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Jean de La Fontaine
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  • LIBRO QUINTO
    • XVIII - L'Aquila e il Gufo
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XVIII - L'Aquila e il Gufo

 

L'Aquila e il Gufo un , fatta la pace

e scambiato l'amplesso,

l'una giurò, parola di regina,

e giurò l'altro in fe' di barbagianni,

che non avriano a' danni e alla rovina

de' figli loro congiurato mai.

 

- Conosci i figli miei? - chiese l'uccello

caro a Minerva. - Io no.

 

- Or temo, se distinguerli non sai,

che tu ne faccia un tristo macello.

Voi grandi, per quel poco che ne so,

come gli dèi lassù,

non state a calcolare il meno e il più,

ma fate dei mortali

quel conto che si fa degli stivali.

Oh sì, povero a me

se me li mangi! ... - Amico, orbe', se vuoi

che non tocchi una penna a' figli tuoi,

me li presenti o fammene il ritratto.

 

- Davver? subito fatto.

Sono uccellini belli e graziosini,

che non hanno gli eguali infra gli uccelli.

Se tu li vedi, esclami: “Ecco son quelli”.

In mente ben rimarca

questi segnali e fa' che per tuo mezzo

non entri in casa mia la trista Parca -.

 

Non molto tempo andò

che il barbagianni babbo diventò,

e un ch'egli era fuori per la spesa

l'Aquila venne, e visto in un oscuro

crepaccio d'una grotta, ovver d'un muro

(preciso ancor nol so),

certi uccellacci di sembianza offesa,

goffi, rognosi e cupi e rauchi al canto,

- Questi non son del nostro amico i figli, -

esclama, - e bene io posso

mangiarmeli -. Sì disse, e la grifagna,

che non è ne' suoi pasti pitagorica,

se li rosicchia tutti fino all'osso.

 

Quando il Gufo tornò dalla campagna,

e non trovò di tutti

i figli suoi che l'unghie e i becchi asciutti,

le grida disperate al cielo alzò,

e contro l'assassin lo sdegno e i fulmini

dei numi supplicò.

 

Ma fuvvi chi gli disse: - O barbagianni,

te stesso accusa autor de' tuoi malanni,

o il senso natural, che sempre vuole

chi ne somiglia render belli e amabili.

Meglio per te, se per amor de' tuoi,

non avessi gonfiate le parole.

 

 




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