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Jean de La Fontaine Favole IntraText CT - Lettura del testo |
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XII - Tributo che gli animali mandarono ad Alessandro
Correva ai tempi antichi una leggenda famosa, ch'io non so proprio se meriti d'esser contata; a voi per quel che possa aver di sale, amici, io ve la vendo.
Strombazzato la Fama avea pel mondo che Alessandro, figliuol almo di Giove, nulla volea di ciò che vive in terra lasciar libero più, ma tutte quante render le cose al scettro suo soggette. Quindi ordinato avea che quanti sono popoli a quattro ed a due piè sul globo, elefanti, serpenti, uomini e vermi, e tutta intera dei canori augelli la famiglia, prostrati a' suoi ginocchi, giurasser tutti obbedienza e omaggio.
Va colle cento trombe, e gran spavento diffonde la gran Dea fra gli animali non avvezzi a servir che al capriccioso e natural istinto. Or come mai potranno a nuovo re piegare il collo? Presto fuor delle tane a torme sbucano e nel deserto in assemblea si adunano, e dopo molta agitazione e chiacchiere si vota di obbedire. Dell'omaggio trascritta in cartapecora la formola, alla Scimmia assegnâr la delicata politica di svolgere gli articoli. Quanto al tributo un vicin re, che molte cave d'or possedea, diede i denari fin che si volle. Indi si venne al modo di trasportar il prezioso carico. L'Asino e il Mulo offrirono la schiena e a lor si aggiunse per aiuto in seguito il Destriero e il Cammello. E vanno. Appresso vien la Scimmia, l'illustre diplomatica. E vanno un pezzo, allor che ad un crocicchio incontran l'illustrissimo Leone, (almen commendator) che dice: - O bravi, ben trovati! viaggio anch'io, signori, per quelle parti e vo a pagar la tassa: anzi, fatemi grazia, ove non pesi troppo, di prender questo mio fardello un po' per uno infino alla città. Così potrò più libero e più pronto difendervi, se mai ne assalti alcuna delle bande che infestan questi boschi -.
Ad un Leon non si usa dir di no. Anzi vien ricevuto con rispetto, e sollevato, e corteggiato; e vanno superbi di servir a un'Eccellenza, che alla barba di Giove e di suo figlio, grasso e beato del suo bel far nulla, vive sui fondi della cassa pubblica.
Arrivan finalmente a un praticello tutto smaltato a variopinti fiori, tra ruscelli scorrenti, ove le mandre lieta fanno sul pascolo la vita, tranquillo albergo di soavi aurette. Quivi accusa il Leon non so qual foco che gli brucia le viscere e, piangendo, - Lasciate, - dice, - ch'io rimanga in questo luogo tranquillo a risanar la febbre. Andate voi, lasciatemi soltanto per le occorrenze il mio denar -. Si tolgono, si slegano i sacchetti e - O vista! - esclama il Leon, che di giubilo saltella, - ve', ve', quanti figlioli a me le doppie han generato, e già, guardate, amici, molti son grandicelli e poco meno delle madri. Il prodotto è roba mia... - E sì dicendo, tutto l'oro acciuffa.
La Scimmia e gli altri restano sì scossi, che non osan fiatar. Indi ripresa lemme lemme la strada, ad Alessandro chiedon ragione. - Ad Alessandro? e come avria potuto render lor giustizia? È ben che il ladro mai non rubi al ladro, dice il proverbio, e poi si sa da un pezzo: Leon non mangia carne di Leone.
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