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Ludovico Ariosto
Rime

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  • EGLOGHE
    • I
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EGLOGHE

 

I

 

Interlocutori: TIRSI e MELIBEO

 

TIRSI

Dove vai, Melibeo, doveratto,

or che da' paschi erbosi alle fresche onde

col gregge anelo ogni pastor s'è tratto;

or che non pur crolar vedi una fronde,

or che 'l verde ramarro all'ombra molle

de la spinosa sepe si nasconde?

Non odi che risuona il piano e il colle

del canto de la stridula cicada?

non senti che la terra e l'aria bolle?

 

MELIBEO

Tirsi, qualor bisogna andar, si vada;

né si resti per caldo né per gelo,

né per pioggiagrandine che cada.

Anch'io saprei sotto l'ombroso velo

d'un olmo antico o d'un fronzuto faggio

godermi sin che si temprasse il cielo;

ma più che vinti miglia ho di viaggio,

e qui, prima che sia l'ora di aprire

alle lanose torme, a tornare aggio.

Mopso non longi mi dovria seguire:

ch'ambi a condurre andiam pecore e boi

che Titiro a Fereo solea notrire.

 

TIRSI

Comprili tu, che gli abbiano esser tuoi?

o pur di Mopso? o pur altri t'invia,

forse più ricco spenditor di voi?

 

MELIBEO

Io so ben che tu sai che né la mia

né la condizion di Mopso è tale

ch'abbi a pensar che per noi questo sia.

Tanto di chi ne manda il poter sale,

che dietro lui la nostra umil fortuna

a mille gradi non batter l'ale.

Mandaci Alfenio; Alfenio è che raduna

ciò ch'esser di Fereo prima solea,

campo, pasco, orto, ovil, bosco e lacuna.

Così, s'al pensier l'opra succedea,

Fereo non a lui solo e mandre e ville,

ma, quel ch'è più, la vita tòr volea.

E cadean con Alfenio più di mille,

e davamo ancor noi forse in le reti,

se Fereo le tendea ben come ordille.

Io ho da dirti mille altri secreti

da far te uscir di te; ma quella fretta

che gir mi fa, mi fa tenerli cheti.

 

TIRSI

Sin che sia giunto Mopso almeno aspetta;

intanto quel che po' narrar mi narra,

e stianci qui su questa fresca erbetta.

Se 'l fai, ti do la fede mia per arra

di star un giorno intègro a tuo comando

o vogli con la falce o con la marra.

 

MELIBEO

Villan sarei s'io te 'l negasse, quando

mi preghi tanto; ma non stiam qui fermi:

gli è meglio passo passo andar parlando.

 

TIRSI

Non so a cui possa o debbia fede avermi,

se con quei che ci son tanto congiunti

non possiam star securamente inermi.

 

MELIBEO

Li mal consigli che v'ha Iola aggiunti

a quella cupidigia di Fereo

i molli fianchi han stimulati e punti.

Ma che sia Iola d'ogni vizio reo

meraviglia non è, ché mai di volpe

nascer non viddi panteraleo.

Egli ha cui simigliar de le sue colpe,

ché la malignità paterna ha inclusa

ne l'anima, ne l'ossa e ne le polpe.

 

TIRSI

Nol partorì ad Eraclide Ardeusa,

nascosamente compressa da lui

ne li secreti lustri di Padusa?

 

MELIBEO

Così fu mai d'Eraclide costui

come sono io d'un asino o d'un bue:

nacque nel suo, ma il seme era d'altrui.

Emofil, tra' pastori orrida lue,

più giotto a' latronecci ed omicidi

ch'al pampino le mie capre o le tue,

fe' come il cucco l'ova in gli altrui nidi,

avendo dal patron la ninfa in cura:

miser pastor che l'agna al lupo affidi!

Contempla le fatezze e la statura

di Iola, ed indi Emofil ti racorda,

e così il ramo all'arbor rafigura.

Pon mente come l'un con l'altro accorda

l'invida mente e l'ostinata rabbia,

d'oro, di sangue e d'adultèri ingorda.

 

TIRSI

Non perché da te solo inteso l'abbia,

ma per spiarne tutta tua credenza,

fingendo ammirazion strinsi le labbia.

Udito l'ho da più di dieci, senza

l'ancilla de la giovena; or tu vedi

s'io 'l so, se per udir se n'ha scienza.

Ma lascia Iola ed all'inganno riedi;

e come me n'hai móstro il capo e il petto,

fa ch'io ne veda ancor le braccia e' piedi.

Che altri aveano a questa impresa eletto

io vedo, ché dui soli erano pochi

a dare a tanta iniquitate effetto.

 

MELIBEO

Il comodo che aveano in tutti i luochi

d'Alfenio, come quei ch'erano seco

sempre in convivi, in sacrifici, in giochi,

fe' che vidde Fereo, con occhio bieco,

che pochi più bastavan, con breve arme,

a mandarlo cultor del mondo cieco.

E non pur lui, ma che pensasse parme

occider gli altri dui suoi frati insieme,

per quanto da chi 'l sa posso informarme.

 

TIRSI

Oh desir empio! oh scelerata speme

ch'al nefario pensier Fereo condusse,

di spegner tre con lui nati d'un seme!

Dirai ch'egli d'Eraclide non fusse

se ne la ripa di Sebeto amena

la castissima Argonia gliel produsse?

 

MELIBEO

E il vero a forza a non negar mi mena,

stran mi par, quando d'eletto grano

il loglio nasca e la steril avena.

Ma perché chiesto tu non m'abbi invano

chi altri al tradimento è che prestasse

favor o col consiglio o con la mano:

al canuto Silvan gran colpa dasse,

al gener più, che quasi per le chiome

il ribambito suocero vi trasse.

L'altro non so se Boccio è detto o come;

Gano è l'estremo, anzi il primiero in dolo,

a cui forse era Ingan più proprio in nome.

 

TIRSI

Che Gan sia in colpa, ho più piacer che duolo;

perché fra tanti uomini del mondo

m'era, né so la causa, in odio solo:

se però parli d'un carnoso e biondo

che solea Alfenio tra' suoi cari amici

stimar più presto il primo che 'l secondo.

 

MELIBEO

Io dico di quel biondo che tu dici,

come nel corpo d'ésca, sonno ed ocio,

così grasso ne l'anima di vici;

di quel che di vil servo fatto socio

aveasi Alfenio, e facea cosa raro

senza lui, di piacere o di negocio.

Comperollo già Eraclide, e tal paro

ho di boi di più prezzo che non ebbe

colui che gliel vendé, quantunque avaro;

a cui di sua ricchezza non increbbe;

e con publica invidia odi parlarne,

ma 'l fine arà ch'a sua vita si debbe.

Spero veder la sua putida carne

pascer i lupi, e l'importuni augelli

gracchiarli intorno, e scherno e stracio farne.

 

TIRSI

Come si son così scoperti, s'elli

non eran più? Perc'han tardato farlo,

s'aveano ognora i comodibelli?

 

MELIBEO

Fereo fu come il sorco o come il tarlo,

che nascoso rodendo fa sentirse

da chi non avea cura di trovarlo.

Tacendo ne potea libero girse,

ma 'l timor ch'egli avea d'esser scoperto

fu tanto ch'egli stesso andò a scoprirse;

e rende a' suoi seguaci or questo merto,

che tratti gli ha come pecore al chiuso,

e poi la notte al lupo ha l'uscio aperto.

Né meno ancor fu dal timor confuso

quantunque volte per conchiuder venne

con l'opra quel ch'avea il pensier conchiuso;

onde sin qui tra ferro e tòsco indenne

è giunto Alfenio, mercé quel vil core

che la man pronta sul ferir ritenne.

Siamo adunque obrigati a quel timore

che dal ferro difese e dal veneno

la nostra guardia e 'l nostro almo pastore.

Come è nostro pensier ch'ora abbia fieno

e stalla il gregge, ora salubri paschi,

e quando fiume o canal d'acqua pieno,

così gli è cura sua che non si caschi

in peste, in guerra, in carestia, che 'l grande

del minor le fatiche non intaschi.

Hai sentito ch'alcun mai gli dimande

cosa che iusta sia, che da sé vuoto

o poco satisfatto lo rimande?

 

TIRSI

Io credo che già a quel chiedere a vòto

più non si , né dal patre traligni,

a cui fui, sua mercé, come a te noto.

Lodando il figlio, Eraclide mi pigni,

del quale io, sebben nato ed uso in boschi,

trovai gli effetti in me tutti benigni.

 

MELIBEO

Oltra che umano sia, vuo' che 'l conoschi

pel più dotato om che si trovi, e volve

gli Ombri, gl'Insubri, li Piceni e Tóschi.

Che saggio e cauto sia, te ne risolve

questo, ch'al varco abbia saputo accòrre

quei ch'aver sel credean sotto la polve.

Chi sa meglio espedir, meglio disporre

quel che conven? Non è intricato nodo

che l'alto ingegno suo non sappia sciorre.

Qual forte 'sbergo è del suo cor più sodo?

a cui Fortuna far mille insulti,

ma non che sia per sminuirne un chiodo.

Vedi tu in altri costumiculti?

Gli po' tu in sì vil cosa esser cortese,

ch'amplissima mercé non ti risulti?

Hai tu sentiti i ladri nel paese,

di che prima solea dolerse ognuno,

poscia ch'egli di noi custodia prese?

Mira che qui quel che nessuno,

né però vuol conceder contra il iusto

cosa a sé che negata abbia ad alcuno.

Io non ti lodarò l'aspetto augusto,

né quell'altro che fuor vedi tu stesso,

il corpo alle fatiche atto e robusto.

 

TIRSI

Quanto è miglior, tanto più grave eccesso,

e meritevol di maggior supplicio

chi ha cercato occiderlo ha commesso.

 

MELIBEO

Ben si dir che 'l Ciel ne sia propicio:

che non pur d'un, di tre, di quattro ed otto,

ma vetato abbia un gran publico essicio.

Una tanta roina e sì di botto

non è quasi possibil che si spicchi,

che molta turba non v'accoglia sotto.

Prima ai nimici, e poi veniano a' ricchi,

fingendo novi falli e nòve leggi,

perché si squarti l'un, l'altro s'impicchi.

Ch'era di ciò cagion credo tu 'l veggi:

per non pagar del suo gli empi seguaci,

ma de li solchi altrui, de li altrui greggi.

Veduto aresti romper tregue e paci,

surger d'un foco un altro e di quel diece,

anzi d'ogni scintilla mille faci.

Qual cosa non faria, qual già non fece

un popular tumulto che si trove

sciolto, ed a cui ciò ch'appetisce lece?

 

TIRSI

Queste son strane e veramente nòve

nuove che narri, e viemmene un ribrezzo

che 'l cor m'aggiaccia e tutto mi commove.

Deh! se dovunque vai trovi aura e rezzo,

che credi tu ch'avria fatto la moglie,

se 'l caro Alfenio tolto era di mezzo?

 

MELIBEO

Come tortora in ramo senza foglie,

che, poi ch'è priva del fido consorte,

sempre più cerca inasperar le doglie.

 

TIRSI

Sarebbe stato, appresso il caso forte

del iusto Alfenio, e quella orrenda e vasta

ruina che traea con la sua morte,

gran duol veder che la sua donna casta,

saggia, bella, cortese e pellegrina,

in stato vedovil fusse rimasta.

Io me trovai dove in dui rami inclina

il destro corno Eridano e si dole

che tanto ancor sia lungi alla marina.

Godease la lucertola già al sole,

e' pastorelli in le tepide rive

ivan cercando le prime viole,

quando in manere accortamente schive

giunse Licoria in mezo onesta schiera

di bellissime donne, anzi pur dive;

dove sposolla Alfenio, ove l'altèra,

pomposa e mai non più veduta festa

il padre celebrò, ch'ancor vivo era.

Io vidi tutte l'altre, e vidi questa,

or sole ad una ad una, e quando in coro,

e quando in una e quando in altra vesta.

Quale è il peltro all'argento, il rame all'oro,

qual campestre papavero alla rosa,

qual scialbo salce al sempre verde alloro,

tale era ogn'altra alla novella sposa;

gli occhi di tutti in lei stavano intenti,

per mirarla obliando ogn'altra cosa.

Quivi di Ausonia tutta i più eccellenti

pastori eran; quivi era il fior raccolto

de le nostrali e de l'estrane genti.

Tutti la singular grazia del volto,

le liggiadre fattezze, il bel simbiante

e quel celeste andar laudavan molto.

Ma chi noticia avea di lei più inante,

estollea più l'angelica beltade

de l'altissimo ingegno e l'opre sante.

Davano a lei quella inclita onestade

che giunta con beltà par che si stime

al nostro tempo ritrovarsi in rade.

Locava, fra le gloriose e prime

virtuti d'ella, il grande animo, sopra

il femenil contegno alto e sublime.

Onde esce quella degna ed util opra,

la qual non pur nei boni irraggia e splende,

ma ne li iniqui par che 'l vizio copra:

parlo de la virtù che dona e spende,

in che fulge ella sì che d'ogn'intorno

i raggi vibra, e i prossimi n'accende.

Tant'altre laude sue dette mi fòrno,

che pria che ad una ad una fuor sian spinte,

temo che tutto non ci basti un giorno.

 

MELIBEO

Son queste cose indarno a me depinte:

ché, se per l'altrui dir tu note l'hai,

io per esperienza le ho distinte.

Ma volta gli occhi, e Mopso vedrai,

sì che non poter star più teco dolmi,

onde conchiudo brevemente ormai:

che come ben confan le viti e gli olmi,

confanno i dui consorti, e Dio gli scelse

maggior degli altri, quanto tra gli colmi

de l'umil case escon le torri escelse.

 




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