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Giovanbattista Vico
Vita di Giovanbattista Vico scritta da se medesimo

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    • Parte VIII
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Parte VIII

Poco dipoi vacò la cattedra primaria mattutina di leggi, minor della vespertina, con salario di scudi seicento l'anno; e 'l Vico, destato in isperanza di conseguirla da questi meriti che si sono narrati particolarmente in materia di giurisprudenza, li quali egli si aveva perciò apparecchiati inverso la sua università, nella quale esso è il più anziano di tutti per ragione di possesso di cattedre, perché esso solo possiede la sua per intestazione di Carlo secondo, e tutti gli altri le possiedono per intestazioni più fresche; ed affidato nella vita che aveva menato nella sua patria, dove con le sue opere d'ingegno aveva onorato tutti, giovato a molti e nociuto a nessuno; il giorno avanti, come egli è uso, aperto il Digesto vecchio, sopra del quale dovevan sortire quella volta le leggi, egli ebbe in sorte queste tre: una sotto il titolo De rei vindicatione, un'altra sotto il titolo De peculio, e la terza fu la legge prima sotto il titolo De praescriptis verbis. E perché tutti e tre erano testi abbondanti, il Vico, per mostrare a monsignor Vidania, prefetto degli studi, una pronta facoltà di fare quel saggio, quantunque giammai avesse professato giurisprudenza, il priegò che avessegli fatto l'onore di determinargli l'un de' tre luoghi ove a capo le ventiquattro ore doveva fare la lezione. Ma il prefetto scusandosene, esso si elesse l'ultima legge, dicendo il perché quella era di Papiniano, giureconsulto sopra tutt'altri di altissimi sensi, ed era in materia di diffinizioni di nomi di leggi, che è la più difficile impresa da ben condursi in giurisprudenza; prevedendo che sarebbe stato audace ignorante colui che l'avesse avuto a calonniare perché si avesse eletto tal legge, perché tanto sarebbe stato quanto riprenderlo perché egli si avesse eletto materia cotanto difficile; talché Cuiacio, ove egli diffinisce nomi di legge, s'insuperbisce con merito e dice che vengan tutti ad impararlo da lui, come fa ne' Paratitli de' Digesti (De codicillis), e non per altro ei riputa Papiniano principe de' giureconsulti romani che perché niuno meglio di lui diffinisca e niuno ne abbia portato in maggior copia migliori diffinizioni in giurisprudenza.

Avevano i competitori poste in quattro cose loro speranze, nelle quali come scogli il Vico dovesse rompere. Tutti, menati dalla interna stima che ne avevano, credevan certamente che egli avesse a fare una magnifica e lunga prefazion de' suoi meriti inverso l'università. Pochi, i quali intendevano ciò che egli arebbe potuto, auguravano che egli ragionerebbe sul testo per gli suoi Princìpi del dritto universale, onde con fremito dell'udienza arebbe rotte le leggi stabilite di concorrere in giurisprudenza. Gli più, che stimano solamente maestri della facoltà coloro che l'insegnano a' giovani, si lusingavano o che, ella essendo una legge dove Ottomano aveva detto di molta erudizione, egli con Ottomano vi facesse tutta la sua comparsa, o che, su questa legge avendo Fabbro attaccato tutti i primi lumi degl'interpetri e non essendovi stato alcuno appresso che avesse al Fabbro risposto, il Vico arebbe empiuta la lezione di Fabbro e non l'arebbe attaccato. Ma la lezione del Vico riuscì tutta fuori della loro aspettazione, perché egli vi entrò con una brieve, grave e toccante invocazione; recitò immediatamente il principio della legge, sul quale e non negli altri suoi paragrafi restrinse la sua lezione; e, dopo ridotta in somma e partita, immediatamente in una maniera quanto nuova ad udirsi in sì fatti saggi cotanto usata da' romani giureconsulti, che da per tutto risuonano: "Ait lex", "Ait senatusconsultum", "Ait praetor", con somigliante formola "Ait iurisconsultus" interpetrò le parole della legge una per una partitamente, per ovviare a quell'accusa che spesse volte in tai concorsi si ode, che egli avesse punto dal testo divagato, perché sarebbe stato affatto ignorante maligno alcuno che avesse voluto scemarne il pregio perché egli l'avesse potuto fare sopra un principio di titolo, perché non sono già le leggi ne' Pandetti disposte con alcun metodo scolastico d'instituzioni, e, come egli fu in quel principio allogato Papiniano, poteva ben altro giureconsulto allogarsi, che con altre parole ed altri sentimenti avesse data la diffinizione dell'azione che ivi si tratta. Indi dalla interpretazione delle parole tragge il sentimento della diffinizione papinianea, l'illustra con Cuiacio, indi la fa vedere conforme a quella degl'interpetri greci. Immediatamente appresso si fa incontro al Fabbro, e dimostra con quanto leggiere o cavillose o vane ragioni egli riprende Accursio, indi Paolo di Castro, poi gl'interpetri oltramontani antichi, appresso Andrea Alciato; ed avendo dinanzi, nell'ordine de' ripresi da Fabbro, preposto Ottomano a Cuiacio, nel seguirlo si dimenticò di Ottomano e, dopo Alciato, prese Cuiacio a difendere; di che avvertito, trappose queste parole: "Sed memoria lapsus Cuiacium Othmano praeverti; at mox, Cuiacio absoluto, Hotmanum a Fabro vindicabimus". Tanto egli aveva poste speranze di fare con Ottomano il concorso! Finalmente, sul punto che veniva alla difesa di Ottomano, l'ora della lezione finì.

Egli la pensò fino alle cinque ore della notte antecedente, in ragionando con amici e tra lo strepito de' suoi figliuoli, come ha uso di sempre o leggere o scrivere o meditare. Ridusse la lezione in sommi capi, che si chiudevano in una pagina, e la porse con tanta facilità come se non altro avesse professato tutta la vita, con tanta copia di dire che altri v'arebbe aringato due ore, col fior fiore dell'eleganze legali della giurisprudenza più colta e co' termini dell'arte anche greci, ed ove ne abbisognava alcuno scolastico, più tosto il disse greco che barbaro. Una sol volta, per la difficoltà della voce proghegramménon , egli si fermò alquanto; ma poi soggiunse: "Ne miremini me substitisse, ipsa enim verbi antitupía me remorata est"; tanto che parve a molti fatto a bella posta quel momentaneo sbalordimento, perché con un'altra voce grecapropia ed elegante esso si fosse rimesso. Poi il giorno appresso la stese quale l'aveva recitata e ne diede essemplari, fra gli altri, al signor don Domenico Caravita, avvocato primario di questi suppremi tribunali, degnissimo figliuolo del signor don Nicolò, il quale non vi poté intervenire.

Stimò soltanto il Vico portare a questa pretensione i suoi meriti e 'l saggio della lezione, per lo cui universal applauso era stato posto in isperanza di certamente conseguire la cattedra; quando egli, fatto accorto dell'infelice evento, qual in fatti riuscì anche in persona di coloro che erano immediatamente per tal cattedra graduati, perché non sembrasse delicato o superbo di non andar attorno, di non priegare e fare gli altri doveri onesti de' pretensori, col consiglio ed auttorità di esso signor don Domenico Caravita, sapiente uomo e benvoglientissimo suo, che gli appruovò che a esso conveniva tirarsene, con grandezza di animo andò a professare che si ritraeva dal pretenderla.

Questa dissavventura del Vico, per la quale disperò per l'avvenire aver mai più degno luogo nella sua patria, fu ella consolata dal giudizio del signor Giovan Clerico, il quale, come se avesse udite le accuse fatte da taluni alla di lui opera, così nella seconda parte del volume XVIII della Biblioteca antica e moderna, all'articolo VIII, con queste parole, puntualmente dal francese tradotte, per coloro che dicevano non intendersi, giudica generalmente: che l'opera è "ripiena di materie recondite, di considerazioni assai varie, scritta in istile molto serrato"; che infiniti luoghi avrebbono bisogno di ben lunghi estratti; è ordita con "metodo mattematico", che "da pochi princìpi tragge infinità di conseguenze"; che bisogna leggersi con attenzione, senza interrompimento, da capo a piedi, ed avvezzarsi alle sue idee ed al suo stile; così, col meditarvi sopra, i leggitori "vi truoveranno di più, col maggiormente innoltrarsi, molte scoverte e curiose osservazioni fuor di loro aspettativa". Per quello onde fe' tanto romore la terza parte della dissertazione, per quanto riguarda la filosofia dice così: "Tutto ciò che altre volte è stato detto de' princìpi della divina ed umana erudizione, che si truova uniforme a quanto è stato scritto nel libro precedente, egli è di necessità vero". Per quanto riguarda alla filologia, egli così ne giudica: "Egli ci in accorcio le principali epoche dopo il diluvio infino al tempo che Annibale portò la guerra in Italia; perché egli discorre in tutto il corpo del libro sopra diverse cose che seguirono in questo spazio di tempo, e fa molte osservazioni di filologia sopra un gran numero di materie, emendando quantità di errori vulgari, a' quali uomini intendentissimi non hanno punto badato". E finalmente conchiude per tutti: "Vi si vede una mescolanza perpetua di materie filosofiche, giuridiche e filologiche, poiché il signor Vico si è particolarmente applicato a queste tre scienze e le ha ben meditate, come tutti coloro che leggeranno le sue opere converranno in ciò. Tra queste tre scienze vi ha un sì forte ligame che non può uom vantarsi di averne penetrata e conosciuta una in tutta la sua distesa senza averne altresì grandissima cognizione dell'altre. Quindi è che alla fine del volume vi si veggono gli elogi che i savi italiani han dato a quest'opera, per cui si può comprendere che riguardano l'auttore come intendentissimo della metafisica, della legge e della filologia, e la di lui opera come un originale pieno d'importanti discoverte".




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