CAPITOLO
XXVI
Viaggio di
Candido a Costantinopoli
Il fedele
Cacambo avea già ottenuto la permissione da padrone turco, che andava a
ricondurre il sultano Acmet a Costantinopoli, di potere ricevere a bordo
Candido e Martino. L'uno e l'altro vi si trasferirono dopo d'essersi inchinati
avanti a sua miserabile altezza. Candido, nell'andare a bordo, disse a Martino:
- Ecco intanto sei re detronizzati, co' quali abbiamo cenato, e fra questi sei
re ve n'è ancora uno a cui ho fatto l’elemosina, Vi saranno forse altri
principi molto più infelici; per me io non no perduto se non cento montoni, e
volo nelle braccia a Cunegonda: mio caro Martino, qualche volta Pangloss avea
ragione tutto è bene. - Io lo desidero, rispose Martino. - Ma, ripigliò
Candido, è un'avventura ben poco verosimile quella che ci si è presentata a
Venezia; non si era giammai veduto nè udito che sei re detronizzati si
trovassero a cenar insieme all'osteria. - Questo non è più stravagante, disse
Martino, di tante altre cose che ci sono accadute. È cosa comunissima che vi
sieno de' re balzati dal trono, e rispetto all’onore che abbiamo avuto di cenar
con loro, è una bagattella che non merita la nostra attenzione.
Appena che
Candido fu nel vascello, saltò al collo del suo antico servo, del suo amico
Cacambo: - Ebbene, gli disse, che fa Cunegonda? è ella sempre un prodigio di
bellezza? mi ama ella sempre? come sta ella? Tu gli hai senza dubbio comprato
un palazzo a Costantinopoli?
- Mio caro padrone, rispose Cacambo, Cunegonda
rigoverna le scodelle sulle sponde della Propontide, in casa di un principe che
ha pochissime scodelle; ella è schiava in casa d'un antico sovrano chiamato
Ragotski, a cui il Gran Turco dà tre scudi il giorno, e l'asilo; ma ciò che è
ben più tristo, si è che ella ha perduta la sua bellezza ed è diventata
orribilmente brutta. - Ah! o bella o brutta, dice Candido, io son galantuomo, e
il mio dovere è di amarla sempre; ma come mai può ella essersi ridotta in uno
stato si miserabile co' cinque o sei milioni che tu avevi portati? - Buono!
dice Cacambo, non mi è abbisognato di dare due milioni al signor don Fernando
d’Ibaraa y Figueora y Mascarenes y Lampourdos y Souza, governatore di
Buenos-Aires, per ottenere Cunegonda? Ed un pirata non ci ha bravamente
spogliati di tutto il resto? Questo pirata non ci ha egli condotti al capo di
Matapan, a Milo, a Nicaria, a Samos, a Petra, a Dardanelli, a Marmora, a
Scutari? Cunegonda e la vecchia servono quel principe, di cui vi ho parlato, ed
io son schiavo del sultano detronizzato. - Che spaventevoli calamità
concatenate le une alle altre! dice Candido; ma finalmente io ho ancora alcuni
diamanti, e libererò facilmente Cunegonda. Ma è un peccato che sia divenuta sì
brutta.
Indi
rivolgendosi a Martino: - Chi pensate voi che sia più degno di compassione
l'imperatore Acmet, l'imperatore Ivan, il re Carlo Odoardo, od io?
- Non lo so, risponde Martino, bisognerebbe
che io fossi ne' loro cuori per saperlo. - Ah, dice Candido, se fosse qui
Pangloss ei lo saprebbe. - Io non so, ripiglia Martino con quali bilance il
vostro Pangloss potrebbe pesare l’infelicità degli uomini e valutare i lor
dolori; io son di sentimento che vi sieno de' milioni d'uomini sulla terra da
compiangersi molto più del re Carlo Odoardo, dell'imperatore Ivan e del sultano
Acmet. - Potrebb'essere risponde Candido.
Arrivarono in
pochi giorni sul canale del mar Nero. Candido cominciò dal riscattare Cacambo a
caro prezzo e senza perder tempo, s'imbarcò sopra una galera co’ suoi compagni,
per andare sulla riva della Propontide a cercar Cunegonda, per quanto brutta
esser potesse.
Vi erano fra
la ciurma due forzati che remavano malissimo, e a' quali il padrone levantino
applicava di tempo in tempo alcune nerbate sulle nude spalle. Candido, per una
naturale compassione, gli osservava più attentamente degli altri galeotti, e
s'avvicinò tutto pietoso verso di loro. Alcuni tratti del viso disfigurato di
due di quei miserabili gli parvero aver qualche similitudine con Pangloss, e
col disgraziato gesuita, quel barone, quel fratello di madamigella Cunegonda.
Tali somiglianze lo intenerirono e lo attristarono; e sempre più considerandoli
attentamente, disse a Cacambo: - Se io non avessi veduto impiccare il maestro
Pangloss, e se non avess'io, per mia disgrazia, ammazzato il barone, crederei
che fossero quelli là che remano.
Al nome del
barone e di Pangloss, i due forzati alzarono delle strida, si fermarono sul
loro banco, e si lasciarono cadere i remi. Il padrone levantino accorse, e
raddoppiò loro lo nerbate. - fermate, fermate, signore, grida Candido, io
vorrei... - Come! questo è Candido! si dicono l'un l'altro i due forzati. -
Sogno, dice Candido, o son desto? Son io in questa galera? È quello là il
signor barone che ho ammazzato? e quello là il maestro Pangloss, che io ho
veduto impiccare?
- Siamo noi, siamo noi, rispondean essi. -
Come! è quello là il gran filosofo? dicea Martino. - Eh, signor padrone! dice
Candido, qual somma volete voi per il riscatto di Thunder-ten-tronckh, uno de'
primari baroni dell'impero, e del signor Pangloss, il più profondo metafisico
dell’Alemagna? - Can di cristiano, risponde il levantino padrone, giacchè
questi due cani di forzati cristiani son baroni e metafisici, che sono, senza
dubbio, dignità grandi nel lor paese, tu mi darai cinquantamila zecchini. - Voi
li avrete, signore, conducetemi come un fulmine a Costantinopoli, e li avrete
addirittura; ma no, conducetemi da madamigella Cunegonda. Il padrone levantino,
alla prima offerta di Candido, aveva girata la prora verso la città, e facea
remare con maggior impeto d’un uccello che fenda l'aria.
Candido
abbracciò cento volte il barone e Pangloss. - E come non vi ho io ammazzato mio
caro barone? e come, mio caro Pangloss siete restato in vita dopo d'avervi
veduto impiccare? e perchè siete tutti e due in galera in Turchia? - È vero che
mia sorella sia in questo paese? diceva il barone. - Sì, rispose Cacambo. - Io
rivedo dunque il mio caro Candido, gridava Pangloss.
Candido
presentò loro Martino e Cacambo; tutti si abbracciarono, e parlavan tutti a una
volta; la galera volava ed eran già nel porto. Si fece venire un ebreo a cui
Candido vendè per cinquantamila zecchini un diamante del valor di centomila,
perchè l'ebreo giurò per Abramo che non potea pagarlo di più. Candido pagò
incontanente il riscatto del barone o di Pangloss. Questi gettossi ai piedi del
suo liberatore e lo bagnò di lacrime; l’altro lo ringraziò con un segno di
testa, e promise di rendergli il danaro alla prima occasione.
- Ma è possibile, diceva questi, che mia
sorella sia in Turchia? - Niente di più possibile, riprese Cacambo, giacchè
ella lava i piatti in casa di un principe di Transilvania.
Si fecero
immediatamente venir due ebrei; Candido vendè nuovamente alcuni diamanti, e
tutti si rimbarcarono in un'altra galera per andare a liberare Cunegonda.
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