Parte IV
Né già questo dee sembrar
fasto a taluni: che il Vico, non contento de' vantaggiosi giudizi da tali
uomini dati alle sue opere, dopo le disappruovi e ne faccia rifiuto, perché
questo è argomento della somma venerazione e stima che egli fa di tali uomini
anzi che no. Imperciocché i rozzi ed orgogliosi scrittori sostengono le lor
opere anche contro le giuste accuse e ragionevoli ammende d'altrui; altri che,
per avventura, sono di cuor picciolo, s'empiono de' favorevoli giudizi dati
alle loro e, per quelli stessi, non più s'avvanzano a perfezionarle. Ma al Vico
le lodi degli uomini grandi ingrandirono l'animo di correggere, supplire ed
anco in miglior forma di cangiar questa sua. Così condanna le Annotazioni, le quali per la via
niegativa andavano truovando questi Princìpi,
perocché quella fa le sue pruove per isconcezze, assurdi, impossibilità, le
quali, co' loro brutti aspetti, amareggiano piuttosto che pascono
l'intendimento, al quale la via positiva si fa sentire soave, ché gli
rappresenta l'acconcio, il convenevole, l'uniforme, che fanno la bellezza del
vero, del quale unicamente si diletta e pasce la mente umana. Gli dispiacciono
i libri del Diritto universale,
perché in quelli dalla mente di Platone ed altri chiari filosofi tentava di
scendere nelle menti balorde e scempie degli autori della gentilità, quando
doveva tener il cammino tutto contrario; onde ivi prese errore in alquante
materie. Nella Scienza nuova prima,
se non nelle materie, errò certamente nell'ordine, perché trattò de' princìpi
dell'idee divisamente da' princìpi delle lingue, ch'erano per natura tra lor
uniti, e pur divisamente dagli uni e dagli altri ragionò del metodo con cui si
conducessero le materie di questa Scienza, le quali, con altro metodo, dovevano
fil filo uscire da entrambi i detti princìpi: onde vi avvennero molti errori
nell'ordine.
Tutto ciò fu nella Scienza nuova seconda emendato. Ma il
brevissimo tempo, dentro il qual il Vico fu costretto di meditar e scrivere,
quasi sotto il torchio, quest'opera, con un estro quasi fatale, il quale lo
strascinò a sì prestamente meditarla ed a scrivere, che l'incominciò la mattina
del santo Natale e finì ad ore ventuna della domenica di Pasqua di
Resurrezione; - e pure, dopo essersi stampato più della mettà di quest'opera,
un ultimo emergente, anco natogli da Venezia, lo costrinse di cangiare
quarantatre fogli dello stampato, che contenevano una Novella letteraria (dove intiere e fil filo si rapportavano tutte
le lettere e del padre Lodoli e sue d'intorno a cotal affare con le riflessioni
che vi convenivano), e, 'n suo luogo, proporre la dipintura al frontispizio di
quei libri, e della di lei Spiegazione
scrivere altrettanti fogli ch'empiessero il vuoto di quel picciol volume; - di
più, un lungo grave malore, contratto dall'epidemia del catarro, ch'allora
scorse tutta l'Italia; - e finalmente la solitudine nella quale il Vico vive: -
tutte queste cagioni non gli permisero d'usare la diligenza, la qual dee
perdersi nel lavorare d'intorno ad argomenti c'hanno della grandezza,
perocch'ella è una minuta e, perché minuta, anco tarda virtù. Per tutto ciò non
poté avvertire ad alcune espressioni che dovevano o, turbate, ordinarsi o,
abbozzate, polirsi o, corte, più dilungarsi; né ad una gran folla di numeri
poetici, che si deon schifar nella prosa, né finalmente ad alquanti trasporti
di memoria, i quali però non sono stati ch'errori di vocaboli, che di nulla han
nuociuto all'intendimento. Quindi nel fine di quei libri, con le Annotazioni prime, insieme con le
correzioni degli errori anco della stampa (che, per le suddette cagioni,
dovettero accadervi moltissimi), die' con le lettere M ed A i miglioramenti e
l'aggiunte; e sieguitò a farlo con le Annotazioni
seconde, le quali, pochi giorni dopo esser uscita alla luce quell'opera, vi
scrisse con l'occasione che 'l signor don Francesco Spinelli principale di
Scalea, sublime filosofo e di colta erudizione particolarmente greca adornato,
lo aveva fatto accorto di tre errori, i quali aveva osservato nello scorrere in
tre dì tutta l'opera. Del qual benigno avviso il Vico gli professò
generosamente le grazie nella seguente lettera stampata, ivi aggiunta, con cui
tacitamente invitò altri dotti uomini a far il medesimo, perché arebbe con
grado ricevuto le lor ammende:
"Io debbo infinite grazie a
Vostra Eccellenza, perocché, appena dopo tre giorni che le feci per un mio
figliuolo presentar umilmente un esemplare
della Scienza nuova ultimamente
stampata, Ella, tolto il tempo che preziosamente spende o in sublimi
meditazioni filosofiche o in lezioni di gravissimi scrittori particolarmente
greci, l'aveva già tutta letta: che per maravigliosa acutezza del vostro
ingegno e per l'alta comprensione del vostro intendimento, tanto egli è stato
averla quasi ad un fiato scorsa quanto averla fin al midollo penetrata e 'n
tutta la sua estensione compresa. E, passando sotto un modesto silenzio i
vantaggiosi giudizi ch'Ella ne diede per un'altezza d'animo propia del vostro
alto stato, io mi professo sommamente dalla vostra bontà favorito, perocché
Ella si degnò anco di mostrarmene i seguenti luoghi, ne' quali aveva osservato
alcuni errori che Vostra Eccellenza mi consolava essere stati trascorsi di
memoria, i quali di nulla nuocevano al proposito delle materie che si trattano,
ove son essi avvenuti.
Il primo è a p. 313, v. 19, ove
io fo Briseide propia d'Agamennone e Criseide d'Achille, e che quegli avesse
comandato restituirsi la Criseide a Crise di lei padre, sacerdote di Apollo,
che perciò faceva scempio del greco esercito con la peste, e che questi non
avesse voluto ubidire; il qual fatto da Omero si narra tutto contrario. Ma
cotal error da noi preso era in fatti, senz'avvedercene, un'emenda d'Omero
nella parte importantissima del costume: che anzi Achille non avesse voluto
ubidire, e che Agamennone per la salvezza dell'esercito l'avesse comandato. Ma
Omero in ciò veramente serbò il decoro, che, quale l'aveva fatto saggio, tale
finse il suo capitano anco forte, che, avendo renduto Criseide come per forza
fattagli da Achille, e stimando esserglici andato del punto suo, per rimettersi
in onore tolse ingiustamente ad Achille la sua Briseide, col qual fatto andò a
rovinare un'altra gran parte de' greci: talché egli nell'Iliade vien a cantare
uno stoltissimo capitano, laonde cotal nostro errore ci nuoceva veramente in ciò:
che non ci aveva fatto vedere quest'altra gran pruova della sapienza del finora
creduto, che ci confermava la discoverta del vero Omero. Né pertanto Achille,
che Omero con l'aggiunto perpetuo d'"irreprensibile" canta a' popoli
della Grecia in essemplo dell'eroica virtù,
egli entra nell'idea dell'eroe quale 'l diffiniscono i dotti, perché quantunque
fusse giusto il dolor d'Achille, però - dipartendosi con le sue genti dal campo
e con le sue navi dalla comun'armata, fa quell'empio voto: ch'Ettore disfacesse
il resto de' greci ch'erano dalla peste campati, e gode esaudirsi (siccome, nel
ragionando insieme di queste cose, Vostra Eccellenza mi soggiunge quel luogo
dove Achille con Patroclo desidera che morissero tutti i greci e troiani ed
essi soli sopravivessero a quella guerra) - era la vendetta scelleratissima.
"Il secondo errore è a pag.
314, v. 38, e pag. 315, v. 1, ove mi avvertisce che 'l Manlio, il qual serbò la
ròcca del Campidoglio da' Galli, fu il Capitolino, dopo cui venne l'altro che
si cognominò Torquato, il qual fece decapitar il figliuolo; e che non questi ma
quegli, per aver voluto introdurre conto nuovo a pro della povera plebe, venuto
in sospetto de' nobili che col favor popolare volesse farsi tiranno di Roma,
condennato, funne fatto precipitare dal monte Tarpeo. Il qual trasporto di
memoria sì che ci nuoceva in ciò: che ci aveva tolto questa vigorosa pruova
dell'uniformità dello stato aristocratico di Roma antica e di Sparta, ove il
valoroso e magnanimo re Agide, qual Manlio Capitolino di Lacedemone, per una
stessa legge di conto nuovo, non già per alcuna legge agraria, e per un'altra
testamentaria, fu fatto impiccare dagli efori.
"Il terzo errore è nel fine
del libro quinto, p. 445, v. 37, ove deve dir "numantini" (ché tali
sono quivi da esso ragionamento circoscritti).
Per gli quali vostri benigni
avvisi mi son dato a rileggere l'opera, e vi ho scritto le correzioni,
miglioramenti ed aggiunte seconde."
Le quali annotazioni prime e
seconde, con altre poche ma importantissime, ch'è ito scrivendo interrottamente
come di tempo in tempo ragionava l'opera con amici, potranno incorporarlesi ne'
luoghi ove sono chiamate, quando si ristampi la terza volta.
Mentre il Vico scriveva e
stampava la Scienza nuova seconda, fu
promosso al sommo pontificato il signor cardinal Corsini, al qual era stata la
prima, essendo cardinale, dedicata, e sì dovette a Sua Santità anco questa
dedicarsi. Il quale, essendogli stata presentata, volle, come gli venne
scritto, che 'l signor cardinale Neri Corsini suo nipote, quando ringraziava
l'autore dell'esemplare che questi, senza
accompagnarlo con lettera, gli aveva mandato, gli rispondesse in suo nome con
la seguente:
"Molto illustre signore
"L'opera di Vostra Signoria
de' Princìpi di una Nuova Scienza aveva
già esatto tutta la lode nella prima sua edizione da Nostro Signore, essendo
allora cardinale; ed ora tornata alle stampe, accresciuta di maggiori lumi ed
erudizione dal di lei chiaro ingegno, ha incontrato nel clementissimo animo di
Sua Santità tutto il gradimento. Ho voluto dar a lei la consolazione di questa
notizia nell'atto istesso che mi muovo a ringraziarla del libro fattomene
presentare, del quale ho tutta la considerazione che merita, ed esibendole in
ogni congiontura di suo servizio tutta la mia parzialità, prego Dio che la
prosperi.
"Roma, 6 gennaio 1731.
Di Vostra Signoria affez. sempre
N. CARD. CORSINI"
Colmato il Vico di tanto onore,
non ebbe cosa al mondo più da sperare; onde per l'avvanzata età, logora da tante
fatighe, afflitta da tante domestiche cure e tormentata da spasimosi dolori
nelle cosce e nelle gambe e da uno stravagante male che gli ha divorato quasi
tutto ciò ch'è al di dentro tra l'osso inferiore della testa e 'l palato,
rinnonziò affatto agli studi. Ed al padre Domenico Lodovici, incomparabile
latin poeta elegiaco e di candidissimi costumi, donò il manoscritto delle
annotazioni scritte alla Scienza nuova
prima con la seguente iscrizione:
Al Tibullo cristiano - padre Domenico Lodovici - questi - dell'infelice
Scienza Nuova - miseri - e per terra
e per mare sbattuti - avvanzi - dalla continova tempestosa fortuna - aggitato
ed afflitto - come ad ultimo sicuro porto - Giambattista Vico - lacero e stanco
- finalmente ritragge.
Egli nel professare la sua
facultà fu interessatissimo del profitto de' giovani, e, per disingannargli o
non fargli cadere negl'inganni de' falsi dottori, nulla curò di contrarre
l'inimicizie de' dotti di professione. Non ragionò mai delle cose
dell'eloquenza se non in séguito della sapienza, dicendo che l'eloquenza altro
non è che la sapienza che parla, e perciò la sua cattedra esser quella che
doveva indirizzare gl'ingegni e fargli universali, e che l'altre attendevano
alle parti, questa doveva insegnare l'intiero sapere, per cui le parti ben si
corrispondan tra loro e ben s'intendan nel tutto. Onde d'ogni particolar
materia dintorno al ben parlare discorreva talmente ch'ella fusse animata, come
da uno spirito, da tutte quelle scienze ch'avevan con quella rapporto: ch'era
ciò ch'aveva scritto nel libro De ratione
studiorum, ch'un Platone, per cagion di chiarissimo essemplo,
appo gli antichi era una nostra intiera università di studi tutta in un sistema
accordata. Talché ogni giorno ragionava con tal splendore e profondità di varia
erudizione e dottrina, come se si fussero portati nella sua scuola chiari
letterati stranieri ad udirlo. Egli peccò nella collera, della quale guardossi
a tutto poter nello scrivere; ed in ciò confessava pubblicamente esser
difettuoso: che con maniere troppo risentite inveiva contro o gli errori
d'ingegno o di dottrina o 'l mal costume de' letterati suoi emoli, che doveva
con cristiana carità e da vero filosofo o dissimulare o compatirgli. Però
quanto fu acre contro coloro i quali proccuravano di scemargliele, tanto fu
ossequioso inverso quelli che di esso e delle sue opere facevano giusta stima,
i quali sempre furono i migliori e gli più
dotti della città. De' mezzi o falsi, e gli uni e gli altri perché cattivi
dotti, la parte più perduta il chiamava pazzo, o con vocaboli alquanto più
civili, il dicevano essere stravagante e di idee singolari od oscuro. La parte
più maliziosa l'oppresse con queste lodi: altri dicevano che 'l Vico era buono
ad insegnar a' giovani dopo aver fatto tutto il corso de' loro studi cioè
quando erano stati da essi già resi appagati del loro sapere, come se fusse
falso quel voto di Quintiliano, il qual desiderava ch'i figliuoli de' grandi,
come Alessandro Magno, da bambini fussero messi in grembo agli Aristotili;
altri s'avvanzavano ad una lode quanto più grande tanto più rovinosa: ch'egli
valeva a dar buoni indirizzi ad essi maestri. Ma egli tutte queste avversità
benediceva come occasioni per le quali esso, come a sua alta inespugnabil
rocca, si ritirava al tavolino per meditar e scriver altre opere, le quali
chiamava "generose vendette de' suoi detrattori"; le quali finalmente
il condussero a ritruovare la Scienza nuova. Dopo la quale, godendo vita,
libertà ed onore, si teneva per più fortunato di Socrate, del quale, faccendo
menzione il buon Fedro, fece quel magnanimo voto:
cuius non fugio mortem, si famam assequar,
et cedo invidiae, dummodo absolvar cinis.
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