Parte IV
A capo di altro poco tempo seppe
egli ch'era salita in pregio la fisica sperimentale, per cui si gridava da per
tutto Roberto Boyle; la quale quanto egli giudicava esser profittevole per la
medicina e per la spargirica, tanto esso la volle da sé lontana, tra perché
nulla conferiva alla filosofia dell'uomo e perché si doveva spiegare con
maniere barbare, ed egli principalmente attendeva allo studio delle leggi
romane, i cui principali fondamenti sono la filosofia degli umani costumi e la
scienza della lingua e del governo romano, che unicamente si apprende sui
latini scrittori.
Verso il fine della sua
solitudine, che ben nove anni durò, ebbe notizia aver oscurato la fama di tutte
le passate la fisica di Renato Delle Carte, talché s'infiammò di averne
contezza; quando per un grazioso inganno egli ne aveva avute di già le notizie,
perché esso dalla libreria di suo padre tra gli altri libri ne portò via seco
la Filosofia naturale di Errico
Regio, sotto la cui maschera il Cartesio l'aveva incominciata a pubblicare in
Utrecht. E dopo il Lucrezio avendo preso il Regio a studiare, filosofo di
profession medico, che mostrava non aver altra erudizione che di mattematica,
il credette uomo non meno ignaro di metafisica di quello ch'era stato Epicuro,
che di mattematica non volle già mai sapere. Poiché egli pone in natura un
principio pur di falsa posizione - il corpo già formato, - che soltanto
differisce da quel di Epicuro, che quello ferma la divisibilità del corpo negli
atomi, questo fa i suoi tre elementi divisibili all'infinito; quello pone il
moto nel vano, questo nel pieno; quello incomincia a formare i suoi infiniti
mondi da una casuale declinazion di atomi dal moto allo ingiù del propio lor
peso e gravità, questo incomincia a formare i suoi indefiniti vortici da un
impeto impresso a un pezzo di materia inerte e quindi non divisa ancora, la
quale con l'impresso moto la divida in quadrelli, e, impedita dalla sua mole,
metta in necessità di sforzarsi a muovere a moto retto, e, non potendo per lo
suo pieno, incominci, ne' suoi quadrelli divisa, a muoversi circa il suo centro
di ciascun quadrello. Onde, come dalla casuale declinazione de' suoi atomi
Epicuro permette il mondo alla discrezione del caso, così, dalla necessità di
sforzarsi al moto retto i primi corpicelli di Renato, al Vico sembrava
che tal sistema sarebbe comodo a coloro che soggettano il mondo al fato. E di
tal suo giudizio egli si rallegrò in tempo appresso, che, ricevutosi in Napoli,
e risaputo che la fisica del Regio era di Renato, si erano cominciate a
coltivare le Meditazioni metafisiche
del medesimo. Perché Renato, ambiziosissimo di gloria, sì come - con la sua
fisica machinata sopra un disegno simile a quella di Epicuro, fatta comparire
la prima volta sulle cattedre di una celebratissima università di Europa, qual
è quella di Utrecht, da un fisico medico - affettò farsi celebre tra professori
di medicina; così poi disegnò alquante prime linee di metafisica alla maniera
di Platone - ove s'industria di stabilire due generi di sostanze, una distesa,
altra intelligente, per dimostrare un agente sopra la materia che materia non
sia, qual egli è 'l "dio" di Platone - per avere un giorno il regno
anche tra i chiostri, ne' quali era stata introdotta fin dal secolo undecimo la
metafisica d'Aristotile. Ché, quantunque, per quello che questo filosofo vi
conferì del suo, ella avesse servito innanzi agli empi averroisti, però,
essendone la pianta quella di Platone, facilmente la religion cristiana la
piegò a' sensi pii del di lui Maestro, onde, come ella resse da principio con
la platonica sino all'undecimo secolo, così indi in poi ha retto con la
metafisica aristotelica. E, infatti, sul maggior fervore che si celebrava la
fisica cartesiana, il Vico, ricevutosi in Napoli, udillo spesse volte dire dal
signor Gregorio Calopreso, gran filosofo renatista, a cui il Vico fu molto
caro. Ma, nell'unità delle sue parti, di nulla costa in un sistema la filosofia
di Renato, perché alla sua fisica converrebbe una metafisica che stabilisse un
solo genere di sostanza corporea, operante, come si è detto, per necessità,
come a quella di Epicuro un sol genere di sostanza corporea, operante a caso;
siccome in ciò ben conviene Renato con Epicuro, che tutte le infinite varie
forme de' corpi sono modificazioni della sostanza corporea, che in sostanza son
nulla. Né la sua metafisica fruttò punto alcuna morale comoda alla cristiana
religione, perché, non solo non la compongono le poche cose che egli
sparsamente ne ha scritto, e 'l trattato delle Passioni più serve alla medicina che alla morale; ma neanche il
padre Malebranche vi seppe lavorare sopra un sistema di moral cristiana, ed i Pensieri del Pascale sono pur lumi
sparsi. Né dalla sua metafisica esce una logica propia, perché Arnaldo lavora
la sua sulla pianta di quella di Aristotile. Né meno serve alla stessa
medicina, perché l'uom di Renato dagli anatomici non si ritruova in natura,
tanto che, a petto di quella di Renato, più regge in un sistema la filosofia
d'Epicuro, che non seppe nulla di mattematica. Per queste ragioni tutte, le
quali avvertì il Vico, egli appresso molto godeva con esso seco che quanto con
la lezion di Lucrezio si fe' più dalla parte della metafisica platonica, tanto
con quella del Regio più vi si confermò.
Queste fisiche erano al Vico come
divertimenti dalle meditazioni severe sopra i metafisici platonici e
servivangli per ispaziarvi la fantasia negli usi di poetare, in che si
esercitava sovente con lavorar canzoni, durando ancora il primo abito di
comporre in italiana favella, ma sull'avvedimento di derivarvi idee luminose
latine con la condotta de' migliori poeti toscani. Come sul panegirico tessuto
a Pompeo Magno da Cicerone nell'orazion della legge Manilia, della quale non vi
ha in tal genere orazione più grave in tutta la lingua latina, egli, ad
imitazione delle "tre sorelle" del Petrarca, ordì un panegirico,
diviso in tre canzoni, In lode
dell'elettor Massimiliano di Baviera, le quali vanno nella Scelta de' poeti italiani del signor
Lippi, stampata in Lucca l'anno 1709. Ed in quella del signor Acampora de' Poeti napoletani, stampata in Napoli
l'anno 1701, va un'altra canzone nelle nozze della signora donna Ippolita
Cantelmi de' duchi di Popoli con don Vincenzo Carafa duca di Bruzzano ed or
principe di Roccella; la quale esso compose sul confronto del leggiadrissimo
carme di Catullo Vesper adest, il
quale poi leggé aver imitato innanzi Torquato Tasso con una pur canzone in
simigliante subietto, e 'l Vico godé non averne prima avuto contezza, tra per
la riverenza di un tale e tanto poeta, e perché, ove avesse saputo che era
stato già prevenuto, non arebbe osato né goduto di lavorarla. Oltre a queste,
sull'idea dell'"anno massimo" di Platone, sopra la quale aveva steso
Virgilio la dottissima ecloga Sicelides
musae, compose il Vico un'altra canzone nelle nozze del signor duca di
Baviera con Teresa real di Polonia, la quale va nel primo tomo della Scelta de' poeti napoletani del signor
Albano, stampata in Napoli l'anno 1723.
Con questa dottrina e con questa
erudizione il Vico si ricevé in Napoli come forestiero nella sua patria, e vi
ritruovò sul più bello celebrarsi dagli uomini letterati di conto la fisica di
Renato. Quella di Aristotile, e per sé e molto più per le alterazioni eccessive
degli scolastici, era già divenuta una favola. La metafisica - che nel
Cinquecento aveva allogato nell'ordine più sublime della letteratura i Marsili
Ficini, i Pici della Mirandola, amendue gli Augustini e Nifo e Steuchio, i Giacopi
Mazzoni, gli Alessandri Piccolomini, i Mattei Acquavivi, i Franceschi Patrizi,
ed avea tanto conferito alla poesia, alla storia, all'eloquenza, che tutta
Grecia, nel tempo che fu più dotta e ben parlante, sembrava
essere in Italia risurta - era ella riputata degna da star racchiusa ne'
chiostri; e di Platone soltanto si arrecava alcun luogo in uso della poesia, o
per ostentare un'erudizion da memoria. Si condannava la logica scolastica, e si
appruovava riporsi in di lei luogo gli Elementi
di Euclide. La medicina, per le spesse mutazioni de' sistemi di fisica, era
decaduta nello scetticismo, ed i medici avevano incominciato a stare
sull'acatalepsia o sia incomprendevolità del vero circa la natura dei morbi, e
sospendersi sull'epoca o sia sostentazion dell'assenso a darne i giudizi e
adoperarvi efficaci rimedi; e la galenica, la quale, coltivata innanzi con la
filosofia greca e con la greca lingua, aveva dato tanti medici incomparabili,
per la grande ignoranza dei suoi seguaci di questi tempi era andata in un sommo
disprezzo. Gl'interpetri antichi della ragion civile erano caduti dall'alta
loro riputazione nell'accademia, e salitivi gli eruditi moderni con molto danno
del fòro; perché quanto questi sono necessari per la critica delle leggi
romane, altrettanto quelli bisognano per la topica legale nelle cause di dubbia
equità. Il dottissimo signor don Carlo Buragna aveva riportata la maniera
lodevole del poetare; ma l'aveva ristretta in troppe angustie dentro
l'imitazione di Giovanni della Casa, non derivando nulla o di delicato o di
robusto da' fonti greci o latini o da' limpidi ruscelli delle rime del Petrarca
o da' gran torrenti delle canzoni di Dante. L'eruditissimo signor Lionardo da
Capova aveva rimessa la buona favella toscana in prosa, vestita tutta di grazia
e di leggiadria; ma con queste virtù non udivasi orazione o animata dalla
sapienza greca nel maneggiare i costumi o invigorita dalla grandezza romana in
commuover gli affetti. E, finalmente, il latinissimo signor Tomaso Cornelio co'
suoi purissimi Proginnasmi aveva più
tosto sbigottiti gl'ingegni de' giovani che avvalorati a coltivar la lingua
latina in appresso. Talché, per tutte queste cose, il Vico benedisse non aver
lui avuto maestro nelle cui parole avesse egli giurato, e ringraziò quelle selve,
fralle quali, dal suo buon genio guidato, aveva fatto il maggior corso dei suoi
studi senza niun affetto di setta, e non nella città, nella quale, come moda di
vesti, si cangiava ogni due o tre anni gusto di lettere. E dal comune
traccuramento della buona prosa latina si determinò a maggiormente coltivarla.
Ed avendo saputo che 'l Cornelio non era valuto in lingua greca, né curato
aveva la toscana e nulla o pochissimo si era dilettato di critica - forse
perché avvertito aveva che i poliglotti, per la moltiplicità delle lingue che
sanno, non ne usano mai una perfettamente, e i critici non consieguono le virtù
delle lingue, perché sempre mai si trattengono
a notare i difetti sopra gli scrittori - il Vico deliberò abbandonare la greca,
in cui si era avvanzato dai Rudimenti
del Gressero, che aveva appreso nella seconda de' gesuiti, e la toscana favella
(per la qual ragione non volle mai pur sapere la francesa), e tutto confermarsi
nella latina. Ed avendo egli osservato altresì che con uscire alla luce i lessici
e i comenti la lingua latina andò in decadenza, si risolvé non prender mai più
tal sorta di libri tra le mani, riserbandosi il solo Nomenclatore di Giunio per l'intelligenza delle voci delle arti, e
leggere gli auttori latini schietti di note, con una critica filosofica
entrando nel di loro spirito, siccome avevan fatto gli scrittori latini del
Cinquecento, tra' quali ammirava il Giovio per la facondia e 'l Naugero per la
delicatezza, da quel poco che ne lasciò e, per lo di lui gusto troppo elegante,
ne fa sospirare la gran perdita che si è fatta della sua Storia.
Per queste ragioni il Vico non
solo viveva da straniero nella sua patria, ma anche sconosciuto. Non per tanto
ch'egli era di questi sensi, di queste pratiche solitarie, non venerava da
lontano come numi della sapienza gli uomini vecchi accreditati in iscienza di
lettere e ne invidiava con onesto cruccio ad altri giovani la ventura di
conversarvi. E, con questa disposizione, che è necessaria alla gioventù per più
profittare, e non sul detto de' maestri o maliziosi o ignoranti restare per
tutta la vita soddisfatti di un sapere a gusto ed a misura di altrui, venne
egli primieramente in notizia a due uomini di conto. Il primo fu il padre don
Gaetano di Andrea teatino, che poi morì santissimo vescovo, fratello de'
signori Francesco e Gennaio, entrambi di immortal nome; il quale in un
ragionamento che dentro una libreria con essolui tenne il Vico di storia di
collezioni di canoni, li domandò se esso avesse menato moglie. E,
rispondendogli il Vico che no, quello soggiunse: se egli si volesse far
teatino; a cui questo rispondendo che esso non aveva natali nobili, quello
replicò che ciò nulla importerebbe, perché esso ne arebbe ottenuta dispensa da
Roma. Qui, vedendosi il Vico obbligato da tanta onoranza del padre, uscì colà
che aveva parenti poveri e vecchi, privi di ogni altra speranza; e pure
replicando il padre che gli uomini di lettere erano piuttosto di peso che di
utilità alle famiglie, il Vico conchiuse che forse in esso avverrebbe il
contrario. Allora il padre finì con dire: - Non è questa la vostra vocazione -.
L'altro fu il signor don Giuseppe Lucina, uomo
di una immensa erudizione greca, latina e toscana in tutte le spezie del sapere
umano e divino, il quale, avendo sperimentato il giovine quanto valesse, si
doleva gentilmente che non se ne facesse alcun buon uso nella città, quando a
lui si offerse una bella occasione di promuoverlo: che 'l signor don Niccolò
Caravita, per acutezza d'ingegno, per severità di giudizio e per purità di
toscano stile avvocato primario de' tribunali e gran favoreggiatore de'
letterati, volle fare una raccolta di componimenti in lode del signor conte di
Santostefano, viceré di Napoli, nella di lui dipartenza, la quale fu la prima
che uscì in Napoli nella nostra memoria, e dentro le angustie di pochi giorni
doveva ella essere già stampata. Qui il Lucina, il quale era appo tutti di
somma autorità, proposegli il Vico per l'orazione che bisognava andare innanzi
agli altri componimenti, e, ricevuto da quello l'impiego, il portò a essolui,
mostrandogli l'opportunità di venire con grado in cognizion di un protettor
delle lettere, come esso lo sperimentò grandissimo suo, della qual cosa era
esso giovane per se stesso desiderosissimo. E sì, perché aveva rinnonziato alle
cose toscane, lavorò per quella raccolta una orazion latina sulle stampe
medesime di Giuseppe Roselli, l'anno 1696.
Quindi egli cominciò a salire in grido di letterato, e tra gli altri il signor
Gregorio Calopreso, sopra da noi con onor mentovato, come fu detto di Epicuro,
il soleva chiamare l'"autodidascalo" o sia il maestro di se medesimo.
Dipoi nelle Pompe funerali di donna
Caterina d'Aragona, madre del signor duca di Medinaceli, viceré di Napoli,
nelle quali l'eruditissimo signor Carlo Rossi la greca, don Emmanuel Cicatelli,
celebre orator sacro, la italiana, il Vico scrisse l'orazion latina, che va con
gli altri componimenti in un libro in foglio stampato l'anno 1697.
Poco dopoi, essendo vacata la
cattedra della rettorica per morte del professore, di rendita non più che di
cento scudi annui, con l'aggiunta di altra minor incerta somma che si ritragge
dai diritti delle fedi con le quali tal professore abilita gli studenti allo
studio legale; detto dal signor Caravita che egli illico vi concorresse, ed esso ricusando perché un'altra
pretenzione, che pochi mesi innanzi esso aveva fatta, di segretario della
città, gli era infelicemente riuscita; il signor don Nicolò, avendolo
gentilmente ripreso come uomo di poco spirito (sì come infatti lo è d'intorno
alle cose che riguardano le utilità), li disse che egli attendesse solamente a
farvi la lezione, perché esso ne farebbe la pretenzione. Così il Vico vi
concorse con una lezione di un'ora sopra le prime righe di Fabio Quintiliano
nel lunghissimo capo De statibus
caussarum contenendosi dentro l'etimologia e la distinzion dello
"stato", ripiena di greca e latina erudizione e critica; per la quale
meritò ottenerla con un numero abbondante di voti.
|