La giornata di un
nevrastenico
(Bologna)
La vecchia
città dotta e sacerdotale era avvolta di nebbie nel pomeriggio di dicembre. I
colli trasparivano più lontani sulla pianura percossa di strepiti. Sulla linea
ferroviaria si scorgeva vicino, in uno scorcio falso di luce plumbea lo scalo
delle merci. Lungo la linea di circonvallazione passavano pomposamente sfumate
figure femminili, avvolte in pelliccie, i cappelli copiosamente romantici,
avvicinandosi a piccole scosse automatiche, rialzando la gorgiera carnosa come
volatili di bassa corte. Dei colpi sordi, dei fischi dallo scalo accentuavano
la monotonia diffusa nell’aria. Il vapore delle macchine si confondeva colla
nebbia: i fili si appendevano e si riappendevano ai grappoli di campanelle dei
pali telegrafici che si susseguivano automaticamente.
Dalla
breccia dei bastioni rossi corrosi nella nebbia si aprono silenziosamente le
lunghe vie. Il malvagio vapore della nebbia intristisce tra i palazzi velando
la cima delle torri, le lunghe vie silenziose deserte come dopo il saccheggio.
Delle ragazze tutte piccole, tutte scure, artifiziosamente avvolte nella sciarpa
traversano saltellando le vie, rendendole più vuote ancora. E nell’incubo della
nebbia, in quel cimitero, esse mi sembrano a un tratto tanti piccoli animali,
tutte uguali, saltellanti, tutte nere, che vadano a covare in un lungo letargo
un loro malefico sogno.
Numerose
le studentesse sotto i portici. Si vede subito che siamo in un centro di
cultura. Guardano a volte coll’ingenuità di Ofelia, tre a tre, parlando a fior
di labbra. Formano sotto i portici il corteo pallido e interessante delle
grazie moderne, le mie col leghe, che vanno a lezione! Non hanno l’arduo
sorriso d’Annunziano palpitante nella gola come le letterate, ma più raro un
sorriso e più severo, intento e masticato, di prognosi riservata, le
scienziate.
(Caffè) E’
passata la Russa. La piaga delle sue labbra ardeva nel suo viso pallido. E’
venuta ed è passata portando il fiore e la piaga delle sue labbra. Con un passo
elegante, troppo semplice e troppo conscio è passata. La neve seguita a cadere
e si scioglie indifferente nel fango della via. La sartina e l’avvocato ridono
e chiacchierano. I cocchieri imbacuccati tirano fuori la testa dal bavero come
bestie stupite. Tutto mi è indifferente. Oggi risalta tutto il grigio monotono
e sporco della città. Tutto fonde come la neve in questo pantano: e in fondo
sento che è dolce questo dileguarsi di tutto quello che ci ha fatto soffrire.
Tanto più dolce che presto la neve si stenderà ineluttabilmente in un lenzuolo
bianco e allora potremo riposare in sogni bianchi ancora.
C’è uno
specchio avanti a me e l’orologio batte: la luce mi giunge dai portici a
traverso le cortine della vetrata. Prendo la penna: Scrivo: cosa, non so: ho il
sangue alle dita: Scrivo: «l’amante nella penombra si aggraffia al viso
dell’amante per scarnificare il suo sogno..... ecc. ». (Ancora per la via )
Tristezza acuta. Mi ferma il mio antico compagno di scuola, già allora
bravissimo ed ora di già in belle lettere guercio professor purulento: mi
tenta, mi confessa con un sorriso sempre più lercio. Conclude: potresti provare
a mandare qualcosa all’Amore Illustrato (Via). Ecco inevitabile sotto i portici
lo sciame aereoplanante delle signorine intellettuali, che ride e fa glu glu
mostrando i denti, in caccia, sembra, di tutti i nemici della scienza e della
cultura, che va a frangere ai piedi della cattedra. Già è l’ora! vado a
infangarmi in mezzo alla via: l’ora che l’illustre somiero rampa con il suo
carico di nera scienza catalogale
Sull’uscio
di casa mi volgo e vedo il classico, baffuto, colossale emissario
Ah! i
diritti della vecchiezza! Ah! quanti maramaldi!
(Notte)
Davanti al fuoco lo specchio. Nella fantasmagoria profonda dello specchio i
corpi ignudi avvicendano muti: e i corpi lassi e vinti nelle fiamme inestinte e
mute, e come fuori del tempo i corpi bianchi stupiti inerti nella fornace
opaca: bianca, dal mio spirito esausto silenziosa si sciolse, Eva si sciolse e
mi risvegliò. Passeggio sotto l’incubo dei portici. Una goccia di luce
sanguigna, poi l’ombra, poi una goccia di luce sanguigna, la dolcezza dei
seppelliti. Scompaio in un vicolo ma dall’ombra sotto un lampione s’imbianca
un’ombra che ha le labbra tinte. O Satana, tu che le troie notturne metti in
fondo ai quadrivii, o tu che dall’ombra mostri l’infame cadavere di Ofelia, o
Satana abbi pietà della mia lunga miseria!
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