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Ludovico Ariosto
Rime

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  • MADRIGALI
    • XXVI
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XXVI

 

Or che la terra di bei fiori è piena,

e che gli augelli van cantando a volo,

il mar s'acquieta e l'aria s'asserena;

io, miser! piango in questi boschi solo,

e notte e giorno e dal mattino a sera,

e la mia vita pasco sol di duolo.

Per me non è né mai fu primavera,

ma nebbia, pioggia, pianto, ira e dolore,

dopo ch'io 'ntrai ne l'amorosa schiera.

Non so se palesar ancor l'ardore

debba o tenerlo pur nel petto ascoso,

per non far crescer sdegno al mio signore;

ma già drento e di fuor ha tanto roso

la fiamma, che tutt'ardo, e più non posso

trovar al mio languir pace o riposo.

Più non ho sangue in vena, e meno in osso

medolla alcuna, né color in volto:

tanto fortuna e 'l ciel m'hanno percosso.

Però col mio parlar a voi mi volto,

fiori, erbe, fronde, selve, boschi e sassi,

poich'ogni altro auditor Amor m'ha tolto.

Voi testimoni sète quanti passi

errando feci in queste vostre rive

coi piedi stanchi, tormentati e lassi.

Fiumi, torrenti, e voi, fontane vive,

sapete le mie pene, stenti e guai,

e quant'umor dagli occhi miei derive.

E tu, soave vento, che ne vai

per queste fronde, sai quanti sospiri

e quanti gridi verso il ciel mandai.

Fera non è che quivi intorno giri

che non sappi 'l mio stato e l'esser mio,

l'angustie, le fatiche e li martìri.

O cieli, o fato, o destìn aspro e rio

sotto cui nacqui; o dispietata stella,

com'ognor sei contraria al mio disio!

O Fortuna perversa, iniqua e fella;

o Amor crudel e d'ogni mal radice,

ben stolto è chi dà orecchie a tua favella!

Tu dimostrasti farmi il più felice

che mai si ritrovasse tra li amanti,

per farmi po' in un punto il più infelice.

Non son nel regno tuo perle o diamanti

che non sian pieni di pungenti spine,

date per premio di sospiri e pianti.

Qual lingua potria dir mai le ruine

che per te già son state, e quante gente

per tua cagion son giunte a miser fine?

Per te si ritrovò Troia dolente;

per te cangiossi Dafne in verde alloro,

de la cui doglia ancor Febo ne sente;

per te Piramo e Tisbe sotto 'l moro

con le sue proprie man si dier la morte;

per te Pasife si congiunse al toro;

per te Dido, costante, ardita e forte,

passossi 'l petto nel partir di Enea;

per te Leandro giunse a trista sorte;

per te la cruda e rigida Medea

occise il suo fratel; ed altri mille

per te sentirno pena acerba e rea.

Non escon d'Etna fuor tante faville,

quanti son morti per tuo mal governo,

né dà tant'erbe aprile a prati e ville.

Il tuo non è già regno, ma uno inferno

ove sempre si piange e si sospira,

ove si vive con affanno eterno.

Non ti meravigliar se son pien d'ira,

s'io mi lamento, signor impio e crudo,

ch'a dirti 'l ver ragion mi sforza e tira.

Tu me legasti a un arbor verde e nudo,

ch'in sé non avea ancor vigor né possa;

al qual fui per diffesa sempre scudo

a ciò non fusse sua radice mossa

per freddo o caldo, per tempesta o vento,

o da folgor del ciel fiaccata o scossa.

Sempre vi stava con ogni arte intento,

con ogni ingegno e forza lo nutriva,

e del suo frutto me tenea contento.

Ma poi che 'l crebbe e in sino al ciel fioriva,

e che del frutto avea qualche speranza,

altri l'accolse, e fu mia mente priva.

Quest'è il costume tuo, quest'è l'usanza,

fallace Amor; però in pianto destino

fornir il breve tempo che m'avanza,

e per il mondo andar qual peregrino,

maledicendo te del mal ch'io porto,

fin che morte interrompa il mio camino.

E s'alcun mai trovasse 'l corpo morto,

prego ciascun che 'l lassi sopra terra,

ché, poi che in vita fui senza conforto,

dopo morto con fère abbi ancor guerra.

 




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