Parte VIII
Poco dipoi vacò la cattedra
primaria mattutina di leggi, minor della vespertina, con salario di scudi
seicento l'anno; e 'l Vico, destato in isperanza di conseguirla da questi
meriti che si sono narrati particolarmente in materia di giurisprudenza, li
quali egli si aveva perciò apparecchiati inverso la sua università, nella quale
esso è il più anziano di tutti per ragione di possesso di cattedre, perché esso
solo possiede la sua per intestazione di Carlo secondo, e tutti gli altri le
possiedono per intestazioni più fresche; ed affidato nella vita che aveva
menato nella sua patria, dove con le sue opere d'ingegno aveva onorato tutti,
giovato a molti e nociuto a nessuno; il giorno avanti, come egli è uso, aperto
il Digesto vecchio, sopra del quale
dovevan sortire quella volta le leggi, egli ebbe in sorte queste tre: una sotto
il titolo De rei vindicatione,
un'altra sotto il titolo De peculio, e
la terza fu la legge prima sotto il titolo De
praescriptis verbis. E perché tutti e tre erano testi abbondanti, il Vico,
per mostrare a monsignor Vidania, prefetto degli studi, una pronta facoltà di
fare quel saggio, quantunque giammai avesse professato giurisprudenza, il
priegò che avessegli fatto l'onore di determinargli l'un de' tre luoghi ove a
capo le ventiquattro ore doveva fare la lezione. Ma il prefetto scusandosene,
esso si elesse l'ultima legge, dicendo il perché quella era di Papiniano, giureconsulto
sopra tutt'altri di altissimi sensi, ed era in materia di diffinizioni di nomi
di leggi, che è la più difficile impresa da ben condursi in giurisprudenza;
prevedendo che sarebbe stato audace ignorante colui che l'avesse avuto a
calonniare perché si avesse eletto tal legge, perché tanto sarebbe stato quanto
riprenderlo perché egli si avesse eletto materia cotanto difficile; talché
Cuiacio, ove egli diffinisce nomi di legge, s'insuperbisce con merito e dice
che vengan tutti ad impararlo da lui, come fa ne' Paratitli de' Digesti (De codicillis), e non per altro ei riputa
Papiniano principe de' giureconsulti romani che perché niuno meglio di lui
diffinisca e niuno ne abbia portato in maggior copia migliori diffinizioni in
giurisprudenza.
Avevano i competitori poste in
quattro cose loro speranze, nelle quali come scogli il Vico dovesse rompere.
Tutti, menati dalla interna stima che ne avevano, credevan certamente che egli
avesse a fare una magnifica e lunga prefazion de' suoi meriti inverso
l'università. Pochi, i quali intendevano ciò che egli arebbe potuto, auguravano
che egli ragionerebbe sul testo per gli suoi Princìpi del dritto universale, onde con fremito dell'udienza
arebbe rotte le leggi stabilite di concorrere in giurisprudenza. Gli più, che
stimano solamente maestri della facoltà coloro che l'insegnano a' giovani, si
lusingavano o che, ella essendo una legge dove Ottomano aveva detto di molta
erudizione, egli con Ottomano vi facesse tutta la sua comparsa, o che, su
questa legge avendo Fabbro attaccato tutti i primi lumi degl'interpetri e non
essendovi stato alcuno appresso che avesse al Fabbro risposto, il Vico arebbe
empiuta la lezione di Fabbro e non l'arebbe attaccato. Ma la lezione del Vico
riuscì tutta fuori della loro aspettazione, perché egli vi entrò con una
brieve, grave e toccante invocazione; recitò immediatamente il principio della
legge, sul quale e non negli altri suoi paragrafi restrinse la sua lezione; e,
dopo ridotta in somma e partita, immediatamente in una maniera quanto nuova ad udirsi
in sì fatti saggi cotanto usata da' romani giureconsulti, che da per tutto
risuonano: "Ait lex",
"Ait senatusconsultum",
"Ait praetor", con
somigliante formola "Ait
iurisconsultus" interpetrò le parole della legge una per una
partitamente, per ovviare a quell'accusa che spesse volte in tai concorsi si
ode, che egli avesse punto dal testo divagato, perché sarebbe stato affatto
ignorante maligno alcuno che avesse voluto scemarne il pregio perché egli
l'avesse potuto fare sopra un principio di titolo, perché non sono già le leggi
ne' Pandetti disposte con alcun
metodo scolastico d'instituzioni, e, come egli fu in quel principio allogato
Papiniano, poteva ben altro giureconsulto allogarsi, che con altre parole ed
altri sentimenti avesse data la diffinizione dell'azione che ivi si tratta.
Indi dalla interpretazione delle parole tragge il sentimento della diffinizione
papinianea, l'illustra con Cuiacio, indi la fa vedere conforme a quella
degl'interpetri greci. Immediatamente appresso si fa incontro al Fabbro, e
dimostra con quanto leggiere o cavillose o vane ragioni egli riprende Accursio,
indi Paolo di Castro, poi gl'interpetri oltramontani antichi, appresso Andrea
Alciato; ed avendo dinanzi, nell'ordine de' ripresi da Fabbro, preposto
Ottomano a Cuiacio, nel seguirlo si dimenticò di Ottomano e, dopo Alciato,
prese Cuiacio a difendere; di che avvertito, trappose queste parole: "Sed memoria lapsus Cuiacium Othmano
praeverti; at mox, Cuiacio absoluto, Hotmanum a Fabro vindicabimus".
Tanto egli aveva poste speranze di fare con Ottomano il concorso! Finalmente,
sul punto che veniva alla difesa di Ottomano, l'ora della lezione finì.
Egli la pensò fino alle cinque
ore della notte antecedente, in ragionando con amici e tra lo strepito de' suoi
figliuoli, come ha uso di sempre o leggere o
scrivere o meditare. Ridusse la lezione in sommi capi, che si chiudevano in una
pagina, e la porse con tanta facilità come se non altro avesse professato tutta
la vita, con tanta copia di dire che altri v'arebbe aringato due ore, col fior
fiore dell'eleganze legali della giurisprudenza più colta e co' termini
dell'arte anche greci, ed ove ne abbisognava alcuno scolastico, più tosto il
disse greco che barbaro. Una sol volta, per la difficoltà della voce proghegramménon , egli si fermò alquanto;
ma poi soggiunse: "Ne miremini me
substitisse, ipsa enim verbi antitupía me remorata est"; tanto che
parve a molti fatto a bella posta quel momentaneo sbalordimento, perché con
un'altra voce greca sì propia ed elegante esso si fosse rimesso. Poi il giorno
appresso la stese quale l'aveva recitata e ne diede essemplari,
fra gli altri, al signor don Domenico Caravita, avvocato primario di questi
suppremi tribunali, degnissimo figliuolo del signor don Nicolò, il quale non vi
poté intervenire.
Stimò soltanto il Vico portare a
questa pretensione i suoi meriti e 'l saggio della lezione, per lo cui
universal applauso era stato posto in isperanza di certamente conseguire la
cattedra; quando egli, fatto accorto dell'infelice evento, qual in fatti riuscì
anche in persona di coloro che erano immediatamente per tal cattedra graduati,
perché non sembrasse delicato o superbo di non
andar attorno, di non priegare e fare gli altri doveri onesti de' pretensori,
col consiglio ed auttorità di esso signor don Domenico Caravita, sapiente uomo
e benvoglientissimo suo, che gli appruovò che a esso conveniva tirarsene, con
grandezza di animo andò a professare che si ritraeva dal pretenderla.
Questa dissavventura del Vico,
per la quale disperò per l'avvenire aver mai più degno luogo nella sua patria,
fu ella consolata dal giudizio del signor Giovan Clerico, il quale, come se
avesse udite le accuse fatte da taluni alla di lui opera, così nella seconda
parte del volume XVIII della Biblioteca
antica e moderna, all'articolo VIII, con queste parole, puntualmente dal
francese tradotte, per coloro che dicevano non intendersi, giudica
generalmente: che l'opera è "ripiena di materie recondite, di
considerazioni assai varie, scritta in istile molto serrato"; che infiniti
luoghi avrebbono bisogno di ben lunghi estratti; è ordita con "metodo
mattematico", che "da pochi princìpi tragge infinità di
conseguenze"; che bisogna leggersi con attenzione, senza interrompimento,
da capo a piedi, ed avvezzarsi alle sue idee ed al suo stile; così, col meditarvi
sopra, i leggitori "vi truoveranno di più, col maggiormente innoltrarsi,
molte scoverte e curiose osservazioni fuor di loro aspettativa". Per
quello onde fe' tanto romore la terza parte della dissertazione, per quanto
riguarda la filosofia dice così: "Tutto ciò che altre volte è stato detto
de' princìpi della divina ed umana erudizione, che si truova uniforme a quanto
è stato scritto nel libro precedente, egli è di necessità vero". Per
quanto riguarda alla filologia, egli così ne giudica: "Egli ci dà in
accorcio le principali epoche dopo il diluvio infino al tempo che Annibale
portò la guerra in Italia; perché egli discorre in tutto il corpo del libro
sopra diverse cose che seguirono in questo spazio di tempo, e fa molte
osservazioni di filologia sopra un gran numero di materie, emendando quantità
di errori vulgari, a' quali uomini intendentissimi non hanno punto
badato". E finalmente conchiude per tutti: "Vi si vede una mescolanza
perpetua di materie filosofiche, giuridiche e filologiche, poiché il signor
Vico si è particolarmente applicato a queste tre scienze e le ha ben meditate,
come tutti coloro che leggeranno le sue opere converranno in ciò. Tra queste
tre scienze vi ha un sì forte ligame che non può uom vantarsi di averne
penetrata e conosciuta una in tutta la sua distesa senza averne altresì
grandissima cognizione dell'altre. Quindi è che alla fine del volume vi si
veggono gli elogi che i savi italiani han dato a quest'opera, per cui si può
comprendere che riguardano l'auttore come intendentissimo della metafisica,
della legge e della filologia, e la di lui opera come un originale pieno
d'importanti discoverte".
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