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Jean de La Fontaine
Favole

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  • LIBRO DECIMOSECONDO
    • XIII - La Volpe, le Mosche e il Riccio
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XIII - La Volpe, le Mosche e il Riccio

 

Sulle piaghe e sul sangue una ferita

Volpe, dei boschi vecchia abitatrice,

fuggendo, si traea quel parassita,

che in linguaggio volgar mosca si dice.

 

Ed accusava col destin gli dèi,

che a quella fin volesser condannarla...

È dura, che una Volpe come lei

dovessero le Mosche anche mangiarla!

 

- A sciami ecco si gettano, - dicea, -

su me, che son dei boschi la padrona,

e Dio la coda inutilmente crea,

se di cacciarle adesso non son buona.

 

È dunque questa coda inutil peso?

Oh! maledica il ciel questo importuno

animal, che ti succhia il corpo offeso

e dovrebbe succhiare un po' per uno -.

 

Rispose al malinconico lamento

un nuovo personaggio, il Riccio, il quale

d'infilzare si offriva a cento a cento

le Mosche colla punta dello strale:

 

- Poveretta, così libero te

da queste bestie che non han pietà...

- No, no, se tu lo fai, povera me! -

gridò la Volpe, - lascia, in carità...

 

lascia che mangin queste che son piene;

se le cacci dal corpo mio piagato,

un altro sciame subito ne viene

più feroce che ancor non ha mangiato -.

 

Aristotele aggiunse un po' di frangia

a questa fiaba e disse per morale

che il mondo è pien di gente che ci mangia,

cortigiani, avvocati e gente tale,

che nel paese nostro mangian meno

solo quando ciascuno ha il ventre pieno.

 

 




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