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Capitolo V
Della dottrina che diede ad alquanti frati inducendoli a virtù.
Ed un giorno essendo pregato da alquanti frati che desse loro alcuna regola e ordine di vivere, rispuose che bene sì bastava la divina Scrittura a dirizzare e regolare tutta la nostra vita; niente meno diceva che molto era ottima cosa che i frati si confortassero e consolassero insieme, e però disse:
"Proponetemi voi ciascuno come a padre quello che dubitate, ed io, perciocchè per lunga esperienza sono più dotto, a ciascuno soddisfarò, rispondendo al suo dimando come a figliuolo"; ma vedendo che tutti tacevano per reverenzia di lui, incominciò a parlare, e disse:
"Questo sia comunemente a tutti lo primo comandamento, cioè di non intiepidire nè istancare nel santo proponimento, ma parendogli ogni giorno di cominciare, come se mai nulla avesse fatto, sempre si studi e si sforzi di migliorare, considerando che tutto il tempo e spazio di questa vita agguagliato all'eternità è meno che un punto".
E poichè ebbe così detto, tacette un poco, e in quello mezzo pensando della smisurata benignità di Dio, anche con grande fervore incominciò a parlare, e disse:
"In questa presente vita sono eguali i prezzi colle derate: chè veggiamo che chi vuole comprare alcuna cosa, non ne dà più che gli paia che vaglia; ma non avviene così del regno del cielo, perciocchè per la larghezza di Dio riceve uomo premio e gaudio infinito di servigio di poco tempo, chè, come dice la Scrittura, lo tempo della vita nostra è forse settant'anni, e ciò che è da indi innanzi è fatica e pena; e per questo poco tempo, se il vogliamo spendere in servigio di Dio, riceveremo gloria eterna in cielo quanto all'anima e quanto al corpo. Però priegovi, fratelli miei, che la fatica non v'incresca nè metta paura, nè la vanagloria vi piaccia, nè facciavi lenti e guasti lo vostro merito, che, come dice l'Apostolo, non sono condegne le passioni di questa vita a agguagliarsi alla gloria che se ne riceve, e ogni gloria e laude di questa vita è da reputare vile e fallace e niente appresso quella. Nullo adunque, considerando che ha lasciato il mondo, gli paia d'avere lasciato grande cosa; perciocchè tutta la terra colla sua gloria e ricchezza, a comparazione del cielo, è niente. Se dunque chi tutto il mondo possedesse, per Dio il lasciasse, non dee reputare d'avere lasciato grande cosa; molto maggiormente quegli che ha lasciato alcuno suo podere e ricchezza particulare non si dee vanagloriare, nè reputare d'avere assai fatto, nè pentirsi, come se non isperasse di ricevere buono cambio: che come dispregerebbe l'uomo una dramma di metallo per averne cento d'oro, così e molto più dee fare chi lasciasse eziandio la signoria e la gloria di tutto il mondo, sperando d'avere cento cotandi maggiore e molto migliore gloria in cielo. All'ultimo questo è da pensare, che, se eziando pur vogliamo tenere queste ricchezze mondane, almeno alla morte le ci conviene lasciare, quantunque c'incresca. Perchè dunque non facciamo della necessità virtù, lasciando ora volontariamente quelle cose che di qui a poco ci converrà lasciare morendo o vogliamo noi, o no? Di niuna di quelle cose dee curare il monaco e ogni servo di Dio che non può portare seco al cielo; e sole quelle dobbiamo cercare e desiderare che ci perducono al cielo; ciò sono le virtudi e le buone opere, come sono pazienzia, umiltà, mansuetudine, pietà, devozione, fede perfetta in Dio e carità di Dio e del prossimo. Consideriamo anche che noi siamo servi di Dio, e la naturale giustizia e ragione ci dimostra che siamo tenuti di servire a colui che ci creò. Onde come il servo, pognamo che abbia servito al suo signore per lo tempo passato, non è però assoluto di non servirlo per lo tempo presente e futuro, e obbedire allo 'mperio e comandamento del suo signore, o per timore o per amore; e così molto maggiormente noi, ci conviene ubbidire continuamente ai comandamenti divini, pensando massimamente che il discreto giudice Iddio in quello stato che egli truova l'uomo alla morte, in quello il giudica; come si mostrò in Giuda e in molti altri, ai quali non valsero le passate buone opere, poiché la morte gli colse in malo stato. È dunque da tenere continuo e fervente lo rigore della penitenza, sperando nell'aiuto di Dio; perocchè, come dice la Scrittura, a ogni uomo che si propone di ben fare, Iddio dà aiuto: e per vincere ogni negligenza pensiamo che, come dice l'Apostolo, che disse: Ogni dì moiamo; onde noi pensando la dubbiosa e pericolosa condizione dell'umana vita, non peccheremo mai. Che se, levandoci la mattina dal sonno, temessimo di giugnere vivi a sera, e coricandoci la sera temessimo di non vedere il giorno, e così sempre avessimo in memoria gl'incerti e vari pericoli della nostra natura fragile e mortale, tosto vinceremmo ogni affetto e desiderio carnale e mondano e ogni appetito di vendetta e di carnalità o d'altra qualunque cosa viziosa, stando sempre sospesi e paurosi per l'ora della morte, la quale sempre averemmo innanzi gli occhi. E però vi prego, carissimi figliuoli e fratelli, che con ogni sollecitudine ci sforziamo di pervenire al fine del nostro proponimento. Nullo miri indietro pentendosi di quello che ha lasciato, considerando l'esemplo della moglie di Lotto, che tornò in istatua di sale, perocchè si rivolse verso Sodoma contro al comandamento di Dio; ed anche la sentenza di Cristo, per la quale dice nel Vangelo: Nullo che pone mano all'aratro e guastasi dietro, è acconcio e degno d'aver lo regno di Dio. Non crediate, pregovi, e non reputate impossibile di venire a virtù, e non vi paia peregrino e fuor di natura questo studio della virtù, la quale dipende dal nostro arbitrio, e abbiamone naturalmente quasi un seme in noi medesimi, cioè un desiderio e amore, se la mala volontade non lo affogasse. Veggiamo che gli uomini del mondo, volendo imprendere sapienza e scienza mondana, discorrono per diverse parti del mondo per mare e per terra; ma noi, per imprendere virtù e guadagnare Iddio, non fa bisogno d'andare attorno, perciocchè in ogni parte del mondo può l'uomo meritare il cielo; onde Cristo disse: Lo regno del cielo è dentro da voi; la virtù, che in noi naturalmente è radicata, richiede pure la volontà nostra. E chi dubita che la naturale purità dell'anima, se non fosse inquinata di peccato sia fonte e principio di virtude? che bisogno è di confessare che il buon Creatore la creasse buona. Buona adunque la ci raccomandò Iddio; serviamgliele così come ei la ci diede: e secondochè ci ammaestra san Giovanni Battista, dirizziamo lo nostro cuore e le nostre vie a lui. Allora certo fia diritta l'anima nostra quando la naturale sua integritade non sia maculata di peccato; che se l'uomo esce fuori della naturale puritade, allora pecca. Servando dunque la nostra condizione e virtù, bastiti, o uomo, lo naturale ornamento, e non mutare l'opera del tuo Creatore; perocchè volerla mutare è un guastare. Serbiamo dunque al nostro Creatore la mente pura da ogn'ira e da ogni desiderio terreno; perciocchè, come dice Santo Iacopo, lo desiderio genera peccato, e il peccato, poichè è conceputo e compiuto, genera morte eterna".