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Ludovico Ariosto Rime IntraText CT - Lettura del testo |
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XVI
O vero o falso che la fama suone, io odo dir che l'orso ciò che truova, quando è ferito, in la piaga si pone, or un'erba or un'altra, e talor prova e stecchi e spini e sassi ed acqua e terra, che affligon sempre e nulla mai gli giova. Vuol pace, ed egli sol si fa la guerra; cerca da sé scacciar l'aspro martìre, ed egli è quel che se lo chiude e serra. Ch'io sia simile a lui ben posso dire, ché, poi ch'Amor ferimmi, mai non cesso a nuovi impiastri le mie piaghe aprire, or a ferro or a foco; ed avien spesso che, cercandovi por chi mi dia aita, mortifero venen dentro v'ho messo. Io vòlsi al fin provar se la partita, se 'l star da le repulse e sdegni absente potessi risanar la mia ferita, quando provato avea ch'era possente trarmi ad irreparabile ruina a voi senza mercé l'esser presente. Ché, s'un contrario all'altro è medicina, non so perché, da l'un pigliando forza, per l'altro la mia doglia non dechina. Piglia forza da l'uno e non s'ammorza per l'altro già; né già si minuisce, anzi più per l'absenza si rinforza. Io solea dir fra me: - Dove gioisce felice alcuno in riso, in festa, in gioco, non sto bene io, che Amor qui si notrisce. - E con speranza che giovar non poco mi devess'il contrario, io venni in parte dove i pianti e le stride aveano loco. Il ferro, il foco e l'altre opre di Marte veder in danno altrui, pensai che fosse a risanar un misero bona arte. Io venni dove le campagne rosse eran del sangue barbaro e latino, che fiera stella dianzi al furor mosse; e vidi un morto e l'altro sì vicino, che, senza premer lor, quasi il terreno a molte miglia non dava il camino. E da chi alberga tra Garonna e 'l Reno vidi uscir crudeltà, che ne devria tutto il mondo d'orror rimaner pieno. Non fu la doglia in me però men ria; né vidi far d'alcun sì fiero strazio che paregiasse la gran pena mia. Grave fu il lor martìr, ma breve spazio di tempo diè lor fin. Ah crudo Amore, che d'accrescermi il duol non è mai sazio! Io notai che 'l mal lor li traea fuore del mal, perché si grave era che presto finia la vita insieme col dolore. Il mio mi pon fin su le porte, e questo medesmo ir non mi lascia, e torna indrieto e fa che mal mio grado in vita resto. Io torno a voi, né del tornar son lieto più che del partir fussi, e duro frutto de la partita e del ritorno mieto. Avendo, dunque, de' rimedi il tutto provato ad un ad un, fuor che l'absenza, ch'al fin provar m'avea il mio error indutto, e visto che mi nòce, or resto senza conforto ch'altra cosa più mi vaglia; ch'invan di tutte ho fatto esperienza. E son le maghe lungi di Tessaglia, che, con radici, imagini ed incanti oprando, possan far ch'io mi rivaglia. Io non ho da sperar più, da qui inanti, se non che 'l mio dolor cresca sì forte che, per trar voi di noia e me di tanti e sì lunghi martìr, mi dia la morte.
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