Parte VII
Poco dopoi, fu onorevolmente
richiesto dal signor don Adriano Caraffa duca di Traetto, nella cui erudizione era
stato molti anni impiegato, che egli scrivesse la vita del maresciallo Antonio
Caraffa suo zio; e 'l Vico, che aveva formato l'animo verace, ricevé il comando
perché ébbene pronta dal duca una sformata copia di buone e sincere notizie,
che 'l duca ne conservava. E dal tempo degli esercizi diurni rimanevagli la
sola notte per lavorarla, e vi spese due anni, uno a disporne da quelle molto
sparse e confuse notizie i comentari, un altro a tesserne l'istoria, in tutto
il qual tempo fu travagliato da crudelissimi spasimi ippocondriaci nel braccio
sinistro. E, come poteva ogniun vederlo, la sera, per tutto il tempo che la
scrisse non ebbe giammai altro innanzi sul tavolino che i comentari, come se
scrivesse in lingua nativa, ed in mezzo agli strepiti domestici e spesso in
conversazion degli amici; e sì lavorolla temprata di onore del subbietto, di
riverenza verso i prìncipi e di giustizia che si dee aver per la verità.
L'opera uscì magnifica dalle stampe di Felice Mosca in quarto foglio in un
giusto volume l'anno 1716, e fu il primo libro che con gusto di quelle di
Olanda uscì dalle stampe di Napoli; e, mandata dal duca al sommo pontefice
Clemente undecimo, in un brieve, con cui la gradì, meritò l'elogio di
"storia immortale", e di più conciliò al Vico la stima e l'amicizia
di un chiarissimo letterato d'Italia, signor Gianvincenzo Gravina, col quale
coltivò stretta corrispondenza infino che egli morì (1718).
Nell'apparecchiarsi a scrivere
questa vita, il Vico si vide in obbligo di leggere Ugon Grozio, De iure belli et pacis. E qui vide il
quarto auttore da aggiugnersi agli tre altri che egli si aveva proposti. Perché
Platone adorna più tosto che ferma la sua sapienza riposta con la volgare di
Omero; Tacito sparge la sua metafisica, morale e politica per gli fatti, come
da' tempi ad essolui vengono innanzi sparsi e confusi senza sistema; Bacone
vede tutto il saper umano e divino, che vi era, doversi supplire in ciò che non
ha ed emendare in ciò che ha, ma, intorno alle leggi, egli co' suoi canoni non
s'innalzò troppo all'universo delle città ed alla scorsa di tutti i tempi né
alla distesa di tutte le nazioni. Ma Ugon Grozio pone in sistema di un dritto
universale tutta la filosofia e la filologia in entrambe le parti di questa
ultima, sì della storia delle cose o favolosa o certa, sì della storia delle
tre lingue, ebrea, greca e latina, che sono le tre lingue dotte antiche che ci
son pervenute per mano della cristiana religione. Ed egli molto più poi si fe'
addentro in quest'opera del Grozio, quando, avendosi ella a ristampare, fu
richiesto che vi scrivesse alcune note, che 'l Vico cominciò a scrivere, più
che al Grozio, in riprensione di quelle che vi aveva scritte il Gronovio, il
quale le vi appiccò più per compiacere a' governi liberi che per far merito
alla giustizia; e già ne aveva scorso il primo libro e la metà del secondo,
delle quali poi si rimase, sulla riflessione che non conveniva ad uom cattolico
di religione adornare di note opera di auttore eretico.
Con questi studi, con queste
cognizioni, con questi quattro auttori che egli ammirava sopra tutt'altri, con
desiderio di piegargli in uso della cattolica religione, finalmente il Vico
intese non esservi ancora nel mondo delle lettere un sistema, in cui accordasse
la miglior filosofia, qual è la platonica subordinata alla cristiana religione,
con una filologia che portasse necessità di scienza in entrambe le sue parti,
che sono le due storie, una delle lingue, l'altra delle cose; e dalla storia
delle cose si accertasse quella delle lingue, di tal condotta che sì fatto
sistema componesse amichevolmente e le massime de' sapienti dell'accademie e le
pratiche de' sapienti delle repubbliche. Ed in questo intendimento egli tutto
spiccossi dalla mente del Vico quello che egli era ito nella mente cercando
nelle prime orazioni augurali ed aveva dirozzato pur grossolanamente nella
dissertazione De nostri temporis
studiorum ratione e, con un poco più di affinamento, nella Metafisica. Ed in un'apertura di studi
pubblica solenne dell'anno 1719 propose questo argomento: Omnis divinae atque humanae eruditionis elementa tria: nosse, velle,
posse; quorum principium unum mens, cuius oculus ratio, cui aeterni veri lumen
praebet Deus. E partì l'argomento così: "Nunc haec tria elementa, quae tam existere et nostra esse quam nos
vivere certo scimus, una ilia re de qua omnino dubitare non possumus, nimirum
cogitatione, explicemus. Quod quo facilius faciamus, hanc tractationem
universam divido in partes tres: in quarum prima omnia scientiarum principia a
Deo esse; in secunda, divinum lumen sive aeternum verum per haec tria quae
proposuimus elementa, omnes scientias permeare, easque omnes una arctissima
complexione colligatas alias in alias dirigere et cunctas ad Deum, ipsarum
principium, revocare; in tertia, quicquid usquam de divinae ac humanae
eruditionis principiis scriptum dictumve sit quod cum his principiis
congruerit, verum; quod dissenserit, falsum esse demonstremus. Atque adeo de
divinarum atque humanarum rerum notitia haec agam tria: de origine, de circulo,
de constantia; et ostendam origines omnes a Deo provenire, circulo ad Deum
redire omnes, constantia omnes constare in Deo omnesque eas ipsas praeter Deum
tenebras esse et errores". E vi ragionò sopra da un'ora e più.
Sembrò a taluni l'argomento,
particolarmente per la terza parte, più magnifico che efficace, dicendo che non
di tanto si era compromesso Pico della Mirandola quando propose sostenere
"conclusiones de omni scibili", perché ne lasciò la grande e maggior
parte della filologia, la quale, intorno a innumerabili cose delle religioni,
lingue, leggi, costumi, domìni, commerzi, imperi, governi, ordini ed altre, è
ne' suoi incominciamenti mozza, oscura, irragionevole, incredibile e disperata
affatto da potersi ridurre a princìpi di scienza. Onde il Vico, per darne
innanzi tempo un'idea che dimostrasse poter un tal sistema uscire all'effetto,
ne diede fuora un saggio l'anno 1720, che corse per le mani de' letterati
d'Italia e d'oltremonti, sopra il quale alcuni diedero giudizi svantaggiosi;
però, non gli avendo poi sostenuti quando l'opera uscì adornata di giudizi
molto onorevoli di uomini letterati dottissimi, co' quali efficacemente la
lodarono, non sono costoro da essere qui mentovati. Il signor Anton Salvini,
gran pregio dell'Italia, degnossi fargli contro alcune difficoltà filologiche
(le quali fece a lui giugnere per lettera scritta al signor Francesco Valletta,
uomo dottissimo e degno erede della celebre biblioteca vallettiana lasciata dal
signor Gioseppe, suo avo), alle quali gentilmente rispose il Vico nella Constanza della filologia; altre
filosofiche del signor Ulrico Ubero e del signor Cristiano Tomasio, uomini di
rinomata letteratura della Germania, gliene portò il signor Luigi barone di
Ghemminghen, alle quali egli si ritruovava già aver soddisfatto con l'opera
istessa, come si può vedere nel fine del libro De constantia iurisprudentis.
Uscito il primo libro col titolo De uno universi iuris principio et fine uno
l'istesso anno 1720, dalle stampe pur di Felice Mosca in quarto foglio, nel
quale pruova la prima e la seconda parte della dissertazione, giunsero
all'orecchio dell'auttore obbiezioni fatte a voce da sconosciuti ed altre da
alcuno fatte pure privatamente, delle quali niuna convelleva il sistema, ma
intorno a leggieri particolari cose, e la maggior parte in conseguenza delle
vecchie oppinioni contro le quali si era meditato il sistema. A' quali
opponitori, per non sembrare il Vico che esso
s'infingesse i nemici per poi ferirgli, risponde senza nominargli nel libro che
diede appresso: De constantia
iurisprudentis, accioché così sconosciuti, se mai avessero in mano l'opera,
tutti soli e secreti intendessero esser loro stato risposto. Uscì poi dalle
medesime stampe del Mosca, pur in quarto foglio, l'anno appresso 1721, l'altro
volume col titolo: De constantia
iurisprudentis, nella quale più a minuto si pruova la terza parte della
dissertazione, la quale in questo libro si divide in due parti, una De constantia philosophiae, altra De constantia philologiae; e in questa
seconda parte dispiacendo a taluni un capitolo così concepito: Nova scientia tentatur, donde
s'incomincia la filologia a ridurre a princìpi di scienza, e ritruovando
infatti che la promessa fatta dal Vico nella terza parte della dissertazione
non era punto vana non solo per la parte della filosofia, ma, quel che era più,
né meno per quella della filologia, anzi di più che sopra tal sistema vi si
facevano molte ed importanti scoverte di cose tutte nuove e tutte lontane
dall'oppinione di tutti i dotti di tutti i tempi, non udì l'opera altra accusa:
che ella non s'intendeva. Ma attestarono al mondo che ella s'intendesse
benissimo uomini dottissimi della città, i quali l'approvarono pubblicamente e
la lodarono con gravità e con efficacia, i cui elogi si leggono nell'opera
medesima.
Tra queste cose una lettera dal
signor Giovan Clerico fu scritta all'auttore del tenore che siegue:
"Accepi, vir clarissime, ante perpaucos dies ab ephoro illustrissimi
comitis Wildenstein opus tuum de origine iuris et philologia, quod, cum essem Ultraiecti, vix leviter evolvere potui. Coactus
enim negotiis quibusdam Amstelodamum redire, non satis mihi fuit temporis ut
tam limpido fonte me proluere possem.
Festinante tamen oculo vidi multa et egregia, tum philosophica tum etiam
philologica, quae mihi occasionem praebebunt ostendendi nostris
septentrionalibus eruditis acumen atque eruditionem non minus apud italos
inveniri quam apud ipsos; imo vero doctiora et acutiora dici ab italis quam
quae a frigidiorum orarum incolis expectari queant. Cras vero Ultraiectum
rediturus sum, ut illic perpaucas hebdomadas morer utque me opere tuo satiem in
illo secessu, in quo minus quam Amstelodami interpellor. Cum mentem tuam probe
adsequutus fuero, tum vero in voluminis XVIII "Bibliotecae antiquae et
hodiernae" parte altera ostendam quanti sit faciendum. Vale, vir
clarissime, meque inter egregiae tuae eruditionis iustos aestimatores numerato.
Dabam, festinanti manu, Amstelodami, ad diem VIII septembris MDCCXXII."
Quanto questa lettera rallegrò i
valenti uomini che avevano giudicato a pro dell'opera del Vico, altrettanto
dispiacque a coloro che ne avevano sentito il contrario. Quindi si lusingavano
che questo era un privato complimento del Clerico, ma, quando egli ne darebbe
il giudizio pubblico nella Biblioteca,
allora ne giudicherebbe conforme a essoloro pareva di giustizia; dicendo esser
impossibile che con l'occasione di quest'opera del Vico volesse il Clerico
cantare la palinodia di quello che egli, presso a cinquant'anni, ha sempre
detto: che in Italia non si lavoravano opere le quali per ingegno e per dottrina
potessero stare a petto di quelle che uscivano da oltramonti. E 'l Vico
frattanto, per appruovare al mondo che esso amava sì la stima degli uomini
eccellenti, ma non già la faceva fine e mèta de' suoi travagli, lesse tutti e
due i poemi d'Omero con l'aspetto de' suoi princìpi di filologia, e, per certi
canoni mitologici che ne aveva concepiti, li fa vedere in altra comparsa di
quello con la quale sono stati finora osservati, e divinamente esser tessuti
sopra due subbietti due gruppi di greche istorie dei tempi oscuro ed eroico
secondo la division di Varrone. Le quali lezioni omeriche, insieme con essi
canoni, diede fuori pur dalle stampe del Mosca in quarto foglio l'anno seguente
1722, con questo titolo: Iohannis
Baptistae Vici Notae in duos libros, alterum De universi iuris principio,
alterum De constantia iurisprudentis.
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