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Jean de La Fontaine
Favole

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  • LIBRO SETTIMO
    • XII - Chi corre dietro alla Fortuna e chi l'aspetta in letto
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XII - Chi corre dietro alla Fortuna e chi l'aspetta in letto

 

Ognun si affanna a correre sull'orme

della Fortuna, inutilmente. In luogo

esser vorrei dove la turba passa

di questi irrequïeti cortigiani,

che la Diva volubile del caso

di terra in terra inseguono e sul punto

d'afferrarne la chioma, ecco, si scioglie

dalle mani il fantasma agile e sfuma.

 

Povera gente! io la compiango. I matti

chiedon pietà, non ira. - E perché dunque, -

dicon costor, - se altri ha potuto un giorno

lasciar la zappa ed i piantati cavoli,

e sul trono salir di Santa Chiesa,

non io potrò lo stesso? e non son io

forse da tanto? - Anzi tu sei, - rispondo, -

più degno ancor, ma la virtù non vale,

se la cieca Fortuna anche non giova.

 

E quando pur tu diventassi il papa

di Santa Chiesa, amico, e ti lusinghi

che valga la tïara il bel riposo

che tu perdi per via? dolce riposo,

che fu prezioso dono anche agli Dèi,

e che mal si accompagna alla fortuna?

O ciechi, il tanto affaticar che giova?

Fortuna e dormi, e se Fortuna è donna,

quantunque dea, verrà ben da se stessa,

come vuole il suo sesso, a ricercarti -.

 

Furon due buoni amici in un villaggio,

che possedevan qualche terra al sole.

L'uno sempre in sospiri ed in corruccio

colla Fortuna, un dì fe' la proposta

al suo compagno di lasciar il borgo

natio, dove nessun nasce profeta,

e di cercar lontan nuove avventure.

 

- Va' pur, - disse costui, - se la ti gira,

per me sto a casa mia comodo e cheto

e non cerco altro ciel, altro emisfero.

Qui spero di dormir fino a quel giorno

che ti vedrò tornato; or dunque addio -.

 

Parte l'amico ambizïoso (forse

più avaro ancor), e va per monti e valli,

infin che arriva ove la dea bizzarra

facea suoi giochi, più che altrove, in Corte.

 

Ivi stette un buon pezzo il cortigiano

attento all'ore più propizie, pronto

al mattutin omaggio, pronto all'ora

della mensa regale, ed alla sera;

ma non gli cadde in bocca una nocciòla.

 

- Che significa ciò? - disse. - Quest'aria

non è per me. Cerchiam altro paese.

Ben veggo la Fortuna innanzi e indietro

correr le sale e aprir la porta a questo,

ed ora a quello, e a me la capricciosa

non guarda in viso. Aver troppe superbe

idee pel capo nuoce ai cortigiani

abitatori delle illustri sale.

 

Signori e Corte, io vi saluto, addio.

A voi lascio inseguir questo fantasma

che fa di luminello, e poi che sento

che Fortuna ha divoti santuari

verso Calcutta, in pio pellegrinaggio

andrò laggiù -. Ciò detto, ecco s'imbarca

e solca il mar.

Oh! ben ebbe di bronzo

il petto, ed ebbe adamantino usbergo,

colui che primo osò sfidar l'abisso

e le mobili vie dell'Oceàno.

 

Al nostro pellegrin tornò la dolce

memoria del natìo suo paesello,

quando fra venti, e scogli e fra ladroni,

nella gran solitudine dell'acque

danzar vicino a sé vide la Morte.

 

Giunto a Calcutta, ascolta che Fortuna

era andata al Giappone ed ei vi corre,

e corre tanto che a portarlo i mari

erano stanchi. Ancor tutto il vantaggio

ch'ei ne trasse fu quel che in un proverbio

selvaggio è detto: “O di natura esperto,

statti a ca' tua”. Pel nostro vagabondo

non fu di grazie Jeddo generosa

più di Calcutta, ed ei ne venne al conto

che il mondo non valea del suo tranquillo

villaggio la casetta. E torna e piange

di conforto a veder la vecchia casa

e - Beato, - ripete, - o veramente

beato l'uom, che del suo nido all'ombra

i desideri suoi frena e corregge.

 

 




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