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Ludovico Ariosto Rime IntraText CT - Lettura del testo |
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XI
Gentil città, che con felici augùri dal monte altier che forse ben per sdegno ti mira sì, qua giù ponesti i muri, come del meglio di Toscana hai regno, così del tutto avessi! ché 'l tuo merto fòra di questo e di più imperio degno. Qual stil è sì facondo e sì diserto che de le laudi tue corressi tutto un così lungo campo e così aperto? Del tuo Mugnon potrei, quando è più asciutto, meglio i sassi contar che dir a pieno quel ch'ad amarti e riverir m'ha indutto, più presto che narrar quanto sia ameno e fecondo il tuo pian, che si distende tra verdi poggi insin al mar Tirreno; o come lieto Arno lo riga e fende, e quinci e quindi quanti freschi e molli rivi, tra via, sotto sua scorta prende. A veder pien di tante ville i colli, par che 'l terren ve le germogli, come vermene germogliar suole e rampolli. Se dentro un mur, sotto un medesmo nome, fusser raccolti i tuoi palazzi sparsi, non ti sarian da pareggiar due Rome. Una so ben che mal ti può uguagliarsi, e mal forse anco avria possuto prima che li edifici suoi le fussero arsi da quel furor che uscì dal freddo clima or de' Vandali, or de' Eruli e or de' Goti, all'italica rugine aspra lima. Dove son se non qui tanti devoti, dentro e di fuor, d'arte e d'ampiezza egregi tempii, e di ricche oblazion non vuoti? Chi potrà a pien lodar li tetti regi de' tuoi primati e' portici e le corti de' magistrati e publici collegi? Non ha il verno poter ch'in te mai porti di sua immondizia, sì ben questi monti t'han lastricata sino alli angiporti. Piazze, mercati, vie marmoree, ponti, tali belle opre de' pittori industri, vive sculture, intagli, getti, impronti; il popul grande e di tanti anni e lustri l'antique e chiare stirpi, le ricchezze, l'arte, li studi e li costumi illustri, le leggiadre manere e le bellezze di donne e di donzelle, a cortesi atti senza alcun danno d'onestade avezze; e tanti altri ornamenti che ritratti porto nel cor, meglio è tacer ch'al suono di tanto umile 'vena se ne tratti. Ma che larghe ti sian d'ogni suo dono Fortuna a gara con Natura, ahi lasso! a me che val se in te misero sono? se sempre ho il viso mesto e il ciglio basso, se di lacrime ho gli occhi umidi spesso, se mai senza sospir non muto il passo? Da penitenzia e da dolore oppresso di vedermi lontan da la mia luce trovomi sì, ch'odio talor me stesso. L'ira, il furor, la rabbia mi conduce a biastemiar chi fu cagion ch'io venni, e chi a venir mi fu compagno e duce, e me che senza me di me sostenni lasciar, oimè! la meglior parte, il core, e più all'altrui ch'al mio desir m'attenni. Che di ricchezza, di beltà, d'onore sopra ogn'altra città d'Etruria sali, che fa questo, Fiorenza, al mio dolore? Li tuoi Medici, ancor che sieno tali che t'abbian salda ogni tua antica piaga, non han però rimedio alli miei mali. Oltra que' monti, a ripa l'onda vaga del re de' fiumi, in bianca e pura stola, cantando ferma il sol la bella maga che con sua vista può sanarmi sola.
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