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Jean de La Fontaine
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  • LIBRO DECIMOSECONDO
    • XI - L'Aquila e la Gazza
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XI - L'Aquila e la Gazza

 

Dall'aria la regina, io dico l'Aquila,

in compagnia di monna Berta un giorno

(sì diverse fra lor di vesti e d'anima)

volavan d'un bel prato verde intorno.

 

Giunte in un luogo alquanto solitario,

la Gazza ebbe timor; ma la Signora,

che si sentiva per quel giorno sazia,

con parole amorose la rincora.

 

Poi dice: - Se il buon Dio dentro le nuvole

s'annoia a contemplar le stelle e il sole,

anch'io posso annoiarmi che son l'Aquila

sua serva... Orsù, scambiam quattro parole.

 

Discorriamo, rompiam questa tetraggine,

sorella mia, con qualche fatterello -.

E volentier ciarlò Gazza pettegola,

qua e là mettendo il becco, in questo, in quello.

 

Quel tal ciarlon di cui racconta Orazio,

che il bene e il mal dicea d'ogni persona,

non sapeva che cosa fosse chiacchiera

di fronte a questa Gazza cicalona.

 

Ella ch'è buona spia, tosto s'incarica

di riferir le grandi novità,

ascoltando, girando, e quindi all'Aquila

ridirà tutto ciò ch'ella saprà.

 

Ma l'Aquila, che già freme di collera,

- Addio, - grida, - ciarlona, resta qui:

non voglio alla mia corte una pettegola -;

e con piacer dell'altra sen partì.

 

Seder presso gli dèi non è sì facile,

come si crede, e costa immenso affanno.

Ciarloni, spie, persone a fondo doppio

a stento il posto lor vi troveranno.

 

 




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