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Ludovico Ariosto
Rime

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  • CANZONI
    • IV
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IV

 

Spirto gentil, che sei nel terzo giro

del ciel fra le beate anime asceso,

scarco dal mortal peso,

dove premio si rende a chi con fede

vivendo fu d'onesto amore acceso,

a me, che del tuo ben non già sospiro,

ma di me ch'ancor spiro,

poi che al dolor che ne la mente siede,

sopra ogn'altro crudel, non si concede

di metter fine all'angosciosa vita,

gli occhi che già mi fur benigni tanto

volgi alli miei, ch'al pianto

apronlarga e sì continua uscìta;

vedi come mutati son da quelli

che ti solean parer già così belli.

La infinita inefabile bellezza

che sempre miri in ciel, non ti distorni

che gli occhi a me non torni,

a me, che già mirando, ti credesti

di spender ben tutte le notti e i giorni;

e se levarli alla superna altezza

ti leva ogni vaghezza

di quanto mai qua giù più caro avesti,

la pietà almen cortese mi ti presti

che 'n terra unqua non fu da te lontana;

ed ora io n'ho da aver più chiaro segno,

quando nel divin regno,

dove senza me sei, n'è la fontana.

S'amor non può, dunque pietà ti pieghi

d'inchinar il bel sguardo alli miei prieghi.

Io sono, io son ben dessa; or vedi come

m'ha cangiata il dolor fiero ed atroce,

ch'a fatica la voce

può di me dar riconoscenza vera.

Lassa! che al tuo partir partì veloce

da le guance, da li occhi e da le chiome

quella a cui davi il nome

tu di beltà, ed io n'andava altèra,

ché mel credea, poi ch'in tal pregio t'era.

Ch'ella da me partisse allora, e s'anco

non tornasse mai più, non mi noia:

poi che tu, a cui sol gioia

di lei dar intendea, mi vieni manco.

Non voglio, non, s'anch'io non vengo dove

tu sei, che questo o ch'altro ben mi giove.

Come possibil è, quando soviemme

del bel sguardo soave ad ora ad ora,

che spento ha sì breve ora,

o di quel dolce e lieto riso estinto,

che mille volte io non sia morta o mora?

Perché, pensando all'ostro ed alle gemme

ch'avara tomba tiemme,

di ch'era il viso angelico distinto,

non scoppia il duro cor dal dolor vinto?

Come è ch'io viva, quando mi rimembra

ch'empio sepolcro e invidiosa polve,

contamina e dissolve

le delicate alabastrine membra?

Dura condizion, che morte e peggio

patir di morte e insieme viver deggio!

Io sperai ben di questo carcer tetro

che qui mi serra, ignuda anima sciorme,

e correr dietro all'orme

de li tuoi santi piedi, e teco farme

de le belle una in ciel beate forme;

ch'io vederei, quando ti fusse dietro

e insieme udisse Pietro

e di fede e d'amor da te lodarme,

che le sue porte non potria negarme.

Deh! perché tanto è questo corpo forte,

che né la lunga febre né il tormento,

che maggior nel cor sento,

potesse trarlo a disiata morte,

sì che lasciato avessi il mondo teco,

che senza te, ch'eri suo lume, è cieco?

La cortesia e il valor, che stati ascosi

non so in qual'antri e latebrosi lustri

eran molt'anni e lustri,

e che poi teco apparvero, e la speme

che in più matura etade all'opre illustri

pareggiassi di Publi e Gnei famosi

tuoi fatti gloriosi,

sì ch'a sentir avessero l'estreme

genti, ch'ancor vive di Marte il seme;

or più non veggio, né da quella notte

ch'alli occhi miei lasciasti un lungo oscuro,

mai più veduti furo:

ché ritornaro a loro antique grotte,

e per disdegno congiuraron, quando

del mondo uscir, tòrne perpetuo bando.

Del danno suo Roma infelice accorta,

disse: - Poi che costui, Morte, mi tolli,

non mai più i sette colli

luce vedran che trionfando possa

per sacra via trar catenati colli.

De l'altre piaghe, onde son quasi morta,

forse sarei risorta,

ma questa è in mezo il cor quella percossa

che da me ogni speranza m'ha rimossa. -

Turbato corse il Tibro alla marina,

e ne die' annonzio ad Ilia sua, che mesta

gridò piangendo: - Or questa

di mia progenie è l'ultima ruina. -

Le sante Ninfe, i boscarecci dèi

trassero al grido a lacrimar con lei.

E fu sentito in l'una e l'altra riva

pianger donne e donzelle e figlie e matri,

e da' purpurei patri

alla più bassa plebe il popul tutto;

e dire: - O patria, questo fra li atri

d'Alia e di Canne a' posteri si scriva:

quei giorni che captiva

restasti e che 'l tuo imperio fu distrutto,

né più di questo son degni di lutto. -

Il desiderio, signor mio, e il ricordo

che di te in tutti gli animi è rimaso,

non trarrà già all'occaso

sì presto il violento fato ingordo;

né potrà far che, mentre voce e lingua

formin parole, il tuo nome si estingua.

Pon queste appresso l'altre pene mie,

che di salir al mio signor, Canzone,

sì ch'oda tua ragione,

d'ogn'intorno ti son chiuse le vie;

piacesse ai venti almen di rapportarli

che di lui sempre o pensi o pianga o parli!

 




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