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Jean de La Fontaine
Favole

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  • LIBRO NONO
    • VI - Lo Scultore e la Statua di Giove
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VI - Lo Scultore e la Statua di Giove

 

- Lapide, o vaso, o statua, -

uno scultor diceva allo scalpello, -

traggi da questo bello

blocco di marmo candido.

 

Lapide o vaso...? All'opera immortale

sia tema il dio, che stringe in man la folgore

agli uomini fatale;

ecco che il ciglio ei muove,

temete, o vivi, l'apparir di Giove -.

 

Sì ben trasse l'artefice

l'immagine del Nume che l'accende,

che ognuno che la mira

esclama: - Essa respira! -.

E tanta meraviglia egli ne prende,

che quasi esterrefatto

teme di ciò che ha fatto.

 

Come costui per opra di scalpello

non men provò sgomento

il poeta quel dì che in suo cervello

previde lo spavento

e l'odio e degli dèi l'amor, lo zelo

da lui creati e collocati in cielo.

 

Temer per un nonnulla

è dei poeti e non è men dei semplici

fanciulli, sempre in ansia ed in affanno

che s'infranga il gioiel che li trastulla.

 

È fantasia che il cor tragge all'inganno,

onde le tante favole

che per il mondo vanno.

 

Di qui nacque degli idoli

il culto, a cui si strinsero

siccome a cose salde i ciechi popoli.

E ciò mi spiega, o Pigmalion, siccome

tu divenissi adorator di quella,

che uscì dalla tua man Venere bella.

 

Ciascun i sogni suoi

di colorir procura,

per la menzogna si diventa eroi

e il vero fa paura.

 

 




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