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Ludovico Ariosto Rime IntraText CT - Lettura del testo |
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I
Interlocutori: TIRSI e MELIBEO
Dove vai, Melibeo, dove sì ratto, or che da' paschi erbosi alle fresche onde col gregge anelo ogni pastor s'è tratto; or che non pur crolar vedi una fronde, or che 'l verde ramarro all'ombra molle de la spinosa sepe si nasconde? Non odi che risuona il piano e il colle del canto de la stridula cicada? non senti che la terra e l'aria bolle?
Tirsi, qualor bisogna andar, si vada; né si resti per caldo né per gelo, né per pioggia né grandine che cada. Anch'io saprei sotto l'ombroso velo d'un olmo antico o d'un fronzuto faggio godermi sin che si temprasse il cielo; ma più che vinti miglia ho di viaggio, e qui, prima che sia l'ora di aprire alle lanose torme, a tornare aggio. Mopso non longi mi dovria seguire: ch'ambi a condurre andiam pecore e boi che Titiro a Fereo solea notrire.
Comprili tu, che gli abbiano esser tuoi? o pur di Mopso? o pur altri t'invia, forse più ricco spenditor di voi?
Io so ben che tu sai che né la mia né la condizion di Mopso è tale ch'abbi a pensar che per noi questo sia. Tanto di chi ne manda il poter sale, che dietro lui la nostra umil fortuna a mille gradi non pò batter l'ale. Mandaci Alfenio; Alfenio è che raduna ciò ch'esser di Fereo prima solea, campo, pasco, orto, ovil, bosco e lacuna. Così, s'al pensier l'opra succedea, Fereo non a lui solo e mandre e ville, ma, quel ch'è più, la vita tòr volea. E cadean con Alfenio più di mille, e davamo ancor noi forse in le reti, se Fereo le tendea ben come ordille. Io ho da dirti mille altri secreti da far te uscir di te; ma quella fretta che gir mi fa, mi fa tenerli cheti.
Sin che sia giunto Mopso almeno aspetta; intanto quel che po' narrar mi narra, e stianci qui su questa fresca erbetta. Se 'l fai, ti do la fede mia per arra di star un giorno intègro a tuo comando o vogli con la falce o con la marra.
Villan sarei s'io te 'l negasse, quando mi preghi tanto; ma non stiam qui fermi: gli è meglio passo passo andar parlando.
Non so a cui possa o debbia fede avermi, se con quei che ci son tanto congiunti non possiam star securamente inermi.
Li mal consigli che v'ha Iola aggiunti i molli fianchi han stimulati e punti. Ma che sia Iola d'ogni vizio reo meraviglia non è, ché mai di volpe nascer non viddi pantera né leo. Egli ha cui simigliar de le sue colpe, ché la malignità paterna ha inclusa ne l'anima, ne l'ossa e ne le polpe.
Nol partorì ad Eraclide Ardeusa, nascosamente compressa da lui ne li secreti lustri di Padusa?
Così fu mai d'Eraclide costui come sono io d'un asino o d'un bue: nacque nel suo, ma il seme era d'altrui. Emofil, tra' pastori orrida lue, più giotto a' latronecci ed omicidi ch'al pampino le mie capre o le tue, fe' come il cucco l'ova in gli altrui nidi, avendo dal patron la ninfa in cura: miser pastor che l'agna al lupo affidi! Contempla le fatezze e la statura di Iola, ed indi Emofil ti racorda, e così il ramo all'arbor rafigura. Pon mente come l'un con l'altro accorda l'invida mente e l'ostinata rabbia, d'oro, di sangue e d'adultèri ingorda.
Non perché da te solo inteso l'abbia, ma per spiarne tutta tua credenza, fingendo ammirazion strinsi le labbia. Udito l'ho da più di dieci, senza l'ancilla de la giovena; or tu vedi s'io 'l so, se per udir se n'ha scienza. Ma lascia Iola ed all'inganno riedi; e come me n'hai móstro il capo e il petto, fa ch'io ne veda ancor le braccia e' piedi. Che altri aveano a questa impresa eletto io vedo, ché dui soli erano pochi a dare a tanta iniquitate effetto.
Il comodo che aveano in tutti i luochi d'Alfenio, come quei ch'erano seco sempre in convivi, in sacrifici, in giochi, fe' che vidde Fereo, con occhio bieco, che pochi più bastavan, con breve arme, a mandarlo cultor del mondo cieco. E non pur lui, ma che pensasse parme occider gli altri dui suoi frati insieme, per quanto da chi 'l sa posso informarme.
Oh desir empio! oh scelerata speme ch'al nefario pensier Fereo condusse, di spegner tre con lui nati d'un seme! Dirai ch'egli d'Eraclide non fusse la castissima Argonia gliel produsse?
E il vero a forza a non negar mi mena, né stran mi par, quando d'eletto grano il loglio nasca e la steril avena. Ma perché chiesto tu non m'abbi invano chi altri al tradimento è che prestasse favor o col consiglio o con la mano: al canuto Silvan gran colpa dasse, al gener più, che quasi per le chiome il ribambito suocero vi trasse. L'altro non so se Boccio è detto o come; Gano è l'estremo, anzi il primiero in dolo, a cui forse era Ingan più proprio in nome.
Che Gan sia in colpa, ho più piacer che duolo; perché fra tanti uomini del mondo m'era, né so la causa, in odio solo: se però parli d'un carnoso e biondo che solea Alfenio tra' suoi cari amici stimar più presto il primo che 'l secondo.
Io dico di quel biondo che tu dici, come nel corpo d'ésca, sonno ed ocio, così grasso ne l'anima di vici; di quel che di vil servo fatto socio aveasi Alfenio, e facea cosa raro senza lui, di piacere o di negocio. Comperollo già Eraclide, e tal paro ho di boi di più prezzo che non ebbe colui che gliel vendé, quantunque avaro; a cui di sua ricchezza non increbbe; e con publica invidia odi parlarne, ma 'l fine arà ch'a sua vita si debbe. Spero veder la sua putida carne pascer i lupi, e l'importuni augelli gracchiarli intorno, e scherno e stracio farne.
Come si son così scoperti, s'elli non eran più? Perc'han tardato farlo, s'aveano ognora i comodi sì belli?
Fereo fu come il sorco o come il tarlo, che nascoso rodendo fa sentirse da chi non avea cura di trovarlo. Tacendo ne potea libero girse, ma 'l timor ch'egli avea d'esser scoperto fu tanto ch'egli stesso andò a scoprirse; e rende a' suoi seguaci or questo merto, che tratti gli ha come pecore al chiuso, e poi la notte al lupo ha l'uscio aperto. Né meno ancor fu dal timor confuso quantunque volte per conchiuder venne con l'opra quel ch'avea il pensier conchiuso; onde sin qui tra ferro e tòsco indenne è giunto Alfenio, mercé quel vil core che la man pronta sul ferir ritenne. Siamo adunque obrigati a quel timore che dal ferro difese e dal veneno la nostra guardia e 'l nostro almo pastore. Come è nostro pensier ch'ora abbia fieno e stalla il gregge, ora salubri paschi, e quando fiume o canal d'acqua pieno, così gli è cura sua che non si caschi in peste, in guerra, in carestia, che 'l grande del minor le fatiche non intaschi. Hai sentito ch'alcun mai gli dimande cosa che iusta sia, che da sé vuoto o poco satisfatto lo rimande?
Io credo che già a quel chiedere a vòto più non si pò, né dal patre traligni, a cui fui, sua mercé, come a te noto. Lodando il figlio, Eraclide mi pigni, del quale io, sebben nato ed uso in boschi, trovai gli effetti in me tutti benigni.
Oltra che umano sia, vuo' che 'l conoschi pel più dotato om che si trovi, e volve gli Ombri, gl'Insubri, li Piceni e Tóschi. Che saggio e cauto sia, te ne risolve questo, ch'al varco abbia saputo accòrre quei ch'aver sel credean sotto la polve. Chi sa meglio espedir, meglio disporre quel che conven? Non è intricato nodo che l'alto ingegno suo non sappia sciorre. Qual forte 'sbergo è del suo cor più sodo? a cui Fortuna far pò mille insulti, ma non che sia per sminuirne un chiodo. Vedi tu in altri costumi sì culti? Gli po' tu in sì vil cosa esser cortese, ch'amplissima mercé non ti risulti? Hai tu sentiti i ladri nel paese, di che prima solea dolerse ognuno, poscia ch'egli di noi custodia prese? Mira che qui pò quel che pò nessuno, né però vuol conceder contra il iusto cosa a sé che negata abbia ad alcuno. Io non ti lodarò l'aspetto augusto, né quell'altro che fuor vedi tu stesso, il corpo alle fatiche atto e robusto.
Quanto è miglior, tanto più grave eccesso, e meritevol di maggior supplicio chi ha cercato occiderlo ha commesso.
Ben si pò dir che 'l Ciel ne sia propicio: che non pur d'un, di tre, di quattro ed otto, ma vetato abbia un gran publico essicio. non è quasi possibil che si spicchi, che molta turba non v'accoglia sotto. Prima ai nimici, e poi veniano a' ricchi, fingendo novi falli e nòve leggi, perché si squarti l'un, l'altro s'impicchi. Ch'era di ciò cagion credo tu 'l veggi: per non pagar del suo gli empi seguaci, ma de li solchi altrui, de li altrui greggi. Veduto aresti romper tregue e paci, surger d'un foco un altro e di quel diece, anzi d'ogni scintilla mille faci. Qual cosa non faria, qual già non fece un popular tumulto che si trove sciolto, ed a cui ciò ch'appetisce lece?
Queste son strane e veramente nòve nuove che narri, e viemmene un ribrezzo che 'l cor m'aggiaccia e tutto mi commove. Deh! se dovunque vai trovi aura e rezzo, che credi tu ch'avria fatto la moglie, se 'l caro Alfenio tolto era di mezzo?
Come tortora in ramo senza foglie, che, poi ch'è priva del fido consorte, sempre più cerca inasperar le doglie.
Sarebbe stato, appresso il caso forte del iusto Alfenio, e quella orrenda e vasta ruina che traea con la sua morte, gran duol veder che la sua donna casta, saggia, bella, cortese e pellegrina, in stato vedovil fusse rimasta. Io me trovai dove in dui rami inclina il destro corno Eridano e si dole che tanto ancor sia lungi alla marina. Godease la lucertola già al sole, e' pastorelli in le tepide rive quando in manere accortamente schive giunse Licoria in mezo onesta schiera di bellissime donne, anzi pur dive; dove sposolla Alfenio, ove l'altèra, pomposa e mai non più veduta festa il padre celebrò, ch'ancor vivo era. Io vidi tutte l'altre, e vidi questa, or sole ad una ad una, e quando in coro, e quando in una e quando in altra vesta. Quale è il peltro all'argento, il rame all'oro, qual campestre papavero alla rosa, qual scialbo salce al sempre verde alloro, tale era ogn'altra alla novella sposa; gli occhi di tutti in lei stavano intenti, per mirarla obliando ogn'altra cosa. Quivi di Ausonia tutta i più eccellenti pastori eran; quivi era il fior raccolto de le nostrali e de l'estrane genti. Tutti la singular grazia del volto, le liggiadre fattezze, il bel simbiante e quel celeste andar laudavan molto. Ma chi noticia avea di lei più inante, estollea più l'angelica beltade de l'altissimo ingegno e l'opre sante. Davano a lei quella inclita onestade che giunta con beltà par che si stime al nostro tempo ritrovarsi in rade. Locava, fra le gloriose e prime virtuti d'ella, il grande animo, sopra il femenil contegno alto e sublime. Onde esce quella degna ed util opra, la qual non pur nei boni irraggia e splende, ma ne li iniqui par che 'l vizio copra: parlo de la virtù che dona e spende, in che fulge ella sì che d'ogn'intorno i raggi vibra, e i prossimi n'accende. Tant'altre laude sue dette mi fòrno, che pria che ad una ad una fuor sian spinte, temo che tutto non ci basti un giorno.
Son queste cose indarno a me depinte: ché, se per l'altrui dir tu note l'hai, io per esperienza le ho distinte. Ma volta gli occhi, e là Mopso vedrai, sì che non poter star più teco dolmi, onde conchiudo brevemente ormai: che come ben confan le viti e gli olmi, confanno i dui consorti, e Dio gli scelse maggior degli altri, quanto tra gli colmi de l'umil case escon le torri escelse.
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