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Pietro Aretino La Talanta IntraText CT - Lettura del testo |
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Se non che io non voglio esser tenuto un pazzo, certo ch'io userei le risa in cambio de le parole, e ridendo quando debbo parlare, mi tacerei di rimetter le genti in quelle esclamazioni, con le quali affermavano, che i Sempiterni non farebbono e non direbbono, allegando la varietà de le fantasie, come che il mutar proposito non fosse proprio de la gioventù; e mentre han men creduto che ci facciamo onore, si son più mossi a credere che ci doviamo onorare; e che sia il vero, ne l'accennare io, che sono il minimo de la compagnia, d'aprir la bocca, l'ho chiusa a tutti. Onde basta ciò a far fede de la riputazione de la festa e de l'autorità nostra. Ma lasciando da parte la lode de l'apparato che vedete, e la qualità de la Commedia che udirete, dicovi che iersera mi ritrovai in un trebbio di teste buse da vero e di capi sventati da senno, i quali per mezzo de' lor giardini in aria erano tutti assunti al Principato; e perché io stando in sul satrapo, non volli che le chimere m'imbarcassino, non fui sì tosto in letto, che volai dormendo, dove non seppi trottar veggiando. Io, mentre russava da zappatore, fui portato dal sogno in Cielo; nel quale tosto che io giunsi, sento che le Stelle mi dicono: poi che tu sei qui, deliberiamo che tu diventi un Dio, o una Dea di quelle che ci sono, sì che eleggiti quel che più ti piace, che quel sarai. Io, udendo ciò, gli risposi che non voleva esser Marte, perché oltre il grillo che mi monterebbe ne lo intendere con che bravura di voce eroica ogni Cibeca dimanda cavalli e fanti, trarrei l'armi in un destro; e nel vedere come ciascuno, che sa farsi vela del pennacchio, accotonarsi la barba, mandar giù le calzette e diguazzar la spada, vuol esser quel signor Giovanni de' Medici, che è impossibile a parere, svergognerei così nobile arte. Né manco m'andò a gusto il trasfigurarmi in Giove, però che nel rimescolarmisi de' suoi fulmini in mano, non mi sarei mai tenuto di non ismorbare di chieriche il mondo, che sarebbe suto un peccato. Rifiutai l'ufficio del Sole per non gir sempre ramingo, con la giunta d'avere la state a scorticare i villani, e il verno a spidocchiare i furfanti. De la Luna accennai che non mi si parlasse conciossiaché non mi mancarebbe altro che i càncari e le giandusse, che nel suo voltare mi manderiano i dogliosi e gli infermi, e nel suo rilucere i ladri e gli amanti. Anche. il fatto di Venere ricusai, perché se mi fusse venuto in animo di cavarmi qualche vogliuzza, la paura de l'esser grappata da le reti di Vulcano m'avrebbe tenuta. Mi feci beffe del profferirmisi il luogo di Mercurio, sì per vergognarmi di far l'arte del corriero, sì per non avere ad infondere l'eloquenza nel bue de' Ciceroni salvatichi. Per simigliarsi Saturno ora a la morte et ora ad un segator di fieno, lasciai l'essere di se stesso a sé medesimo. Mi pubblicavano per Nettuno, se io non gridava: non m'intricate con la bestialità de' venti, con le maladizioni de le ciurme, col recere de le budella. Fui per consentire a lo stato di Plutone, solo per suffriggere a mio beneplacito venticinque padellate d'ipocritoni, ribaldoni, ghiottoni. Feci vista che non si dicesse a me, nel parlarmisi di farmi la Sorte, perocché ogni barbagianni, che precipita per sua mera poltroneria, si scusa con dar la colpa a la Fortuna. Ancora che, nel propormisi il grado di Titone, mi si allegasse il godere di quella buona spesa de l'Aurora, non ci consentii, perché mi parrebbe strano che tal ninfa fusse la notte mia, et il giorno del popolo. Pensate voi il ceffo ch'io gli mostrai, nel pensarsi ch'io volessi diventar Bacco, protettore de' briachi et idolo de le taverne. Non mi piacque d'esser Imeneo, padrino ne' duelli matrimoniali, per non aver materia di bandire il fatto di quelle spose, che nel primo assalto, dandola a gambe per camera, fanno far la Maddalena a' mariti. Sprezzai la condizion di Giunone, per non avere tutto dì a combattere col nuvolo e col sereno. Di Minerva non mi si aprì bocca, perché io vorrei prima custodire un sacco di pulci, che la memoria di qualunque si sia. Mi fu motteggiato di locarmi nel seggio di Momo, Iddio de la riprensione, ma ci serrai le orecchie, avvenga che chi brama d'acquistarsi il nome del più scellerato uomo che viva, dica il vero. Insomma, venutosi in sul caso di ser Cupido, ci diedi subito il sì, e dandocelo, mi sentii l'ale a le spalle, il turcasso al fianco e l'arco, in mano e così io già tutto ferro, e tutto fuoco, desideroso di sapere ciò che si fa in amore, do d'una occhiata a le turbe che amano; onde veggo chi ha la posta, chi è piantato, chi si raggira intorno la casa de l'amica, chi v'entra per la dritta, chi si aggrappa per le mura, chi vi monta con la scala di corda, chi salta de le finestre, chi s'asconde in una botte, chi è scoperto dal bastone, chi castrato dal coltello, chi è messo in zambra da la fante, chi trattone dal famiglio, chi arrabbia di martello, chi crepa di passione, chi si consuma spettando, chi fa le fica a la speranza, chi non se ne vuol chiarire, chi dona a la sua donna per grandezza, chi le toglie per impeto, chi la tenta con le minacce, chi la scongiura con preghi, chi divulga il fine ottenuto, chi non confessa il suo gaudio, chi si vanta de la bugia, chi dissimula la veritade, chi celebra il suggetto che l'arde, chi vitupera la cagione che l'ha infiammato, chi non mangia per dispiacere, chi non dorme per letizia, chi compone versi, chi scrivacchia pistole, chi sperimenta incanti, chi rinnova imprese, chi consulta con le ruffiane, chi si lega al braccio un favore, chi basciucchia un fioretto tocco da la manza, chi trimpella il liuto, chi biscanta un mottetto, chi assalta il rivale, chi è ucciso dagli emuli, chi si cruccia per una madonna e chi spasima per una baldracca. Comprese le cose predette, mi rivoltai a gli incendi muliebri; e vidi come il diavolo per gastigarle de la perversità ch'elle usano con quegli che le servono, le lodano e le adorano, le dà in preda d'un pedante, d'un plebeo, d'un goffo, d'uno isbatta fattore, d'uno sgraziato e d'una pelaruola che le giunge. Onde non gli giova dire: oimè Iddio, oimè Dimonio; benché il mio maggiore spasso fu ne gli andari di quei civettini, che le vogliono tutte. Io standomi astratto ne le galle di cotali fioramuzzi, andai registrando la sciocchezza d'alcuni dettarelli tisichi e d'altre lor facezie oppilate, per via de le quali si credono civanzare la grazia de le dame corteggiate da la presunzione, che gli calza e veste. Dopo posto mente a la setta de' compariti a le feste, mi si fece stomaco, solo a vedere con quale importunità i balordi tolgon su a ballare le più belle e le più degne. A la fine vado guardando per le chiese, e visto in che maniera i bestiuoli rapiscono con gli occhi quante ne vengono a messa, scorgo un certo pater nostro d'ambracane, che appoggiato ad una colonna in gesto languido, si cava di seno non so che lettera inviluppata in due dita di raso verde, e deplorato seco alquanto, ve la ripone; dopo tratto il fazzoletto in alto lo ripiglia in atto disdegnoso, e datogli due trattine co' denti, fa segno de la durezza de la diva e de la crudeltà del fato; tal ch'io, nimico di simili caca spezie, isguaino una freccia, per cavargli il grillo del fegato; ma parendomi biasimo il ferire un par suo di strale, mi acconcio l'arco tra le mani ben bene, et in quello che io mi muovo per rifrustarlo come uno asino, diedi sì gran percossa ne la lettiera, che mi destai con tutte le dita rotte; onde è forza, che io le vada a mostrare al medico, or ora.
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