Parte VI
Fin dal tempo della prima
orazione che si è rapportata, e per quella e per tutte l'altre seguenti, e più
di tutte per quest'ultima, apertamente si vede che 'l Vico agitava un qualche argomento
e nuovo e grande nell'animo, che in un principio unisse egli tutto il sapere
umano e divino; ma tutti questi da lui trattati n'eran troppo lontani. Ond'egli
godé non aver dato alla luce queste orazioni, perché stimò non doversi gravare
di più libri la repubblica delle lettere, la quale per la tanta lor mole non
regge, e solamente dovervi portare in mezzo libri d'importanti discoverte e di
utilissimi ritrovati. Ma nell'anno 1708, avendo la regia università determinato
fare un'apertura di studi pubblica solenne e dedicarla al re con un'orazione da
dirsi alla presenza del cardinal Grimani viceré di Napoli, e che perciò si
doveva dare alle stampe, venne felicemente fatto al Vico di meditare un
argomento che portasse alcuna nuova scoverta ed utile al mondo delle lettere,
che sarebbe stato un desiderio degno da esser noverato tra gli altri del Bacone
nel suo Nuovo organo delle scienze.
Egli si raggira d'intorno a' vantaggi e disvantaggi della maniera di studiare
nostra, messa al confronto di quella degli antichi in tutte le spezie del
sapere, e quali svantaggi della nostra e con quali ragioni si potessero
schivare, e quelli che schivar non si possono con quai vantaggi degli antichi
si potessero compensare, tanto che un'intiera università di oggidì fosse, per
essemplo, un solo Platone con tutto il dì più
che noi godemo sopra gli antichi; perché tutto il sapere umano e divino
reggesse dapertutto con uno spirito e costasse in tutte le parti sue, sì che si
dassero le scienze l'un'all'altra la mano, né alcuna fusse d'impedimento a
nessuna. La dissertazione uscì l'istesso anno in dodicesimo dalle stampe di
Felice Mosca. Il quale argomento, in fatti, è un abbozzo dell'opera che poi
lavorò: De universi iuris uno principio
ecc., di cui è appendice l'altra De
constantia iurisprudentis.
E perché egli il Vico sempre
aveva la mira a farsi merito con l'università nella giurisprudenza per altra
via che di leggerla a giovinetti, vi trattò molto dell'arcano delle leggi degli
antichi giurisprudenti romani, e diede un saggio di un sistema di
giurisprudenza d'interpretare le leggi, quantunque private, con l'aspetto della
ragione del governo romano. Circa la qual parte monsignor Vincenzo Vidania,
prefetto de' regi studi, uomo dottissimo delle antichità romane, specialmente
intorno alle leggi, che in quei tempi era in Barcellona, con una onorevolissima
dissertazione gli oppose in ciò che il Vico aveva fermo: che i giureconsulti
romani antichi fossero stati tutti patrizi; alla quale il Vico allora
privatamente rispose e poi soddisfece pubblicamente con l'opera De universi iuris ecc., a' cui piedi si
legge la dissertazione dell'illustrissimo Vidania con le risposte del Vico. Ma
il signor Errico Brenckman, dottissimo giureconsulto olandese, molto si
compiacque delle cose dal Vico meditate circa la giurisprudenza; e, mentre
dimorava in Firenze a rileggere i Pandetti
fiorentini, ne tenne onorevoli ragionamenti col signor Antonio di Rinaldo,
da Napoli colà portato a patrocinarvi una causa di un napoletano magnate.
Questa dissertazione uscita alla luce, accresciuta di ciò che non si poté dire
alla presenza del cardinal viceré per non abusarsi del tempo, che molto bisogna
a' principi, fu ella cagione che 'l signor Domenico d'Aulisio, lettor primario
vespertino di leggi, uomo universale delle lingue e delle scienze (il quale
fino a quell'ora aveva mal visto il Vico nell'università, non già per suo
merito, ma perché egli era amico di que' letterati i quali erano stati del
partito del Capova contro di lui in una gran contesa litteraria, la quale molto
innanzi aveva brucciato in Napoli, che qui non fa uopo di riferire), un giorno
di pubblica funzione di concorsi di cattedre, a sé chiamò il Vico, invitandolo
a sedere presso lui; a cui disse aver esso letto "quel libricciuolo"
(perché egli, per contesa di precedenza col lettor primario de' canoni, non
interveniva nelle aperture), "e lo stimava di uomo che non voltava indici
e del quale ogni pagina potrebbe dare altrui motivo di lavorare ampi
volumi". Il qual atto sì cortese e giudizio così benigno di uomo per altro
nel costume anzi aspro che no ed assai parco di lodi, appruovò al Vico una
singolar grandezza d'animo di quello verso di lui; dal qual giorno vi contrasse
una strettissima amicizia, la quale egli continovò fin che visse questo gran
letterato. Frattanto il Vico, con la lezione del più ingegnoso e dotto che vero
trattato di Bacone da Verulamio De
sapientia veterum, si destò a ricercarne più in là i princìpi che nelle
favole de' poeti, muovendolo a far ciò l'auttorità di Platone, ch'era andato nel
Cratilo ad investigargli dentro le origini della lingua greca; e, promuovendolo
la disposizione, nella quale era già entrato, che l'incominciavano a dispiacere
l'etimologie de' gramatici, s'applicò a rintracciargli dentro le origini delle
voci latine, quando certamente il sapere della setta italica fiorì assai
innanzi, nella scuola di Pittagora, più profondo di quello che poi cominciò
nella medesima Grecia. E dalla voce "coelum",
che significa egualmente il "bolino" e 'l "gran corpo
dell'aria", congetturava non forse gli egizi, da cui Pittagora aveva
appreso, avessero oppinato che l'istromento, con cui la natura lavora tutto,
egli sia il cuneo, e che ciò vollero significare gli egizi con le loro
piramidi. E i latini la "natura" dissero "ingenium", di cui è principal propietà l'acutezza; sì che la
natura formi e sformi ogni forma col bolino dell'aria; e che formi,
leggiermente incavando, la materia; la sformi, profondandovi il suo bolino col
quale l'aria depreda tutto; e la mano che muova questo istrumento sia l'etere,
la cui mente fu creduta da tutti Giove. E i latini l'"aria" dissero
"anima", come principio onde l'universo abbia il moto e la vita,
sopra cui, come femmina, operi come maschio l'etere, che, insinuato
nell'animale, da' latini fu detto "animus"; onde è quella volgar
differenza di latine propietà: "anima
vivimus, animo sentimus"; talché l'anima, o l'aria, insinuata nel
sangue sia nell'uomo principio della vita, l'etere insinuato ne' nervi sia
principio del senso; ed a quella proporzione che l'etere è più attivo
dell'aria, così gli spiriti animali sieno più mobili e presti che i vitali; e
come sopra l'anima opera l'animo, così sopra l'animo operi quella che da'
latini si dice "mens", che
tanto vale quanto "pensiero", onde restò a' latini detta "mens animi", e che 'l pensiero o
mente sia agli uomini mandato da Giove, che è la mente dell'etere. Ché se egli
fosse così, il principio operante di tutte le cose in natura dovrebbero essere
corpicelli di figura piramidali; e certamente l'etere unito è fuoco. E su tali
princìpi un giorno, in casa del signor don Lucio di Sangro, il Vico ne tenne
ragionamento col signor Doria: che forse quello che i fisici ammirano strani
effetti nella calamita, eglino non si riflettono che sono assai volgari nel
fuoco; de' fenomeni della calamita tre essere i più meravigliosi, l'attrazione
del ferro, la comunicazione al ferro della virtù magnetica e l'addrizzamento al
polo; e niuna cosa essere più volgare che 'l fomento in proporzionata distanza
concepisce il foco e, in arruotarsi, la fiamma, che ci comunica il lume, e che
la fiamma s'addrizza al vertice del suo cielo: tanto che, se la calamita fosse
rada come la fiamma e la fiamma spessa come la calamita, questa non si
addrizzarebbe al polo ma al suo zenit, e la fiamma si addrizzarebbe al polo,
non al suo vertice: che sarebbe se la calamita per ciò si addrizzi al polo
perché quella sia la più alta parte del cielo verso cui ella possa sforzarsi?
Come apertamente si osserva nelle calamite poste in punte ad aghi alquanto
lunghe, che, mentre s'addrizzano al polo, elleno apertamente si vedono
sforzarsi d'ergere verso il zenit; talché forse la calamita osservata con
questo aspetto, determinata da viaggiatori in qualche luogo dove ella più che
altrove si ergesse, potrebbe dare la misura certa delle larghezze delle terre,
che cotanto si va cercando per portare alla sua perfezione la geografia.
Questo pensiero piacque
sommamente al signor Doria, onde il Vico si diede a portarlo più inoltre in uso
della medicina, perché de' medesimi egizi, i quali significarono la natura con
la piramide, fu particolar medicina meccanica quella del lasco e dello stretto,
che 'l dottissimo Prospero Alpino con somma dottrina ed erudizione adornò. E
vedendo altresì il Vico che niun medico aveva fatto uso del caldo e del freddo
quali li diffinisce il Cartesio: - che 'l freddo sia moto da fuori in dentro,
il caldo, a roverscio, moto da dentro in fuori, - fu mosso a fondarvi sopra un
sistema di medicina: non forse le febbri ardenti sieno d'aria nelle vene dal
centro del cuore alla periferia, che più di quel che conviene a star bene
dilarghi i diametri de' vasi sanguigni turati dalla parte opposta al di fuori;
ed al contrario le febbri maligne sieno moto d'aria ne' vasi sanguigni da fuori
in dentro, che ne dilarghi oltre di quel che conviene a star bene i diametri
de' vasi turati nella parte opposta al di dentro; onde, mancando al cuore, ch'è
'l centro del corpo animato, l'aria che bisogna tanto muoverlo quanto convenga
a star bene, infievolendosi il moto del cuore, se ne rappigli il sangue, in che
principalmente le febbri acute consistono; e questo sia quello "quid divini" che Ippocrate diceva
cagionare tai febbri. Vi concorrono da tutta la natura ragionevoli congetture,
perché egualmente il freddo e 'l caldo conferiscono alla generazion delle cose:
il freddo a germogliare le semenze delle biade
e ne' cadaveri alla ingenerazione de' vermini, ne' luoghi umidi e oscuri a
quella d'altri animali, e l'eccessivo freddo egualmente che 'l foco cagiona
delle gangrene ed in Isvezia le gangrene si curan col ghiaccio; vi concorrono i
segni, nelle maligne, del tatto freddo e de' sudori colliquativi, che dànno a
divedere un gran dilargamento de' vasi escretòri; nelle ardenti, il tatto
infocato ed aspro, che con l'asprezza significa troppo al di fuori essersi i
vari corrugati e stretti. Che sarebbe se quindi restò a' latini, che
riducessero tutti i morbi a questo sommo genere: "ruptum", che vi fosse stata una antica medicina in Italia, che
stimasse tutti i mali cominciassero da vizio di solidi e che portino finalmente
a quello che dicono i medesimi latini "corruptum"?
Quindi, per le ragioni arrecate
in quel libricciuolo che poi ne diede alla luce, s'innalzò il Vico a stabilire
questa fisica sopra una metafisica propia; e con la stessa condotta delle
origini de' latini favellari ripurgò i punti di Zenone dagli alterati rapporti
di Aristotile, e mostrò che i punti zenonistici sieno l'unica ipotesi da
scendere dalle cose astratte alle corpolente, siccome la geometria è l'unica
via da portarsi con iscienza dalle cose corpolente alle cose astratte, di che
costano i corpi; - e, diffinito il punto quello che non ha parti (che è tanto
dire quanto fondare un principio infinito dell'estensione astratta), come il
punto, che non è disteso, con un escorso faccia l'estension della linea, così
vi sia una sostanza infinita che con un suo come escorso, che sarebbe la
generazione, dia forma alle cose finite; - e come Pittagora, che vuole per ciò
il mondo costar di numeri, che sono in un certo modo delle linee più astratti,
perché l'uno non è numero e genera il numero ed in ogni numero dissuguale vi
sta dentro indivisibilmente (onde Aristotile disse l'essenze essere
indivisibili siccome i numeri, ch'è tanto dividergli quanto distruggergli),
così il punto, che sta egualmente sotto linee distese ineguali (onde la
diagonale con la laterale del quadrato, per essemplo,
che sono altrimente linee incommensurabili, si tagliano ne' medesimi punti),
sia egli un'ipotesi di una sostanza inestensa, che sotto corpi disuguali vi
stia egualmente sotto ed egualmente li sostenga. Alla qual metafisica
anderebbero di séguito così la logica degli stoici, nella quale
s'addottrinavano a ragionare col sorite, che era una lor propia maniera di
argomentare quasi con un metodo geometrico; come la fisica, la quale ponga per
principio di tutte le forme corporee il cuneo, in quella guisa che la prima
figura composta, che s'ingenera in geometria, è 'l triangolo, siccome la prima semplice
è 'l cerchio, simbolo del perfettissimo Dio. E così ne uscirebbe comodamente la
fisica degli egizi, che intesero la natura una piramide, che è un solido di
quattro facce triangolari, e vi si accomoderebbe la medicina egiziana del lasco
e dello stretto. Della quale egli un libro di pochi fogli col titolo De aequilibrio corporis animantis ne
scrisse al signor Domenico d'Aulisio, dottissimo quant'altri mai delle cose di
medicina; e ne tenne altresì spessi ragionamenti col signor Lucantonio Porzio,
onde si conciliò appo questi un sommo credito congionto ad una stretta
amicizia, la quale coltivò egli infino alla morte di questo ultimo filosofo
italiano della scuola di Galileo, il quale soleva dir spesso con gli amici che
le cose meditate dal Vico, per usare il suo detto, il ponevano in soggezione.
Ma la Metafisica sola fu stampata in
Napoli in dodicesimo l'anno 1710 presso Felice Mosca, indrizzata al signor don
Paolo Doria, per primo libro del De
antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda. E vi
si attaccò la contesa tra' signori giornalisti di Vinegia e l'auttore, di cui
ne vanno stampate in Napoli in dodicesimo pur dal Mosca una Risposta l'anno 1711 e una Replica l'anno 1712; la qual contesa da
ambe le parti e onorevolmente si trattò, e con molta buona grazia si compose.
Ma il dispiacimento delle etimologie gramatiche, che era incominciato a farsi
sentire nel Vico, era un indizio di ciò onde poi, nelle opere ultime, ritruovò
le origini delle lingue tratte da un principio di natura comune a tutte, sopra
il quale stabilisce i princìpi di un etimologico universale da dar l'origini a
tutte le lingue morte e viventi. E 'l poco compiacimento del libro del
Verulamio, ove si dà a rintracciare la sapienza degli antichi dalle favole de'
poeti, fu un altro segno di quello onde il Vico, pur nell'ultime sue opere,
ritruovò altri princìpi della poesia di quelli che i greci e i latini e gli
altri dopoi hanno finor creduto, sopra cui ne stabilisce altri di mitologia,
co' quali le favole unicamente portarono significati storici delle prime
antichissime repubbliche greche, e ne spiega tutta la storia favolosa delle
repubbliche eroiche.
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