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Jean de La Fontaine
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  • LIBRO SETTIMO
    • I - Gli Animali malati di peste
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I - Gli Animali malati di peste

 

Un male

terribile, fatale,

che il Ciel forse inventò

per castigar le colpe della terra,

un mal pien di spavento

capace, se va bene,

d'empire i cimiteri in un momento,

la Peste insomma - dirla pur conviene -

faceva agli animali tanta guerra,

che morivan colpiti a cento a cento.

 

Nessuno ormai volea

curarsi d'una vita orrida troppo;

ogni cibo facea fastidio e groppo,

e lupi e volpi ciaschedun vivea

le mani e i piedi in mano;

fuggian le tortorelle per dispetto,

fuggia l'Amor lontano

e fuggia coll'Amor ogni diletto.

 

Allor tenne il Leone un gran consiglio,

e disse: - Amici miei,

poiché davanti al Ciel tutti siam rei

di colpe, ed è perciò che ne castiga,

per toglierci di briga, ecco, direi

che quei che ha più peccato

nella sua vita, sia sacrificato.

 

Il suo sangue (e la storia ci dimostra

che più volte giovò l'espedïente)

forse otterrà la guarigione nostra.

Facciamo orsù l'esame di coscienza

fratelli, e confessiam senza indulgenza

i fatti nostri. Già per parte mia

confesso che provai ghiottoneria

di molti agnelli, poveri innocenti,

e che mi venne fatto per errore

di mangiar qualche volta anche il pastore.

 

Io son pronto a scontar colle mie vene

le colpe mie, se farlo oggi conviene,

ma prima ciaschedun con altrettanta

sincerità confessi, onde il più reo

colla sua vita paghi il giubileo.

 

- Sire, - disse la Volpe, - un sì buon re

al mondo come voi forse non c'è.

Che scrupoli son questi, Maestà,

per quattro canagliucce di montoni?

Non vedo che vi possa esser peccato

a mangiar questa razza di minchioni.

 

No, no, signor, anzi fu un grande onore

a ognun d'essi il sentirsi rosicchiato

dai vostri denti. In quanto a quel pastore,

meritava di peggio in verità,

visto ch'egli osa il titolo di re

vantar sopra le bestie, e non gli va -.

 

A questo dir scoppiâr grandi gli applausi

tra i cortigiani. In quanto ai Tigri, agli Orsi

e agli altri illustri poi non si cercò

il pel nell'ovo e i minimi trascorsi,

dal più ringhioso all'ultimo dei cani

per poco non sembrarono al capitolo

dei santi a cui si può baciar le mani.

 

S'avanza in fine a confessarsi l'Asino

contrito in cor, e confessando il vero,

narra che un giorno, andando

nel fresco praticel d'un monistero,

o fosse tentazione del demonio,

o fame o gola di quell'erba tenera,

brucò dell'erba (e fu cosa rubata

per essere sincero),

ma ne prese soltanto una boccata.

 

Udito ciò, gridarono anatèma

quei santi padri al povero Asinello.

Un Lupo, intinto di teologia,

sorto a parlar sul tema,

mostrò che la cagion della moria

venìa da questo tristo spelacchiato,

che per il suo malfare

bisognava che almen fosse impiccato.

 

Mangiar dell'erba altrui...! ma si può dare

azione più nefanda?

La morte era una pena troppo blanda

per espiarorribile misfatto.

E come disse il giudice fu fatto.

 

Della giustizia quando siede al banco,

sempre il potente come giglio è bianco,

ma se a seder si pone

il poveraccio, è un sacco di carbone.

 

 




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