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Jean de La Fontaine Favole IntraText CT - Lettura del testo |
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X - Il Pastore e il Re
A due maligni spiriti il mortale offre l'incenso e mette in lor balìa la vita e il cor, onde Ragion si parte da casa nostra. Vuoi saperne il nome? Ambizïon, Amor, ecco i diavoli che fan del viver nostro aspro governo. Quella, potente più d'Amor, distende ampio il dominio, e dell'Amor fin anco, come vo' dimostrar, usurpa il trono.
Narra una storia del buon tempo antico e non di questo, in cui viviam, men bello, che fu già un Re, che visto in mezzo a un prato allegramente pascolar un gregge e sano e bello e grazie alle indefesse cure del suo Pastor molto fiorente: - Amico, - disse a lui, - per arte e studio d'esser pastore d'uomini sei degno. Lascia dunque l'armento e vieni e reggi, ministro di giustizia, uomini e stati -.
E detto fatto, ecco il Pastor seduto colla bilancia in man. D'uomini al mondo non conoscea che un piccolo eremita, e il suo saper non iva oltre alle pecore, ai lupi, ai cani; ma il buon senso in lui era maestro, e col buon senso, amici, vien tutto il resto. Così fu. D'impaccio ben si togliea, quand'ecco l'eremita gli venne innanzi a predicar: - Fratello, fratel, che veggo io mai? sogno o son desto? Tu grande, tu ministro? ahi poveretto! Non fidarti dei re. Varia fortuna è l'umor dei potenti; ah! troppo cara si paga poi, ché a voli repentini sogliono i precipizi esser vicini -.
Sorrise il buon Pastor. E l'eremita, seguitando la predica, soggiunse: - Non credere all'inganno che seduce, ma credi a me, fratello. Adulazione già ti guasta il cervello, e mi ricordi colui che visto assiderato in terra un serpente, credendolo un frustino, poi che perduto avea da tempo il suo, lo raccolse e ne rese grazie al cielo. Ma un passeggier gli disse: “O Dio, gettate lungi da voi quell'animal perverso: è un serpente”. “È un frustino.” “Io vi ripeto ch'egli è un serpente, e che m'importa il fiato sprecar per voi? volete il bel tesoro custodir, miserabile?” “Sicuro, il mio frustino non valea due soldi e questo è nuovo. È invidia che in voi canta.” Ma il testardo pagò ben presto il fio, che il feroce animal, sciolte le membra, al suo padrone morsicò con tanta ira la man, ch'ei ne perdette i giorni. Fratello, guarda che non torni in peggio la tua semplicità. - Quali malanni peggiori della morte? - E l'eremita: - Quali? vedrai, ma sarà tardi. Addio -.
Non molto dopo ecco comincia il principe, da segreti eccitato odi e da invidie, del cuore a dubitar non che del merito di questo in prima celebrato giudice. Nascon raggiri, cabale si ordiscono, muovon accuse e già di lui si mormora che di ricchezze confiscate ha colmo un suo palagio e che rinchiuso a dieci chiavi egli tien un gran tesor di gemme dentro uno scrigno. Allora il mio Pastore apre lo scrigno di sua man e, oh vista! Come scornati innanzi a lui rimasero maligni e accusatori! Entro la cassa erano i vecchi cenci del buon uomo, un cappello, una giubba, un cesto, un curvo bastone e, credo, un'umile zampogna.
- Dolce tesor, - ei disse, - o cari oggetti, che non tiraste mai della menzogna e dell'invidia i fulmini, venite. Usciam da questo splendido palagio come si esce da un sogno. A me perdono date, o mio Sire, se dal cor trabocca la mia parola, ma, venendo in Corte, già questo giorno avea previsto e l'ora in cui sarei caduto, e se la merita la nostra vanità; ma quanti al mondo non hanno un picciol grano nel cervello di stolta vanità? Palagio, addio.
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