolarmente i luoghi della civile, egli sentiva un sommo piacere in due
cose: una in riflettere nelle somme delle leggi dagli acuti interpetri astratti
in massime generali di giusto i particolari motivi dell'equità ch'avevano i
giureconsulti e gl'imperadori avvertiti per la giustizia delle cause: la qual
cosa l'affezionò agl'interpetri antichi che poi avvertì e giudicò essere i
filosofi dell'equità naturale; l'altra in osservare con quanta diligenza i
giureconsulti medesimi esaminavano le parole delle leggi, de' decreti del
senato e degli editti de' pretori che interpetrano: la qual cosa il conciliò
agl'interpetri eruditi, che poi avvertì ed estimò essere puri storici del
dritto civile romano. Ed entrambi questi due piaceri erano altrettanti segni,
l'uno di tutto lo studio che aveva egli da porre all'indagamento de' princìpi
del dritto universale, l'altro del profitto che egli aveva a fare nella lingua
latina, particolarmente negli usi della giurisprudenza romana, la cui più
difficil parte è il saper diffinire i nomi di legge.
Studiato che egli ebbe le une ed
altre instituzioni sopra i testi della ragione così civile come canonica, nulla
curando queste che si dicon "materie" da insegnarsi dentro il
cinquennio dell'erudizione legale, volle applicarsi ai tribunali; e dal signor
don Carlo Antonio de Rosa, senatore di somma probità e protettor di sua casa,
fu condotto ad apprendere la pratica del fòro dal signor Fabrizio del Vecchio,
avvocato onestissimo, che poi vecchio morì dentro una somma povertà. E, per
fargli apprender meglio la tela giudiziaria, portò la sorte che poco dipoi fu
mossa lite a suo padre nel Sacro Consiglio, commessa al signor don Geronimo
Acquaviva, la quale egli in età di sedici anni da sé la condusse e poi la
difese in ruota, con l'assistenza di esso signor Fabrizio del Vecchio, con
riportarne la vittoria. La quale dopo aver ragionata, ne meritò lode dal signor
Pier Antonio Ciavarri, dottissimo giureconsulto, consigliere di quella ruota, e
nell'uscire ne riportò gli abbracci dal signor Francesco Antonio Aquilante,
vecchio avvocato di quel tribunale, che gli era stato avversario.
Ma quindi, come da assai molti simili
argomenti, si può facilmente intendere che uomini in altre parti del sapere ben
avviati, in altre si raggirino in miserevoli errori per difetto che non sono
guidati e condotti da una sapienza intiera e che si corrisponda in tutte le
parti. Imperciocché egli, già di mente metafisica, tutto il cui lavoro è
intendere il vero per generi e, con esatte divisioni condotte fil filo per le
spezie de' generi, ravvisarlo nelle sue ultime differenze, spampinava nelle
maniere più corrotte del poetare moderno, che con altro non diletta che coi
trascorsi e col falso. Nella qual maniera più fu confermato da ciò: che, dal
padre Giacomo Lubrano (gesuita d'infinita erudizione e credito a que' tempi
nell'eloquenza sacra, quasi da per tutto corrotta) portatosi il Vico un giorno
per riportarne giudizio se esso aveva profittato in poesia, li sottopose
all'emenda una sua canzone sopra la rosa, la quale sì piacque al padre, per
altro generoso e gentile, che, in età grave d'anni ed in somma riputazione
salito di grande orator sacro, ad un giovanetto che non mai aveva inanzi veduto
non ebbe ritegno di recitare vicendevolmente un suo idillio fatto sopra lo
stesso soggetto. Ma il Vico aveva appreso una tal sorta di poesia per un
esercizio d'ingegno in opere d'argutezza, la quale unicamente diletta col
falso, messo in comparsa stravagante che sorprenda la dritta espettazione degli
uditori: onde, come farebbe dispiacenza alle gravi e severe, così cagiona
diletto alle menti ancor deboli giovanili. Ed in vero sì fatto errore potrebbe dirsi
divertimento poco meno che necessario per gl'ingegni de' giovani, assottigliati
di troppo e irrigiditi nello studio delle metafisiche, quando dee l'ingegno
dare in trascorsi per l'infocato vigor dell'età perché non si assideri e si
dissecchi affatto, e con la molta severità del giudizio, propia dell'età
matura, procurata innanzi tempo, non ardisca appresso mai di far nulla.
Andava egli frattanto a perdere
la dilicata complessione in mal d'eticìa, ed eran a lui in troppe angustie
ridotte le famigliari fortune, ed aveva un ardente desiderio di ozio per
seguitare i suoi studi, e l'animo abborriva grandemente dallo strepito del
fòro, quando portò la buona occasione che, dentro una libreria, monsignor
Geronimo Rocca vescovo d'Ischia, giureconsulto chiarissimo, come le sue opere
il dimostrano, ebbe con essolui un ragionamento d'intorno al buon metodo
d'insegnare la giurisprudenza. Di che il monsignore restò così soddisfatto che
il tentò a volerla andare ad insegnare a' suoi nipoti in un castello del
Cilento di bellissimo sito e di perfettissima aria, il quale era in signoria di
un suo fratello, signor don Domenico Rocca (che poi sperimentò gentilissimo suo
mecenate e che si dilettava parimente della stessa maniera di poesia), perché
l'arebbe dello in tutto pari a' suoi figliuoli trattato (come poi in effetto il
trattò), ed ivi dalla buon'aria del paese sarebbe restituito in salute ed
arebbe tutto l'agio di studiare.
Così egli avvenne, perché quivi
avendo dimorato ben nove anni, fece il maggior corso degli studi suoi,
profondando in quello delle leggi e de' canoni, al quale il portava la sua
obbligazione. E in grazia della ragion canonica inoltratosi a studiar de'
dogmi, si ritruovò poi nel giusto mezzo della dottrina cattolica d'intorno alla
materia della grazia, particolarmente con la lezion del Ricardo, teologo
sorbonico (che per fortuna si aveva seco portato dalla libreria di suo padre),
il quale con un metodo geometrico fa vedere la dottrina di sant'Agostino posta
in mezzo, come a due estremi, tra la calvinistica e la pelagiana e alle altre
sentenze che o all'una di queste due o all'altra si avvicinano. La qual
disposizione riuscì a lui efficace a meditar poi un principio di dritto natural
delle genti, il quale e fosse comodo a spiegare le origini del dritto romano ed
ogni altro civile gentilesco per quel che riguarda la storia, e fosse conforme
alla sana dottrina della grazia per quel che ne riguarda la morale filosofia.
Nel medesimo tempo Lorenzo Valla, con l'occasione che da quello sono ripresi in
latina eleganza i romani giureconsulti, il guidò a coltivare lo studio della
lingua latina, dandovi incominciamento dalle opere di Cicerone.
Ma, vivendo egli ancora
pregiudicato nel poetare, felicemente gli avvenne che in una libreria de' padri
minori osservanti di quel castello si prese tra le mani un libro, nel cui fine
era una critica, non ben si ricorda, o apologia di un epigramma di un
valentuomo, canonico di ordine, Massa cognominato, dove si ragionava dei numeri
poetici maravigliosi, spezialmente osservati in Virgilio; e fu sorpreso da
tanta ammirazione che s'invogliò di studiare sui poeti latini, da quel principe
facendo capo. Quindi, cominciandogli a dispiacere la sua maniera di poetar
moderna, si rivolse a coltivare la favella toscana sopra i di lei prìncipi, Boccaccio
nella prosa, Dante e Petrarca nel verso; e per vicende di giornate studiava
Cicerone o Virgilio overo Orazio, appetto il primo di Boccaccio, il secondo di
Dante, il terzo di Petrarca, su questa curiosità di vederne con integrità di
giudizio le differenze. E ne apprese di quanto in tutti e tre la latina favella
avvanzava l'italiana, leggendo sempre i più
colti scrittori con questo ordine tre volte: la prima per comprenderne l'unità
dei componimenti, la seconda per veder gli attacchi e 'l séguito delle cose, la
terza, più partitamente, per raccôrne le belle forme del concepire e dello
spiegarsi, le quali esso notava sui libri stessi, non portava in luoghi comuni
o frasari; la qual pratica stimava condurre assai per bene usarle ai bisogni,
ove le si ricordava né luoghi loro: che è l'unica ragione del ben concepire e
del bene spiegarsi.
Quindi, leggendo nell'Arte d'Orazio che la suppellettile più
doviziosa della poesia ella si proccura con la lezion de' morali filosofi,
seriosamente applicò alla morale degli antichi greci, dandovi principio da
quella di Aristotile, di cui più soventi fiate su vari princìpi d'instituzioni
civili ne aveva letto riferirsi le auttorità. E in sì fatto studio avvertì che
la giurisprudenza romana era un'arte di equità insegnata con innumerabili
minuti precetti di giusto naturale, indagati da' giureconsulti dentro le
ragioni delle leggi e la volontà de' legislatori; ma la scienza del giusto che
insegnano i morali filosofi, ella procede da poche verità eterne, dettate in
metafisica da una giustizia ideale, che nel lavoro delle città tien luogo
d'architetta e comanda alle due giustizie particolari, commutativa e
distributiva, come a due fabre divine che misurino le utilità con due misure
eterne, aritmetica e geometrica, sì come quelle che sono due proporzioni in
mattematica dimostrate. Onde cominciò a conoscere quanto meno della metà si
apprenda la disciplina legale con questo metodo di studi comunal che si
osserva. Perciò si dovette esso di nuovo portare alla metafisica; ma, non soccorrendolo
in ciò quella d'Aristotile, che aveva appresa nel Suarez, né sapendone veder la
cagione, guidato dalla sola fama che Platone era il principe de' divini
filosofi, si condusse a studiarla da essolui; e, molto dipoi che vi aveva
profittato, intese la cagione perché la metafisica d'Aristotile non lo aveva
soccorso per gli studi della morale, siccome di nulla soccorse ad Averroe, il
cui Comento non fe' più umani e
civili gli arabi di quello che erano stati innanzi. Perché la metafisica
d'Aristotile conduce a un principio fisico, il quale è materia dalla quale si
educono le forme particolari e, sì, fa Iddio un vasellaio che lavori le cose
fuori di sé. Ma la metafisica di Platone conduce a un principio fisico, che è
la idea eterna che da sé educe e crea la materia medesima, come uno spirito seminale
che esso stesso si formi l'uovo: in conformità di questa metafisica, fonda una
morale sopra una virtù o giustizia ideale o sia architetta, in conseguenza
della quale si diede a meditare una ideale repubblica, alla quale diede con le
sue leggi un dritto pur ideale. Tanto che da quel tempo che il Vico non si
sentì soddisfatto della metafisica d'Aristotile per bene intendere la morale e
si sperimentò addottrinare da quella di Platone, incominciò in lui, senz'avvertirlo,
a destarsi il pensiero di meditare un diritto ideale eterno che celebrassesi in
una città universale nell'idea o disegno della providenza, sopra la quale idea
son poi fondate tutte le repubbliche di tutti i tempi, di tutte le nazioni: che
era quella repubblica ideale che, in conseguenza della sua metafisica, doveva
meditar Platone, ma, per l'ignoranza del primo uom caduto, nol poté fare.
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