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Ludovico Ariosto Rime IntraText CT - Lettura del testo |
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CANZONI
I
Non so s'io potrà ben chiudere in rima quel che in parole sciolte fatica avrei di ricontarvi a pieno: come perdei mia libertà, che prima, Madonna, tante volte difesi, acciò non avesse altri il freno; tenterò nondimeno farne il poter, poi che così vi agrada, con desir che ne vada la fama, e a molti secoli dimostri le chiare palme e i gran trionfi vostri. Le sue vittorie ha fatto illustri alcuno, e con gli eterni scritti ha tratto fuor del tenebroso oblio; ma li perduti esserciti nessuno, e gli adversi conflitti, ebbe ancor mai di celebrar disio; sol celebrar voglio io il dì ch'andai prigion ferito a morte: ché contra man sì forte, ben ch'io perdei, per l'aver preso assalto, più che mill'altri vincere mi essalto. Dico che 'l giorno che di voi m'accesi non fu il primo che 'l viso pien di dolcezza e li real costumi vostri mirassi affabili e cortesi, né che mi fossi aviso che meglio unqua mirar non potea lumi; ma selve, monti e fiumi sempre dipinsi inanzi al mio desire, per levarli l'ardire d'entrar in via, dove per guida porse io vedea la speranza star in forse. Quinci lo tenni e mesi ed anni escluso, e dove più sicura strada pensai, lo volsi ad altro corso; credendo poi che più potesse l'uso che 'l destìn, di lui cura non ebbi; ed ei, tosto che senza morso sentissi, ebbe ricorso dove era il natural suo primo instinto; ed io nel labirinto prima lo vidi, ove ha da far sua vita, che pensar tempo avessi a darli aita. Né il dì, né l'anno tacerò, né il loco dove io fui preso, e insieme dirò gli altri trofei ch'allora aveste, tal che apo loro il vincer me fu poco. Dico, da che 'l suo seme mandò nel chiuso ventre il Re celeste, avean le ruote preste de l'omicida lucido d'Achille rifatto il giorno mille e cinquecento tredeci fiate, sacro al Battista, in mezo de la estate. Ne la tósca città, che questo giorno più riverente onora, la fama avea a spettacoli solenni fatto raccor, non che i vicini intorno, ma li lontani ancora; ancor io, vago di mirar, vi venni. D'altro ch'io vidi tenni poco ricordo, e poco me ne cale; sol mi restò immortale memoria, ch'io non vidi, in tutta quella bella città, di voi cosa più bella. Voi quivi, dove la paterna chiara origine traete, da preghi vinta e liberali inviti di vostra gente, con onesta e cara compagnia, a far più liete le feste, a far più splendidi i conviti, con li doni infiniti in ch'ad ogn'altra il Ciel v'ha posto inanzi, venuta erate dianzi, lasciato avendo lamentar indarno il re de' fiumi, ed invidiarvi ad Arno. Porte, finestre, vie, templi, teatri vidi piene di donne a giuochi, a pompe, a sacrifici intente, e mature ed acerbe, e figlie e matri ornate in varie gonne; altre star a conviti, altre agilmente danzare; e finalmente non vidi, né sentii ch'altri vedesse, che di beltà potesse, d'onestà, cortesia, d'alti sembianti voi pareggiar, non che passarvi inanti. Trovò gran pregio ancor, dopo il bel volto, l'artificio discreto, ch'in aurei nodi il biondo e spesso crine in rara e sotil rete avea raccolto; soave ombra dirieto rendea al collo e dinanzi alle confine de le guance divine, e discendea fin all'avorio bianco del destro omero e manco. Con queste reti insidiosi Amori preson quel giorno più di mille cori. Non fu senza sue lode il puro e schietto serico abito nero, che, come il sol luce minor confonde, fece ivi ogn'altro rimaner negletto. Deh! se lece il pensiero vostro spiar, de l'implicate fronde de le due viti, d'onde il leggiadro vestir tutto era ombroso, ditemi il senso ascoso. Sì ben con aco dotta man le finse, che le porpore e l'oro il nero vinse. Senza misterio non fu già trapunto il drappo nero, come non senza ancor fu quel gemmato alloro tra la serena fronte e il calle assunto, che de le ricche chiome in parti ugual va dividendo l'oro. Senza fine io lavoro, se quanto avrei da dir vuo' porr'in carte, e la centesma parte mi par ch'io ne potrò dir a fatica, quando tutta mia età d'altro non dica. Tanto valor, tanta beltà non m'era peregrina né nuova, sì che dal fulgurar d'accesi rai, che facean gli occhi e la virtute altiera, già stato essendo in pruova, ben mi credea d'esser sicur ormai. Quando men mi guardai, quei pargoletti, che ne l'auree crespe chiome attendean, qual vespe a chi le attizza, al cor mi s'aventaro, e nei capelli vostri lo legaro. E lo legaro in così stretti nodi, che più saldi un tenace canape mai non strinse né catene; e chi possa avenir chi me ne snodi, d'imaginar capace non son, s'a snodar Morte non lo viene. Deh! dite come aviene che d'ogni libertà m'avete privo e menato captivo, né più mi dolgo ch'altri si dorria, sciolto da lunga servitute e ria. Mi dolgo ben che de' soavi ceppi l'inefabil dolcezza e quanto è meglio esser di voi prigione che d'altri re, non più per tempo seppi. La libertate apprezza fin che perduta ancor non l'ha, il falcone; preso che sia, depone del gir errando sì l'antiqua voglia, che, sempre che si scioglia, al suo signor a render con veloci ale s'andrà, dove udirà le voci. La mia donna, Canzon, sola ti legga, sì ch'altri non ti vegga, e pianamente a lei di' chi ti manda; e, s'ella ti comanda che ti lasci veder, non star occulta, se ben molto non sei bella, né culta.
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