III
Ne la stagion che 'l bel tempo rimena,
di mia man posi un ramuscel di Lauro
a mezo colle, in una piaggia amena,
che di bianco, d'azur, vermiglio e d'auro
fioriva sempre, e sempre il sol scopriva,
o fusse all'Indo o fusse al lito mauro.
Quivi traendo or per erbosa riva,
or rorando con man la tepida onda,
or rimovendo la gleba nativa,
or riponendo più lieta e feconda,
fei sì con studio e con assidua cura,
che 'l Lauro ebbe radice e nuova fronda.
Fu sì benigna a' miei desir Natura,
che la tenera verga crescer vidi,
e divenir solida pianta e dura.
Dolci ricetti, solitari e fidi,
mi fur queste ombre, ove sfogar potei
sicura il cor con amorosi gridi.
Vener, lasciando i templi citerei
e li altari e le vittime e li odori
di Gnido e di Amatunte e de' Sabei,
sovente con le Grazie in lieti cori
vi danzò intorno; e per li rami in tanto
salian scherzando i pargoletti Amori.
Spesso Diana con le ninfe a canto
l'arbuscel suavissimo prepose
alle selve d'Eurota e d'Erimanto.
E queste ed altre dèe sotto l'ombrose
frondi, mentre in piacer stavano e in festa,
benediron tra lor chi il ramo pose.
Lassa! onde uscì la boreal tempesta?
onde la bruma? onde il rigor e il gelo?
onde la neve, a' danni miei sì presta?
Come gli ha tolto il suo favore il Cielo?
Langue il mio Lauro, e de la bella spoglia
nudo gli resta e senza onor il stelo.
Verdeggia un ramo sol con poca foglia,
e fra téma e speranza sto suspesa,
se mi lo lasci il verno o mi lo toglia.
Ma più che la speranza il timor pesa
che contra il giaccio rio, ch'ancor non cessa,
il debil ramo avrà poca difesa.
Deh! perché, inanzi che sia in tutto oppressa
l'egra radice, non è chi m'insegni
com'esser possa al suo vigor rimessa?
Febo, rettor de li superni segni,
aiuta 'l sacro Lauro, onde corona
più volte avesti nei tessali regni;
concedi, Bacco, Vertunno e Pomona,
satiri, fauni, driade e napee,
che nuova fronde il Lauro mio ripona;
soccorran tutti i dèi, tutte le dèe
che de li arbori han cura, l'arbor mio;
però che gli è fatal: se viver dee,
vivo io, se dee morir, seco moro io.
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