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Pietro Aretino La Talanta IntraText CT - Lettura del testo |
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Scena XII
ORFINIO Io non credo di aver fatto, da ch'io vi conosco, mai cosa sì a carico de l'onore e de la pace vostra, che dovreste entrare in gara di concorrenza meco, e perché io fuggo le questioni, come la infamia, vi prego a distorvi da la pratica di quella Talanta, che mi fa viver morto; ché certo non vi mancheranno de le altre di più bellezza e di manco orgoglio, sì che lasciate cotale impresa a me, perocché ella è proprio suggetto da punire le mie colpe; che ciò facendo, voglio che in eterno disponiate di questa vita, la quale son per ispendere contra qualunque uomo tentasse di levarmi la donna ch'io dico. ARMILEO Il voler che una cosa pubblica diventi privata, onde non ci abbia a fare altri che voi, è di maggior vanità, che non saria la stoltizia di colui, che non volesse, che il sole spuntasse fuori con più d'un raggio, e che quel poi illuminasse solamente lui. Duolmi de l'affanno che di ciò pigliate, ma non posso giovarvi, conciossiaché il medesimo gastigo che merita il cor vostro, che ha preso ad amare Talanta, si deve anco al mio che l'ama. ORFINIO Io mi risolvo a cavare il cuore a chi mi vorrà tor costei. ARMILEO Né in questo, né in altro son per mancare a l'onor mio. ORFINIO Deh! ARMILEO A me non fanno paura l'ombre. ORFINIO Né io temo gli arbori. ORFINIO Amarla in mio dispregio? ORFINIO La diffiniremo altrove. ORFINIO Poi che la rabbia mi mena di qua, di qua andrò. PENO La cosa è ita bene, la Iddio mercé. ARMILEO Andiamo dentro, che son tutto contaminato.
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